ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 215/2024

13 Maggio 2024

Il mercato del lavoro italiano 30 anni dopo: più occupati, più precari, più poveri

Giuseppe Travaglini e Alessandro Bellocchi collegano la diminuzione della produttività del lavoro e dei salari reali, verificatasi in Italia negli ultimi 30 anni, alla crescente flessibilità del mercato del lavoro che, però, può avere favorito solo l'occupazione temporanea a danno della crescita. I due autori ricordano che per raggiungere più obiettivi occorrono più strumenti. Dunque, se gli obiettivi sono la maggiore occupazione e l’aumento della produttività, alla deregolamentazione occorreva associare misure volte a rafforzare gli investimenti e l’innovazione.

Nel corso degli ultimi trent’anni, il mercato del lavoro italiano ha subito profonde trasformazioni tecnologiche e normative. Queste ultime con l’obiettivo di aumentare la flessibilità del lavoro nei processi produttivi. Era infatti opinione diffusa che l’elevata disoccupazione italiana (ed europea) fosse conseguenza dell’eccessiva rigidità dei contratti, che ostacolava l’efficiente allocazione del lavoro. Così, a partire dal 1997 con il “Pacchetto Treu” e attraverso successivi interventi normativi fino al “Decreto Poletti” del 2014 (successivamente integrato nel c.d. “Jobs Act” – L. 183/2014), si è assistito a una crescente deregolamentazione del mercato del lavoro italiano, per ridurre la disoccupazione e migliorare la competitività delle imprese. Tre decenni dopo, però, i dati economici raccontano una storia diversa: le riforme hanno favorito (in parte) l’occupazione, ma a scapito della crescita economica, della produttività e dei salari, e con un livello di precarietà del lavoro senza precedenti nella storia della Repubblica.

Le grandi trasformazioni. Da questa “rivoluzione” il contratto di lavoro ne è uscito indebolito e con esso l’intero sistema delle relazioni industriali. La maggiore flessibilità dei contratti si è tradotta in una minore durata media del rapporto lavorativo e in una crescente percezione di precarietà che ha alimentato la disaffezione sindacale. Questa frammentazione si è coniugata con i cambiamenti già in atto del ridimensionamento della grande impresa, dell’affermarsi dei sistemi locali di produzione e dei fenomeni di outsourcing da parte delle medie imprese con contesti produttivi in cui si è affermato il passaggio dal lavoro dipendente al lavoro autonomo e a quello coordinato (Musso, 2022). Ciò ha comportato problemi di rappresentanza degli interessi e una progressiva obsolescenza del rapporto sindacale. La minore centralità delle organizzazioni sindacali ha ridotto la loro capacità di intermediare gli obiettivi “unificanti”, lasciando i lavoratori in posizione di vulnerabilità (Carrieri e Feltrin, 2016). I dati confermano questa dinamica. Alla fine del 2023, i contratti collettivi in attesa di rinnovo erano 29 (su un totale di 885 registrati al CNEL) e coinvolgevano circa 6.5 milioni di lavoratori dipendenti (il 52,4% del totale). Sono cresciuti i contratti più flessibili (le c.d. forme atipiche) che rappresentano oggi il 20% delle forze di lavoro e quelli “pirata”, particolarmente diffusi tra le microimprese del commercio, dell’edilizia e dei trasporti, con retribuzioni e tutele minori rispetto ai contratti collettivi nazionali (Lucifora, 2020).

Queste involuzioni si sono riflesse (Figura 1) nell’aumento dell’occupazione a tempo determinato (5% degli occupati nel 1990, 17% alla fine del 2023), nel calo della forza contrattuale dei sindacati (i lavoratori iscritti a un sindacato sono passati dal 39% nel 1990 al 32,5% nel 2019) e nella compressione delle retribuzioni reali (crollate del 2%-8% tra il 1990 e il 2023, a seconda che le si deflazioni con il Pil o con i consumi privati) (Di Nunzio, 2024).

Figura 1: Lavoro, sindacato e salario

Fonte: Elaborazione degli autori su dati OECD (% occupazione temporanea sul totale dell’occupazione e % di part-time – volontario e involontario – sul totale dell’occupazione) OECD/AIAS ICTWSS (% lavoratori dipendenti iscritti a un sindacato su totale) e AMECO (retribuzioni reali calcolate con deflatore del PIL e dei consumi privati, rispettivamente).

A questi mutamenti, si è aggiunta la sconfortante mancata risposta delle imprese – e del sistema produttivo in generale – alla deregolamentazione del lavoro. A fronte della maggiore flessibilità, e della congiunta politica di moderazione salariale varata con la “concertazione” degli anni 90, non si è assistito alla ripartenza degli investimenti e dell’innovazione (Figura 2), né alla valorizzazione del lavoro. Anzi, la precarietà ha contribuito a ridurre la formazione del lavoratore in loco e l’esperienza acquisita sul posto di lavoro (Hoffmann et al., 2021).

Figura 2: Investimento e tecnologia

Fonte: Elaborazione degli autori su dati AMECO. Tasso di crescita dello stock di capitale netto (a prezzi costanti) e tasso di crescita della Produttività Totale dei Fattori (TFP).

Lo sfaldamento del processo produttivo si è perciò concretizzato nel deterioramento della produttività e nel rallentamento della crescita economica. Oggi, il reddito pro-capite (reale) italiano è pari a quello del 2006-2007, mentre Germania e Francia, per rimanere nella UE, sommano incrementi nell’ordine del 9-15%, segnale di un benessere (potenzialmente) crescente. Simili penalizzazioni caratterizzano il ritardo dell’Italia nella crescita della produzione e negli indici di progresso tecnologico (vedi sopra Figura 2). Pertanto, la moderazione e la flessibilità salariale promosse come strumento “strategico” per il rilancio della competitività e dell’efficienza produttiva hanno finito per influenzare sfavorevolmente l’accumulazione di capitale, l’avanzamento tecnologico e la crescita complessiva del sistema-Paese, senza miglioramenti per i redditi da lavoro.

Un confronto internazionale. Il confronto con le altre economie europee è sconfortante. La produttività del lavoro in Italia (Pil per occupato) ha avuto una crescita stentata. Dal 1990 ad oggi, solo del 10%, rispetto al 24, 25 e 27% di Spagna, Francia e Germania. E in Italia questa dinamica non si è riflessa sui salari reali che anzi sono diminuiti. La retribuzione reale media del lavoratore italiano è oggi inferiore a quella del 1990 (-2%) (se i salari nominali vengono calcolati utilizzando il deflatore del Pil), o è addirittura crollata dell’8% (se si utilizza il deflatore dei prezzi al consumo, che quindi tiene conto dell’effettivo potere d’acquisto). Questo dato rappresenta un unicum nel panorama delle economie avanzate. Una singolarità acutizzatasi con l’impennata inflazionistica degli ultimi due anni che ha ulteriormente eroso il potere di acquisto dei salari.

Figura 3: Un confronto internazionale (1990-2023)

Fonte: Elaborazione degli autori su dati AMECO. Produttività del lavoro (PIL reale per occupato), Retribuzione reale media (Retribuzione media reale per occupato – def. PIL) e tasso di occupazione (Occupati su popolazione in età lavorativa). Le variazioni della produttività e dei salari sono tassi di crescita cumulati, mentre il tasso di occupazione rappresenta la variazione complessiva nel periodo.

La peculiarità italiana contrasta con quella di molti Paesi europei, dove le riforme del lavoro hanno dato risultati relativamente migliori. In Germania, la dura “riforma Hartz” degli anni Duemila ha deregolamentato il mercato del lavoro tedesco ma è stata integrata da risorse supplementari per sostenere le politiche attive del lavoro e quelle di formazione professionale, bilanciando la rigidità esterna del mercato con gli strumenti di flessibilità interna alle imprese (Mähönen, 2015). In Francia, la resistenza sociale alle riforme del lavoro è stata notevole, risultando in una deregolamentazione più cauta. L’orientamento generale è stato quello di varare riforme per la flessibilità guidate dallo Stato compensate dell’introduzione di meccanismi assicurativi contro la disoccupazione (flexisécurité à la française) (Gazier, 2019). In Belgio, i salari nominali hanno continuato a seguire automaticamente l’inflazione, senza squilibrare la distribuzione del reddito nazionale (Checherita-Westphal, 2022). In Spagna, le recenti riforme del lavoro (2022) hanno reintrodotto tutele per i lavoratori, garantendo al contempo forme di flessibilità per le imprese, pur mantenendo la centralità della contrattazione collettiva (de Bustillo Llorente, 2022).

In Italia, invece, le politiche di deregolamentazione hanno puntato alla flessibilità esterna del lavoro (forme contrattuali) affidando i processi allocativi e distributivi direttamente ai mercati. Questo profilo normativo ha avuto due effetti distorsivi. Quello di ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto, migliorando la sola competitività di prezzo nel breve periodo; e quello di deresponsabilizzare le imprese rispetto al capitale umano e sociale intrinseco al rapporto di lavoro. L’impatto di queste trasformazioni, al trascorrere degli anni, su investimenti e produttività è stato globalmente negativo, rivelando salari reali decrescenti e una distribuzione sempre più diseguale del reddito nazionale che ha finito, anche per questa via, per deprimere la dinamica economica interna.

Una strategia con politiche multiple. Quale lezione possiamo trarre da questi fatti? La crescita concomitante di occupazione e salari richiede misure di politica economica che non compromettano la produttività. Ci sono attualmente nell’UE indirizzi di politica economica che traguardano in questa direzione? Come ricordato sopra, la recente riforma spagnola del mercato del lavoro offre alcuni spunti interessanti. I primi risultati sono incoraggianti: la Spagna registra oggi un’occupazione crescente, più stabile, e un tasso di crescita del Pil significativo (Figura 4).

È sufficiente? Probabilmente no. Il sistema produttivo italiano ha necessità di un nuovo paradigma economico. L’approccio mainstream al mercato del lavoro, alla base delle riforme negli ultimi trent’anni, ha ignorato le interazioni strategiche, le regole sociali e gli incentivi che sono fattori determinanti del funzionamento del mercato del lavoro. Parafrasando Solow (1992), i vincoli e gli obiettivi di coloro che operano nel mercato del lavoro non sono gli stessi che influenzano l’acquisto e la vendita di una qualsiasi altra merce. Se la tesi è corretta, è necessario rendere i policymakers e le imprese consapevoli che nel lungo periodo la redditività e la competitività dipendono dalla qualità degli inputs e dagli investimenti in capitale (fisico ed umano), nonché dalla capacità del sistema produttivo di posizionarsi nei settori tecnologicamente avanzati. In questo quadro, un’occupazione più stabile contribuisce a favorire la formazione di migliori condizioni di lavoro, favorendo anche per questa via la produttività e i salari.

Figura 4: L’economia spagnola

Fonte: Elaborazione degli autori su dati AMECO. Produttività del lavoro (PIL reale per occupato), Retribuzione reale media (Retribuzione media reale per occupato) e tasso di occupazione (Occupati su popolazione in età lavorativa). Le variazioni della produttività e dei salari sono tassi di crescita cumulati, mentre il tasso di occupazione rappresenta la variazione cumulata nel periodo. Periodo di riferimento: 1990-2025, previsioni Commissione Europea.

Conclusioni. La nostra visione ribadisce uno dei principi fondamentali della politica economica: i governi devono utilizzare un numero di strumenti adeguato al numero di obiettivi da conseguire (Tinbergen, 1956). Perciò, una maggiore produttività del lavoro non può essere raggiunta facendo esclusivo affidamento sulla maggiore occupazione. Nel migliore dei casi se la produttività del lavoro fosse costante i salari non varierebbero con l’occupazione. Tuttavia, la produttività e i salari dipendono anche dalle caratteristiche della curva di domanda di lavoro, ossia da investimenti e tecnologia senza i quali un’occupazione più elevata implica inevitabilmente minore produttività e salari. 

La nostra analisi ribadisce perciò l’idea di Solow (1979, 1990) secondo cui, se un lavoratore viene pagato di più può essere più produttivo. E l’opinione keynesiana secondo cui “se paghi meglio un uomo rendi il suo datore di lavoro più efficiente, costringendo il datore di lavoro a scartare metodi e impianti obsoleti, e affrettando l’uscita dall’industria dei datori di lavoro meno efficienti, e così aumentando il livello generale” (Keynes J.M., 1930, p.112).

In un lavoro pioneristico, Oswald e Blanchflower (1989) analizzarono una serie di dati microeconomici di imprese manifatturiere nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Uno dei loro risultati più significativi è che le imprese con profitti più elevati pagano salari più alti rispetto alle imprese con profitti più bassi ma con lavoratori della stessa qualità. Dunque, incentivi, competitività, capitale umano e comportamenti strategici determinano l’effettivo funzionamento del mercato del lavoro e i suoi risultati.

Pertanto, una risposta concreta alla questione dei bassi salari e della bassa crescita in Italia non può limitarsi al dogma della deregolamentazione, allo studio dell’impatto degli shock inflazionistici dell’ultimo biennio o a singoli aspetti dell’offerta e domanda di lavoro. Gli effetti dei cambiamenti economici e istituzionali nel mercato del lavoro richiedono un approccio comprensivo della gamma di reazioni e incentivi di coloro che vi operano. In Italia, negli ultimi trent’anni, le imprese hanno creato posti di lavoro in risposta alla crescente flessibilità. Tuttavia, la crescita dell’occupazione è stata caratterizzata da contratti temporanei, da moderazione salariale, e da un rallentamento generalizzato degli investimenti e della produttività. La caduta dei salari reali ne è l’inevitabile conseguenza. Dunque, una spirale strutturale perversa che, se non interrotta, rischia di indebolire ancor di più il mercato del lavoro e spingere l’economia italiana ai margini della competizione internazionale (Saltari e Travaglini, 2006).

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