ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 216/2024

1 Giugno 2024

Il “part-time involontario”: cosa fare?

Susanna Camusso, prendendo spunto dai contenuti di un recente rapporto del Forum Diseguaglianze e Diversità, riflette sulla gravità del fenomeno del part-time involontario che costituisce una delle principali determinanti del lavoro povero ed è una causa di ulteriori, e più gravi, differenziali di genere. In questo quadro, pur consapevole del fatto che per il part-time involontario non si dispone di una definizione giuridica, Camusso indica alcune misure di politica economica che ritiene efficaci per contrastarlo.

L’espressione “part-time involontario” indica già il suo carattere di costrizione: non si sceglie di lavorare meno ore, ma è l’unico lavoro disponibile. É un lavoro “povero”, non solo per la retribuzione, ma anche per la difficoltà ad immaginare e realizzare il proprio miglioramento professionale, per gli aspetti di segregazione nei settori produttivi e nei servizi che sfruttano ampiamente questa forma contrattuale, e soprattutto perché l’impossibilità di programmare la distribuzione e l’effettività dell’orario di lavoro della gran parte dei part-time involontari impedisce a quei lavoratori di organizzarsi altre attività o addirittura la propria vita fuori dal lavoro.

C’è bisogno di contrattazione collettiva e di politiche, non solo perché è un lavoro precario e precarizzante, ma anche perché è un lavoro ingiusto.

Ancor di più se pensiamo al rovesciamento simbolico che nasconde: il part-time voluto e faticosamente conquistato dalle donne per conciliare vita e lavoro, pensato inizialmente come necessario per periodi specifici, diventa – in particolare per le lavoratrici – forma non scelta, non reversibile, segregante e, ancor peggio, ostile alla conciliazione tra vita e lavoro.

L’analisi presentata nel rapporto del Forum Diseguaglianze e Diversità, sintetizzata nell’articolo di Luisi, Luppi e Pintaldi in questo numero del Menabò, ci ha imposto di interrogarci oltre che sulle regole anche su come valutiamo quelle imprese che hanno troppi o addirittura soltanto lavoratori part-time: che imprese sono? Come si collocano nell’economia del paese? Come possono affrontare le grandi transizioni se si fondano sul rosicchiare margini sui costi e sui diritti dei lavoratori o, in alternativa, sull’evasione contributiva e fiscale? Ed ovviamente: che risvolti ha questo modello per il futuro previdenziale di lavoratrici e lavoratori?

Ci ha mosso innanzitutto la consapevolezza di una ingiustizia. Il part-time involontario è una forma di lavoro esplosa nei numeri – fino a raggiungere i tre milioni – quando con i decreti applicativi del Jobs Act se ne è sottratta la regolazione alla contrattazione collettiva e si è permessa la totale dilatazione delle flessibilità. Ore supplementari, ore straordinarie, non definizione delle fasce orarie, possibilità di variare l’orario con la sola comunicazione: un lavoro a fisarmonica che vincola l’intera giornata agli orari che verranno definiti, ma che si traduce poi in poche ore di retribuzione.

Nello stesso tempo, è divenuto evidente che, mentre nel mondo si discute di riduzione d’orario e redistribuzione del lavoro, nello scenario italiano cresce la polarizzazione tra chi lavora troppo, con orari che si allungano ed invadono anche il tempo di vita – soprattutto se non si regola l’uso delle tecnologie digitali – e quei lavoratori ed ancor di più lavoratrici che invece hanno contratti di qualche ora la settimana che non permettono né una vita dignitosa né l’autodeterminazione.

Un divario che riflette la crescita del lavoro povero e dequalificato, senza prospettive, in settori che si marginalizzano, mentre le sfide per il paese sarebbero lavoro di qualità, investimenti e sostenibilità; strada necessaria ed obbligata per rilanciare la produttività.

Dalla consapevolezza di questa situazione nascono alcune proposte che valorizzano la volontarietà e la esprimono attraverso la contrattazione collettiva, che deve tornare ad essere il fondamentale strumento di regolazione ed estensione dei diritti, accompagnata da norme che la sostengano e rafforzino e da un diverso utilizzo degli incentivi, senza dimenticarsi dei disincentivi.

Nel costruire delle politiche e definire delle strade per la contrattazione abbiamo dovuto misurarci con il fatto che il part-time involontario non trova una definizione giuridica. L’assenza di questa definizione impedisce la strada lineare della sua abolizione. Abbiamo quindi scelto di regolarlo secondo le caratteristiche necessarie del part-time volontario che vorremmo, che sarebbe ingiusto cancellare per coloro che lo scelgono. Ovvero un part-time “giusto”, reversibile, definito per quantità di ore e per distribuzione dell’orario, rigido nel senso che le variazioni si concordano e contrattano e non sono comunicate all’ultimo momento.

L’obiettivo è rispondere innanzitutto alla necessità di reintrodurre la dignità, assente in questa forma contrattuale abusata e diffusa.

Le proposte hanno l’obiettivo di rispondere ai desideri delle lavoratrici e dei lavoratori, oggi confinati nel part-time involontario, introducendo regole esigibili che permettano loro di ottenere il lavoro a tempo pieno o il governo del proprio tempo – perché questo è il primo desiderio. Certo, innanzitutto per via del salario, ma non va sottovalutato che c’è anche un desiderio di rispetto del proprio lavoro, di riconoscimento sociale e professionale. Anni di predicazione sui lavoretti, sul lavoro gratuito, sull’insignificanza dei lavori legati alla cura, al sociale, dei lavori che non generano grandi profitti, hanno lasciato un segno profondo in chi quei lavori li fa, è consapevole della loro importanza, ma si sente invisibile.

La premessa è quindi un lavoro a tempo indeterminato, in quanto è incomprensibile incentivare, attraverso la decontribuzione, i lavori a tempo determinato e in più a part-time, ovvero spendere risorse della fiscalità generale per favorire i lavori poveri di oggi e le pensioni infinitamente basse di domani. In secondo luogo, il lavoro part-time deve essere al minimo di 20 ore settimanali, in una fascia ben definita. Le ore dalla 21esima in poi devono essere concordate, definite da causali e pagate di più. Basta ascoltare lavoratori e lavoratrici per sapere che ore ne fanno ben di più. Per questo va previsto un meccanismo di trasformazione, ancor di più se quelle ore si svolgono in orari antisociali.

Occorre definire la soglia di ore in più che determina la trasformazione in lavoro a tempo pieno: se stabilmente lavori più delle 20 ore, se ogni mese è più facile che la media di ore settimanali sia 38 invece che 20, quel contratto deve essere trasformato. Non è difficile costruire dei modelli certi di andamento degli orari effettivi che determinino il tempo entro cui quel contratto va modificato o trasformato a tempo pieno. Questo principio è importante non solo per riconoscere alla lavoratrice o al lavoratore il fatto che svolgono un lavoro a tempo pieno, ma perché è proprio la trasformazione che rende più difficile far diventare quelle ore di lavoro irregolari, perché, tra l’altro diventa evidente il vantaggio previdenziale.

Quanti lavoratori e lavoratrici a part-time involontario, nel sistema degli appalti o in altri settori non si vedono riconosciuto un anno di contribuzione perché non raggiungono la soglia minima? Questo non solo evidenzia la povertà retributiva di quel lavoro, ma soprattutto allontana per loro il raggiungimento dei requisiti per la pensione.

Se è davvero necessario che un lavoro sia part-time, è legittimo pensare e chiedere che i relativi contributi valgano di più, definendo le forme progressive per farlo. Sarebbe un “risarcimento” per il lavoratore, ma soprattutto un disincentivo ad utilizzare il part-time come forma di flessibilità malata, borderline, collocata nella fascia grigia quando non nera del lavoro.

Siccome il migliore dei disincentivi è quello basato sui controlli, innanzitutto di congruità tra personale, ore lavorate e volumi di prodotti o servizi, torna il tema dell’assenza del personale ispettivo. Per questo abbiamo incluso tra le proposte l’aumento delle assunzioni e l’indicazione dei criteri con cui controllare.

Occorre inoltre ridefinire tetti alle forme “atipiche”, sia nella contrattazione collettiva che nelle norme, e quando si superano verificare se ci sono ragioni “spiegabili” o se invece si è di fronte ad un’organizzazione talmente fragile dal punto di vista di chi ci lavora che si trasforma in un’organizzazione non produttiva. La stessa modalità è stata utilizzata con risultati importanti nel caso dei collaboratori.

Il controllo sulle forme di lavoro, sulla violazione delle regole non è una fissazione, ma una necessità non solo per le condizioni di lavoro e perché va contrastato l’illecito in sé, ma perché tutela il nostro sistema economico, perché attraverso queste forme si determina la concorrenza sleale e si determinano sistemi fragili che indeboliscono l’insieme dell’economia del paese.

In questo senso vogliamo immaginare che ci sia la possibilità di far scattare controlli automatici se i lavoratori denunciano il superamento delle soglie fissate di ore di lavoro e che l’orario diventi un termometro effettivo della qualità di un’organizzazione del lavoro. Meglio riaffermare un diritto di precedenza nella trasformazione a tempo pieno che lasciar proliferare lavori a part-time che mortificano i lavoratori e deprimono processi di qualità del lavoro.

Non ci sfugge che partiamo da un sistema fragile, che si è strutturato con queste modalità, che strizza l’occhio all’evasione e all’elusione contributiva e fiscale. Se insistiamo sui controlli, immaginiamo anche che possano essere utili incentivi con condizionali precise che favoriscano la trasformazione e la qualificazione del personale. Infatti, se l’aumento dei part-time involontari è frutto delle convenienze che si sono determinate, è però anche il riflesso di carenze nella domanda di lavoro. Infine, ma in realtà innanzitutto, sappiamo che il part-time involontario coinvolge soprattutto le donne, e proprio per questo si accompagna ad altre discriminazioni: il divario salariale, le minori possibilità di carriera, l’alto prezzo che continuano a pagare per maternità e lavoro di cura. I pregiudizi sul lavoro femminile sono la dimostrazione della permanenza di un‘idea patriarcale della società, secondo cui realizzarsi attraverso il lavoro deve restare un privilegio degli uomini. Consciamente o inconsciamente c’è un’impostazione del mercato del lavoro che favorisce questo divario, che considera marginalizzabile il lavoro femminile, che lo nega perché nega l’autodeterminazione. É innanzitutto ascoltando le lavoratrici che abbiamo voluto rovesciare il punto di vista: il lavoro che vorremmo non uno qualunque e purchessia.

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