Il finanziamento dell’Università e la meritocrazia in salsa italiana

Francesco Ferrante parte dalla bozza di decreto ministeriale sull’assegnazione delle risorse alle università. Il criterio adottato, quello dei costi standard, è condivisibile ma la sua applicazione è del tutto insoddisfacente. Il punto principale riguarda l’esclusione dei fuori corso dal calcolo del fabbisogno. Il presupposto è che la loro presenza sia dovuta a carenze delle Università. Riportando i risultati di un recente test Ferrante mostra che, invece, è decisiva la qualità degli studenti al momento in cui entrano nelle Università.

Criteri del tutto condivisibili applicati talvolta nel modo sbagliato producono effetti nefasti. Questo rischia di essere il caso del principio del costo standard, utilizzato per assegnare risorse alle università italiane attraverso il Fondo di Finanziamento Ordinario. Lo scopo del principio, del tutto condivisibile, è quello di evitare che si impieghino più risorse di quelle che l’esperienza ha dimostrato essere necessarie. Applicato alle università il principio consiste nel definire un’unità di misura per il calcolo del fabbisogno standard. Come risulta dalla bozza di decreto resa nota in questi giorni, il Ministero ha individuato tale unità nel numero di studenti in corso o regolari. Proprio questa scelta rischia di produrre effetti nefasti a partire da un principio condivisibile.

I presupposti della scelta del Ministero sono due, entrambi erronei. Il primo è che gli studenti fuori corso non incidano sul fabbisogno di risorse; in realtà essi gravano sulle risorse della struttura universitaria non meno degli studenti regolari, perché si presentano più volte agli esami e necessitano spesso di maggiore assistenza. Il secondo presupposto, quello su cui più mi soffermerò, è che la presenza dei fuori corso ha un solo responsabile: le università presso le quali sono iscritti e le loro carenze.

Gli studenti non regolari sono tali in realtà anche e soprattutto perché molto spesso presentano potenziali di resa inferiori, dovuti a carenze nelle competenze di base, derivanti a loro volta dagli ambienti socioculturali meno favorevoli di provenienza. Non di rado si tratta, infatti, di studenti che sono costretti a lavorare per mantenersi agli studi.
Un’ampia letteratura, a cavallo tra l’economia e la psicologia, mostra che la tecnologia di formazione delle capacità cognitive e non cognitive si caratterizza per la cumulatività dei processi sottostanti e per la presenza di significative complementarietà e irreversibilità nella generazione delle competenze che alimentano gli apprendimenti lungo la filiera formativa [Cunha e Heckman, American Economic Review 2007]. In particolare, con l’avanzare lungo la filiera, risulta sempre più difficile recuperare eventuali deficit di apprendimento.

Altrettanto ampia e consolidata è l’evidenza empirica sul ruolo essenziale giocato dai fattori di contesto nei processi di apprendimento (famiglia di provenienza, ambiente sociale e scolastico), indipendentemente dalle istituzioni formative e dai docenti.
A questo risultato giungono le indagini nazionali ed internazionali sulla qualità di processi di apprendimento primario (PISA, INVALSI), che testimoniano anche la presenza di grandi differenze territoriali nel nostro paese (Figure 1 e 2).

Figura 1. Punteggi PISA 2012 nella lettura per regione e circoscrizione. Fonte Invalsi, 2012
Figura 1. Punteggi PISA 2012 nella lettura per regione e circoscrizione. Fonte Invalsi, 2012
Figura 2. Punteggi PISA 2012 nella matematica per regione e circoscrizione. Fonte Invalsi, 2012
Figura 2. Punteggi PISA 2012 nella matematica per regione e circoscrizione. Fonte Invalsi, 2012

Si tratta di un’eterogeneità che ha origini antiche, riferibili anche ai ritardi nei processi di istruzione e, soprattutto, di alfabetizzazione primaria [Bertola e Sestito, Quaderni di Storia Economica, Banca d’Italia, 2011], che non può non pesare sulla performance del sistema di istruzione secondaria e terziaria e che va oltre le differenze di natura strettamente socio-economica tra territori e famiglie di provenienza.

La presenza mediamente più elevata di studenti irregolari nelle università del Mezzogiorno e del Centro non può, quindi, sorprendere: essa è la conseguenza della diversa distribuzione territoriale sia dei risultati dei testi standardizzati sugli apprendimenti sia della performance socioeconomica.
Sulla base di queste considerazioni e allo scopo di individuare il ruolo della qualità degli studenti all’ingresso nelle università, presso AlmaLaurea è stato realizzato un esercizio empirico basato sull’utilizzo congiunto dei risultati del test standardizzato CISIA, quale indicatore della qualità effettiva degli studenti in ingresso all’università in termini potenziale di apprendimento, e della documentazione AlmaLaurea per ciò che concerne le altre variabili in gioco (Ferrante, Alma Laurea Working Paper, n.49, 2012).

Il test standardizzato CISIA è articolato in cinque sezioni di quesiti che tendono sia a verificare le conoscenze di base dei partecipanti sia a saggiare le loro attitudini per gli studi di ingegneria. Le cinque sezioni di quesiti contenute nel fascicolo sono nell’ordine: logica, comprensione verbale, matematica 1, scienze fisiche e chimiche, matematica 2. Il test ha anche il pregio di assorbire gli effetti e le interazioni fra tratti soggettivi e fattori contestuali, restituendo una misura delle capacità cognitive e non cognitive in un’età in cui esse dovrebbero essersi consolidate e stabilizzate (Tabella 1).

Tab 1.  Facoltà di ingegneria aderenti ad AlmaLaurea. percentuale di studenti regolari e punteggio medio nel test CISIA
Tab 1. Facoltà di ingegneria aderenti ad AlmaLaurea. percentuale di studenti regolari e punteggio medio nel test CISIA

L’analisi ha preso in considerazioni le 24 sedi universitarie elencate nella tabella 1 e, inoltre, ha riguardato i laureati di primo livello del triennio 2008-10. Le elaborazioni statistiche mostrano che la qualità degli apprendimenti nelle scuole secondarie degli immatricolati alle facoltà di ingegneria ha un significativo impatto sulla regolarità degli studi. Ceteris paribus, per uno studente con caratteristiche medie, al crescere del punteggio medio del test di ingresso CISIA di una deviazione standard, la probabilità di laurearsi in regola cresce del 12%. La più immediata implicazione di questo risultato è che, una volta depurata la performance in uscita dei laureati dagli effetti della qualità degli studenti in ingresso e degli altri fattori rilevanti, il ranking delle diverse sedi universitarie in termini di regolarità degli studi dei propri studenti muta radicalmente.

Evidentemente queste conclusioni non escludono che i meriti o le carenze delle università abbiano un ruolo nel determinare il fenomeno dei fuori corso, ma si tratta di un ruolo secondario. La causa principale è un’altra.
La questione di fondo spesso elusa è che gli studenti sono insieme l’input fondamentale e l’output dei processi formativi e, quindi, riferirsi in astratto alla “qualità della scuola e dell’università”, senza considerare la qualità dei suoi studenti, è metodologicamente inappropriato [Zhang, Education Economics, 2009]. Ciò è particolarmente rilevante quando è forte la variabilità nella qualità delle scuola secondaria e la mobilità degli studenti è ridotta. La misurazione della performance in uscita degli studenti e dei laureati dovrebbe essere di interesse non soltanto per le famiglie, le università e le imprese, ma anche per il policy maker responsabile dell’attribuzione dei fondi. Ma, così come un’impresa è interessata ad attuare strategie volte ad aumentare il proprio valore aggiunto più che il fatturato per addetto, anche il policy maker dovrebbe essere interessato a destinare le risorse pubbliche in relazione alla capacità delle diverse istituzioni universitarie di valorizzare al meglio i loro input, piuttosto che in base ai risultati misurati in uscita (tasso di dispersione, regolarità degli studi, inserimento occupazionale ecc.), che risentono anche della qualità degli studenti in ingresso. Non è un caso che l’attenzione per la misurazione della performance del sistema formativo sulla base del valore aggiunto sia ben maggiore nei paesi dove la cultura della valutazione è più diffusa e sedimentata.

Queste conclusioni assumono valenza crescente col passaggio da sistemi d’istruzione terziaria caratterizzati da una forte omogeneità in ingresso degli immatricolati, a sistemi a più ampio accesso, quali sono quelli verso i quali si sono mossi i paesi OCSE e l’Europa nel corso degli ultimi 20-30 anni, inevitabilmente contraddistinti da una maggiore eterogeneità: una eterogeneità che non potrà che crescere, per motivi legati all’accesso all’università di giovani che provengono da contesti sociali ed educativi svantaggiati, se si terrà fede all’impegno sancito dal documento Europa 2020, che fissa un target del 40% per ciò che concerne la quota di laureati nella fascia d’età 30-34 anni.
In presenza di condizioni di partenza eterogenee, l’utilizzo artigianale della valutazione basato su indicatori di performance in uscita, favorito anche dalla scarsa disponibilità di informazioni e dal loro costo, rischia di condurre a premiare sedi universitarie che, pur non essendo particolarmente virtuose, godono di condizioni più favorevoli. In questo modo, in un sistema cronicamente sotto-finanziato, si sottrarrebbero risorse preziose alle sedi collocate in contesti più disagiati, indipendentemente dai loro meriti.

La tesi secondo cui “qualunque valutazione è meglio di nessuna valutazione” appare priva di validità scientifica, soprattutto se l’obiettivo auspicabile è quello di diffondere, accreditandola, la cultura della valutazione. A questo scopo, sarebbe opportuno procedere al più presto ad una standardizzazione dei test in entrata, su base nazionale, differenziata per area disciplinare, e a una celere valorizzazione dell’anagrafe degli studenti, in modo da potere tracciare le carriere accademiche di questi ultimi.

L’adozione di criteri meritocratici di allocazione dei fondi alle scuole e alle università che non tenga conto di queste indicazioni, in assenza di efficaci strumenti di sostegno al diritto allo studio (soprattutto nella forma delle borse di studio e di un’adeguata politica di edilizia universitaria) accentuerebbe i processi di polarizzazione del sistema formativo. Ne risulterebbero penalizzati gli studenti meno mobili, provenienti soprattutto dai gruppi sociali più svantaggiati, indipendentemente dal loro talento, e le scuole/università collocate in contesti più disagiati, indipendentemente dai meriti o demeriti del personale che vi opera. La mobilità non è legata, d’altro canto, solo a fattori economici, ma anche a barriere di natura sociale e culturale, rispetto alle quali l’eventuale introduzione di incentivi economici compensativi avrebbe scarsa efficacia.

Uno studio empirico riferito a un paese mobile come gli USA mostra che l’allungamento nei tempi di completamento da parte degli studenti appartenenti alle fasce sociali più deboli sia addebitabile, in buona parte, alla riduzione delle risorse a disposizione delle istituzioni educative pubbliche di quel paese (Bound, Lovenheim e Turner, NBER Working Paper, 2010). Questo quadro nefasto è proprio quello che rischia di affermarsi con l’impropria applicazione del pur condivisibile principio dei costi standard.

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