In questi anni di infinita crisi economica non è passato inosservato agli studiosi più accorti il fatto che la crisi non è crisi per tutti e che, più che di una diminuzione della ricchezza, si dovrebbe parlare di una sua radicale redistribuzione, un processo che è del resto sempre in corso nella società capitalistica, benché con ritmi e velocità diversi. Negli ultimi anni, la corsa verso una redistribuzione sempre più diseguale della ricchezza ha avuto nei paesi a democrazia consolidata una formidabile accelerazione, con accumuli sproporzionati fra pochissimi e una restrizione altrettanto sproporzionata per tutti gli altri, e soprattutto per coloro che già erano ai livelli più bassi della scala sociale. Questa crisi ha aumentato la diseguaglianza con l’esito che molti di più sono ora i poveri che poveri resteranno per lungo tempo. Ha falcidiato più velocemente di prima i redditi e la ricchezza (già limitati) dei meno abbienti. Questo è avvenuto insieme all’erosione delle risorse pubbliche destinate a programmi e servizi sociali, cosa che ha aggravato il livello di bisogno e perfino di indigenza. Crisi economica e declino dello stato sociale si sono dunque sommati e hanno prodotto effetti dirompenti in termini di diseguaglianza e di povertà assoluta. La parola crisi è, pertanto, troppo generica se non coniugata insieme a due domande: ‘crisi per chi?’; ‘impoverimento di quanti’?
Definire e contare il numero dei poveri e il ritmo di impoverimento è un inizio di risposta, non ancora una risposta esaustiva poiché, come ci ha insegnato Amartya Sen, la povertà deve essere studiata sempre in relazione al contesto nel quale le persone vivono concretamente per cui l’analisi sulla povertà, vecchia e nuova, e sull’impoverimento e la sua velocità e intensità non deve mai essere dissociata dall’analisi della ricchezza, vecchia e nuova, e delle forme, intensità e dimensione dell’arricchimento. Eppure, individuare, studiare e analizzare la ragione del successo dei ricchi è tutt’altro che facile. In effetti, mentre dei poveri si sa tutto, dei ricchi e super ricchi (soprattutto quando si tratta di ricchezza per reddito) si sa poco o nulla, come spiegano Franzini, Granaglia e Raitano nel loro libro Dobbiamo preoccuparci dei ricchi?
Dei poveri si sa tanto presumibilmente perché si teme la loro potenziale reazione, la ribellione. E’ una storia antica quanto la democrazia, il governo che Aristotele denominò “dei poveri”, di quelli che possono usare il potere del numero (maggiore) per passare leggi punitive verso i ricchi (meno numerosi). I poveri hanno sempre fatto paura. L’economia di mercato che si regge sul lavoro salariato è riuscita a domare questa paura, e ancora prima a superare l’antico dualismo poveri/ricchi, mediante la formazione di una larga classe media, di gente né troppo ricca né troppo povera che è diventata il caposaldo della stabilità politica. In questo modo sono stati neutralizzati i poveri: riducendoli in numero, in modo da non farli essere più la spina dorsale della democrazia. E i ricchi?
Una volta che i poveri sono diventati pochi in numero e comunque non la maggioranza come in antichità, anche i ricchi sembrano essere diventati innocui per la stabilità sociale. Nella democrazia moderna pare dunque che di essi non ci si debba preoccupare, che non ci sia nulla da dire in quanto i ricchi sono una forza di stabilità, perché hanno tutto l’interesse a conservare l’ordine nel quale avviene il loro arricchimento. Sembra dunque che i ricchi siano, non meno del ceto medio, i naturali amici della democrazia, una forza di stabilità e di sostegno. E poiché si studia in genere ciò che è o può essere ragione di crisi, di problema, di instabilità, sembrerebbe ovvio non doversi occupare dei ricchi. Ma allora, perché i democratici, da che esistono, si sono sempre molto preoccupati dei ricchi e veramente ricchi? Certo, non per equalizzare le fortune (democrazia non è la stessa cosa di socialismo) ma per evitare che la condizione economica sia una ragione per distribuire ed esercitare il potere politico.
Le democrazie sono regimi politici fondati sull’eguaglianza di potere politico e l’eguaglianza per legge. Ciò a cui aspirano è di tenere la diseguaglianza economica fuori dal potere politico. Questa ambizione è davvero molto difficile da soddisfare. Si è anzi dimostrata più difficile mano a mano che la democrazia si stabilizza. La democrazia degli inizi è forse più ‘pura’ ma progressivamente si intorbidisce. Strana storia, che merita qualche parola anche per dar conto di un paradosso che ci fa capire quanto sia urgente preoccuparsi dei ricchi, contrariamente alla vulgata secondo la quale essi sarebbero appunto i migliori difensori del sistema che consente il loro arricchimento. Il problema dei ricchi è la pleonessia per cui non vi è mai limite a quanto essi possono fare per avere più ricchezza.
Come alcuni scienziati politici e storici della politica ci dicono, più la società democratica dura nel tempo più si stabilizza perché l’uso delle procedure e l’applicazione della legge contribuiscono a formare nei cittadini quegli abiti mentali e comportamentali che sono funzionali al sistema. Cosicché mentre è prevedibile che la democrazia abbia difficoltà iniziali (la fase critica della creazione della costituzione), essa tende a rafforzarsi nel tempo, proprio perché l’ordine sociale libero vive della cooperazione di tutti, e quindi forma nei singoli una seconda natura che fa credere ciascuno co-produttore del sistema stesso. Qui si innesta il paradosso.
Il paradosso è che le diseguaglianze che si formano possono contare proprio sul clima di assuefazione alla democrazia che cresce col tempo. In un clima generale di libertà e di eguaglianza per legge, i cittadini democratici sembrano diventare più tolleranti anche verso le diseguaglianze sociali pensando forse che non incideranno sul loro potere politico, come d’altra parte recita la costituzione. Il paradosso è questo: quel che è scritto nella costituzione deve diventare etica diffusa perché la democrazia si stabilizzi, eppure, nel frattempo esso tende a diventare un’ideologia, un ‘dover essere’ che sempre meno rispecchia la realtà, la quale è sempre più distante dalla norma. Da principi regolativi dell’azione politica, le promesse della costituzione diventano ideali separati dal reale anche se i cittadini si identificano con essi come fossero verità sostanziali. Questo spiega perché c’è meno indignazione per le diseguaglianze mano a mano che la democrazia si stabilizza, o perché di indignazione ce n’era più agli inizi – per esempio, negli anni della Seconda guerra e del primo dopo guerra, i veramente ricchi statunitensi versavano all’erario molto più di oggi, mentre erano restii a mostrare il loro benessere ai loro concittadini coltivando costumi morigerati, quasi a non voler offendere il sentimento di eguaglianza, quasi a non voler alimentare la credenza che la società americana fosse lontana dalla norma scritta nella Dichiarazione di Indipendenza. Oggi, non è più così.
Pertanto, i ricchi sono un problema non meno dei poveri, e forse più dei poveri. Essi sono, si potrebbe dire, degli amici subdoli che approfittano della forza della seconda natura, della credenza nell’eguaglianza che la democrazia rafforza, per operare indisturbati, aumentando il loro potere economico e soprattutto infiltrandosi in quello politico, con il rischio di sovvertire dall’interno l’ordine democratico, senza che questo si veda. Il lavoro sotterraneo è un lavoro tutto ideologico e opera diffondendo alcuni valori che all’apparenza sembrano coerenti ai principi egualitari ma che sono attuati e realizzati in modo da violare quel principio. L’uso truffaldino del linguaggio democratico è quel che rende i ricchi e veramente ricchi nemici subdoli.
Prendiamo per esempio l’ideologia che identifica la “meritocrazia” con la democrazia. E’ comprensibile che in una società, come quella italiana, dove parenti e amici contano sempre molto, più delle vocazioni e delle doti personali, il richiamo al merito appaia rivoluzionario (ma attenzione: tra i ricchi di tutto il mondo, le relazioni di clientela o ‘amicali’ sono un passaporto largamente usato per il successo personale). E’ meno comprensibile che si trascuri di dire che, per non essere privilegio mascherato, il merito richiede molta attenzione alla distribuzione eguale delle condizioni di partenza, ovvero uno stato sociale forte e un sistema normativo che mantenga la competizione sempre aperta. Ed è ancora meno comprensibile che non si presti attenzione al fatto che la società democratica è vulnerabile alla strategia messa in atto da coloro che dopo aver beneficiato delle condizioni di libera competizione cercano di chiudere le porte d’ingresso per assicurarsi dal rischio di perdere quel che hanno conquistato (tendenza al monopolio). Le politiche liberiste e di smantellamento dello stato sociale hanno questo obiettivo, mascherato dietro l’ideologia del merito. Ha la democrazia le capacità di neutralizzare questo problema? Ce l’ha solo se insieme all’etica della competizione e della responsabilità individuale sviluppa anche quella della giustizia sociale e se adotta politiche sociali e di redistribuzione della ricchezza volte a formare le capacità di riuscita sociale nel più gran numero di persone. E’ lo stato sociale che dà alla democrazia politica gli anticorpi normativi e ideali per resistere alla sfida lanciata dall’accumulazione della ricchezza.