Il lungo sonno dell’Italia e dell’Eurozona/2

Francesco Farina, nella seconda parte del suo articolo, prosegue l’analisi dei problemi strutturali dell’economia italiana e del ruolo dell’euro. Farina ritiene che chi auspica un ritorno alla lira dimentica, fra l’altro, che il contesto economico europeo è irreversibilmente mutato rispetto a vent’anni fa e sostiene che bisognerebbe illuminare meglio la “zona grigia” fra economia e politica, trovando lo spazio di contrattazione nel quale ottenere il sostegno di politiche comuni europee nell’ambito di un credibile impegno ad un recupero di efficienza del sistema-Italia.

Il mondo creato in Europa dalla moneta unica e dall’integrazione finanziaria ha molti punti in comune con il nuovo mondo nato con l’avvento della globalizzazione. La sua cifra fondamentale è l’accresciuta interdipendenza fra tutti i paesi sulla maggior parte dei mercati. Più interdipendenza vuole dire più esternalità, ovvero un danno creato da una parte agente di cui la parte soccombente non porta alcuna colpa e per il quale non riceve indennizzo. La teoria economica insegna che in tutti i casi come questo, nei quali l’utilità di un agente dipende dal comportamento di un altro agente – invece che soltanto dal prezzo che autonomamente domanda ed offerta determinano nel mercato – siamo al di fuori della sfera di competenza del mercato e deve entrare in campo la politica. Facciamo un paio di esempi.

Cosa può fare un paese che vede lo spread sul proprio debito pubblico schizzare verso l’alto, non per una politica fiscale dissennata ma perché la declinante sostenibilità fiscale di un altro paese provoca l’effetto-contagio che incrementa l’avversione al rischio dei mercati? Oppure, di fronte alla competizione fiscale attuata da altri membri dell’Eurozona, che incentiva le multinazionali ad abbandonare il paese, cosa può fare un governo che non voglia o non possa permettersi un abbassamento della tassazione? E via dicendo. In tutti questi casi la risposta è: nulla, perché il meccanismo di aggiustamento dei prezzi di mercato non funziona; soltanto l’azione cooperativa fra i governi può salvare dalle esternalità negative non solo i paesi maggiormente colpiti ma anche l’Eurozona nel suo complesso.

Molti invitano Francia ed Italia a coalizzarsi e presentarsi unite al confronto con la Germania, in modo da mettere in discussione il suo dominio assoluto in Europa. Tuttavia, al di là delle alleanze, una soluzione politica alla crisi economica dell’Eurozona non è ancora facile da immaginare. Non solo perché al tavolo negoziale, fra qualche mese, la probabile, rinnovata, grande coalizione di Berlino potrà – come è accaduto tante volte – farà valere la forza economica del paese, che possiamo riassumere nel vantaggio di poter portare avanti le proprie politiche economiche senza avere bisogno del preventivo consenso dei partner europei. Ma perché esiste una “zona grigia” fra economia e politica nella quale gli interessi nazionali possono prosperare – ed essere difesi al tavolo delle trattative – in modo legittimo. Ad esempio: dove finisce il diritto del paese leader in Europa di appropriarsi di una porzione dell’interscambio commerciale intra-eurozona che rappresenta ben il 9% del suo PIL complessivo, e dove comincia il diritto degli altri membri dell’Eurozona di chiedere alla Germania di ridurre il surplus commerciale, mediante una ripresa dei salari e della spesa pubblica che innalzi il rapporto domanda interna/domanda estera? E’ vero che uno dei mille accordi dell’Eurozona, il Six Pack, prevede il limite massimo del 6% del PIL (benché senza sanzioni in caso di mancato rispetto). La Germania può però vantare buone ragioni per una scelta di politica economica che guarda esclusivamente al proprio interno, ad esempio il rapido invecchiamento della popolazione che spinge i tedeschi a risparmiare molto, causa principale del surplus di conto corrente.

Il punto è che la posizione tedesca è debole sotto l’oggettivo profilo dell’analisi economica, in quanto la partecipazione ad un’area monetaria comune impone di contemperare i propri interessi con quelli altrui. L’invito rivolto dai governanti tedeschi ai partner dell’Eurozona a non lamentarsi, ma piuttosto sforzarsi di essere altrettanto competitivi della Germania, è palesemente invalido: se anche tutti gli altri paesi membri si comportassero allo stesso modo, qualcuno dovrebbe cedere quote di esportazioni a tutti gli altri, ed il candidato ideale sarebbe proprio la Germania! Nel non voler vedere questa incongruenza, i governanti tedeschi fanno finta di ignorare che l’aggregato degli scambi intra-eurozona non può essere diverso da zero. Questo atteggiamento rivela il particolare punto di vista del paese: una teoria politico-economica – l’Ordoliberalismo – che ha addirittura portato politici ed economisti tedeschi ad appellarsi davanti alla propria Corte Costituzionale di Karlsruhe, revocando in dubbio la liceità delle scelte di politica economica della BCE. Il fatto è che in base alla Grundnorm, l’ordinamento giuridico tedesco è l’imprescindibile pilastro sul quale si erge il sistema economico del paese, ed è perciò sovradeterminato al dettato di qualunque trattato politico od economico stipulato con altri paesi, Trattato di Lisbona dell’Unione europea compreso, e quindi a maggior ragione rispetto alla politica del governatore della BCE. E, come è ben noto, tale primato dello Stato federale è così importante che la competitività delle imprese tedesche è stata all’inizio del nuovo millennio rafforzata con le riforme del mercato del lavoro, che hanno ulteriormente aumentato il vantaggio dell’industria manifatturiera in termini di costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP). Di fatto, con lo zelante aiuto di Bruxelles e la dignitosa resistenza di Draghi, l’austerità imposta all’Europa è servita ad accrescere il deprezzamento reale dell’economia tedesca, e quindi la competitività, di un paese solo e cioè a sostenere il surplus di conto corrente dell’economia tedesca. In breve, la svalutazione reale l’ha fatta per primo il paese più forte, rendendo così ancora più oneroso sul piano economico, e doloroso sul piano sociale, l’aggiustamento verso il basso di salari e prezzi che tanti altri paesi sono oggi costretti ad intraprendere.

Ciò che non convince del “modello tedesco” è dunque la sua origine in fattori che fanno dipendere la crescita non dalle interdipendenze che si generano in un processo di integrazione come quello europeo, ma dalle politiche nazionali dell’offerta, in primo luogo dall’abbattimento del CLUP Non investendo all’interno e puntando tutto sulle esportazioni manifatturiere in Europa, in Cina e negli Stati Uniti, la Germania è il campione della globalizzazione in un paese solo. L’austerità è la tipica politica che beneficia i paesi che fondano la propria crescita sulla domanda estera, invece di puntare sulla domanda interna, sostenuta da alti salari e consumi, da una crescente spesa pubblica e da un alto volume di investimenti privati innovativi.

I limiti dell’Europa a guida tedesca non possono però distoglierci da un’analisi fredda delle gravi carenze dell’economia italiana e della difficoltà a cavarcela da soli. La ripresa economica del nostro paese pare legata – nonostante tutto – ad una rapida evoluzione verso il rafforzamento delle politiche pubbliche comuni, a cominciare dalle riforme di cui si è detto nel precedente contributo (il riequilibrio dei saldi delle partite correnti, l’Unione bancaria, ed una mutua assicurazione contro il rischio di disoccupazione), dalla creazione del Ministro delle finanze dell’Eurozona, e da un sistema europeo di difesa e sicurezza. Come ha documentato Paul De Grauwe (The limits of the market. The pendulum between the government and the market, Oxford University Press, 2017 p.35) nei paesi dell’Eurozona si è realizzata una triste correlazione: “la caduta degli investimenti pubblici ha coinciso con l’espansione del dominio del mercato”. Il vero salto di qualità, di cui potrebbero beneficiare l’Europa e l’Italia, è dunque un serio programma di investimenti in beni pubblici europei, nelle reti informatiche, nella formazione del capitale umano, nelle comunicazioni, etc. Il problema è che per finanziarlo occorrerebbero investimenti di ben maggiore importo dei fondi privati ed europei previsti dal Piano Junker.

Questo ragionamento porta a dire che il futuro dell’Eurozona – e dell’Italia, data la ancora più stretta interdipendenza determinatasi, nel bene e nel male, in tutti questi anni – è affidato alla politica. Non è un caso se nelle diagnosi sullo stato di salute dell’Europa, referendum ed elezioni tendono ad intrecciarsi sempre più con le performance delle economie. I dati più recenti sono due: l’effetto-Brexit, che ha proiettato l’ombra del fallimento sulle prospettive future dell’integrazione fra le economie europee; e l’effetto-Macron, che ha momentaneamente allontanato i fantasmi di un avvento dei movimenti sovranisti e/o populisti alla guida dei principali paesi dell’Unione Europea. Mentre la Francia si ricompatta al centro, le recenti elezioni parziali hanno mostrato una Germania poco incline a concedere spazio politico alla vecchia ed alla nuova destra anti-immigrati. Il prossimo verdetto sul futuro dell’Europa è atteso dalle votazioni che si svolgeranno in Germania in autunno, e poi in Italia. Fortunatamente, di fronte all’ondata populista che ha investito il pianeta, gli elettori del Continente hanno per ora mostrato una certa saggezza e lungimiranza.

Joe Stiglitz (L’euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa, Einaudi, 2017) ha bocciato i governanti europei all’esame di Economics 101 per avere messo in piedi un’Eurozona le cui istituzioni fanno acqua da tutte le parti. Il suo messaggio è di mettere mano ad una profonda riforma delle istituzioni economiche europee, dato l’alto costo dell’abbandono dell’euro. E’ difficile immaginare che ciò possa essere fatto senza un salto di qualità della politica europea. E quindi, in primo luogo, con una interpretazione meno provincialmente “prussiana” dell’Europa futura. Un ambiente economico europeo caratterizzato da politiche comuni rivolte all’espansione economica potrebbero aiutare l’Italia a reagire al declino; non meno di quanto il traino della domanda degli Stati Uniti non l’abbia aiutata nel primo dopoguerra a risollevarsi dal disastro bellico.

Non è agevole al momento comprendere se in Germania stia maturando l’interesse ad un diverso modello di sviluppo, maggiormente in linea con gli interessi delle altre economie dell’Eurozona. Quello che però appare delinearsi è uno scenario mondiale che evolve nella direzione di imporre a Berlino un cambio di passo, una nuova stagione di iniziativa politica. Per meglio arginare il populismo xenofobo in casa propria, Berlino non può più ritrarsi di fronte al compito che la storia le dà in sorte di giocare un ruolo importante nel contrasto dei populismi di America ed Europa. Ciò potrebbe aprire le porte ad una maggiore cooperazione – politica ed economica – con gli altri paesi dell’Eurozona, rinunciando all’opzione di sfruttare quella “zona grigia” fra politica ed economia che ha finora permesso a Wolfgang Schäuble di dettare la linea a governi riottosi.

Il lungo sonno dell’Eurozona, che dopo la crisi finanziaria ha visto la propria crescita annichilita dalla politica dell’austerità, ha anche fatto da alibi alla continuazione del sonno delle classi dirigenti, pubbliche e private, italiane. Ambedue le crisi hanno però allontanato gli elettori riflessivi dalle urne, lasciandole in balia del voto populista. Diversamente da quanti molti pensano, non è però affatto detto che la profezia di Monnet – un’Europa che risorge e fa passi avanti verso l’unione proprio in forza delle sue crisi – sia ormai obsoleta. Comunque sia, alla luce dei dati oggettivi sopra descritti, la soluzione alternativa dell’Italexit rischierebbe di farci passare dal sonno all’incubo.

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