L’influenza che la disuguaglianza nei redditi può avere sulla crescita economica è uno dei temi più dibattuti e più “ideologici”. Un capitolo del recente rapporto dell’OCSE sulle disuguaglianze permette non soltanto di fare il punto sullo stato della letteratura (teorica ed empirica) sull’argomento ma anche, e soprattutto, di conoscere i risultati di una stima condotta dallo stesso OCSE con dati e metodologie attendibili. Secondo tali risultati, contrariamente a quanto si sente spesso affermare anche nel nostro paese, la disuguaglianza riduce la crescita. Conclusioni simili si trovano in un lavoro dello scorso anno pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale. In questa scheda viene sintetizzata l’analisi dell’OCSE.
Lo stato dell’arte
Nella letteratura teorica sono presenti argomenti a sostegno sia della tesi che la disuguaglianza favorisca la crescita sia che la ostacoli. Tra i secondi vi è quello della politica fiscale endogena (Bertola 1993; Alesina e Rodrik 1994; Persson e Tabellini 1994; Perotti 1996) secondo cui una più elevata disuguaglianza, minando la fiducia nelle prospettive di crescita dell’economia e nelle istituzioni, riduce gli incentivi a investire e in casi estremi può generare instabilità politica e tensioni sociali con gravi effetti sulla crescita (Alesina e Perotti 1996; Keefer e Knack 2000). Nella stessa direzione va l’argomento secondo cui l’accumulazione del capitale umano, a causa delle imperfezioni del mercato finanziario, dipende dalla ricchezza e dal reddito individuali cosicché in presenza di elevate disuguaglianze molti non potrebbero effettuare investimenti redditizi e ciò avrebbe effetti negativi anche nel breve periodo sulla domanda aggregata e l’output (Galor e Zeira 1993). Infine, la disuguaglianza può essere negativa per la crescita perché l’adozione di tecnologie avanzate richiede un livello minimo di domanda domestica che può non essere raggiunto se la povertà è diffusa (Murphy et al. 1998; Krueger 2012; Bernestein 2013).
La disuguaglianza è, invece, considerata positiva per la crescita in base all’argomento che l’elevata disuguaglianza può generare incentivi a lavorare e ad investire di più (Mirrlees 1971; Lazear e Rosen 1981). In particolare, se i più istruiti sono anche i più produttivi, allora forti differenze nei tassi di rendimento del capitale umano possono incoraggiare un maggior numero di persone a istruirsi. Secondo un altro argomento, poiché la propensione al risparmio dei ricchi è più elevata (Kaldor 1955; Bourguignon 1981) al crescere della disuguaglianza crescerà l’accumulazione di capitale – e quindi la crescita -, in virtù dell’ipotesi, notoriamente controversa, secondo cui il risparmio determina l’investimento.
Dagli studi empirici disponibili non emerge un consenso generale sul segno e l’intensità di questi effetti. Anzitutto, mancano dati di reddito cross-country che siano affidabili e tra loro comparabili. Gli studi di tipo cross-sezionale generalmente evidenziano una relazione negativa (ad esempio, Alesina e Rodrik 1994), mentre gli studi longitudinali mettono in luce una relazione positiva anche se spesso non statisticamente significativa (ad esempio, Forbes, 2000). In generale i risultati dipendono dai dati e dai paesi presi a riferimento e la relazione negativa tende perlopiù ad emergere nei paesi in via di sviluppo. Inoltre questi studi utilizzano un indicatore sintetico della disuguaglianza (comunemente l’indice del Gini) e non sono perciò in grado di analizzare gli effetti sulla crescita della disuguaglianza in punti diversi della distribuzione, in particolare nella parte alta e in quella bassa (Voitchovsky 2005).
L’analisi dell’OCSE
Tenendo conto di questi problemi, il rapporto OCSE analizza gli effetti della disuguaglianza sulla crescita sulla base di un campione di economie avanzate, tra loro relativamente simili al fine di evitare che la relazione identificata possa dipendere dal livello di sviluppo di un paese. I dati utilizzati sono di tipo longitudinale, si riferiscono al periodo 1970-2010 e coprono 31 paesi (tutti di area OCSE) .
La stima si basa su un’equazione di crescita alla Solow in cui il tasso di crescita del PIL (a 5 anni) viene messo in relazione sia con il livello iniziale di disuguaglianza dei redditi (misurato dall’indice di Gini) sia con il capitale umano e fisico. Le stime vengono effettuate utilizzando diverse metodologie econometriche.
Il risultato è che la disuguaglianza ha un impatto negativo sulla crescita e questa evidenza è robusta a tutte le specificazioni econometriche utilizzate. Come indicatore di disuguaglianza si utilizza l’indice di Gini calcolato sia sui redditi netti (cioè, al netto di tasse e trasferimenti), sia su quelli lordi; si tiene anche conto della differenza tra i due, al fine di analizzare gli effetti delle politiche redistributive.
Secondo il modello-base (v. colonna 1 nella Tabella 1), nel quale la crescita viene messa in relazione solamente al livello di reddito iniziale e all’indice di Gini “netto”, una diminuzione della disuguaglianza di 1 punto di Gini sul reddito disponibile si riflette in un aumento della crescita cumulata di 0.8 punti percentuali nei successivi 5 anni (o di 0.15 punti per anno), cioè ad un aumento della crescita del 3% su un orizzonte temporale di 25 anni. D’altro canto, le politiche di redistribuzione non sembrano avere alcun impatto significativo sulla crescita (colonne 5-7). Questo risultato è in linea con il precedente lavoro di Ostry et al. (2014), pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale, che adotta la stessa specificazione per un gruppo di paesi più ampio.
Come si è osservato, per analizzare le conseguenze della disuguaglianza sulla crescita, è importante tener conto anche della disuguaglianza “top”, relativa alla parte alta della distribuzione, e “bottom”, relativa alla parte bassa. Per misurare queste disuguaglianze viene utilizzato il rapporto tra il reddito disponibile medio del paese e, rispettivamente, quello nel decile top e del decile bottom. La Tabella 2 illustra gli effetti di queste disuguaglianze.
In particolare, se la disuguaglianza cade perché si riduce la disuguaglianza bottom l’effetto sulla performance economica è positivo e maggiore di quello che si avrebbe se si riducesse la disuguaglianza top. Riducendo la disuguaglianza bottom di metà di una deviazione standard (che porterebbe la disuguaglianza del Regno Unito ai livelli di quella della Francia), nei successivi 25 anni la crescita annuale aumenterebbe di circa 0.3 punti percentuali e quella cumulata del 7%. Questo risultato vale anche quando la bottom inequality è calcolata in riferimento ai percentili, 20, 30 e 40; pertanto, le politiche di contrasto degli effetti negativi della disuguaglianza sulla crescita potrebbero concentrarsi non soltanto sul segmento più povero della popolazione, ma anche sulla low-middle class.
Disuguaglianza, mobilità sociale e accumulazione del capitale umano
Nel Rapporto dell’OCSE, anche allo scopo di spiegare questi risultati, viene esaminato il legame tra disuguaglianza, mobilità sociale e capitale umano. In particolare, utilizzando i dati individuali PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), si cerca di stimare il legame tra livelli di istruzione raggiunto dagli individui, disuguaglianza e mobilità sociale. E’ ben noto che l’istruzione dei figli è correlata a quella dei genitori; nel Rapporto si cerca di fare un passo avanti e di stabilire come vari la possibilità dei figli di raggiungere un livello più elevato di istruzione di quello dei genitori all’aumentare della disuguaglianza.
Come risulta dal Panel A della Figura 1 tra la quota di persone iscritte alla scuola secondaria superiore (di 15-19 anni di età) e il coefficiente di Gini del reddito disponibile vi è una correlazione negativa. Il Panel B mostra il legame tra la disuguaglianza e la mobilità intergenerazionale dei salari (che aumenta quanto più i salari dei figli non sono correlati a quelli dei genitori). Anche questa relazione è negativa: laddove la disuguaglianza è elevata, maggiore è l’associazione fra il reddito dei figli e quello della famiglia di provenienza.
Questi risultati appaiono coerenti con la teoria del capitale umano, secondo cui la disuguaglianza riduce gli investimenti in capitale umano (e le opportunità occupazionali) degli individui provenienti da famiglie svantaggiate economicamente, con conseguenze negative per la crescita. Per rendere più robusto questo risultato, nel Rapporto si tiene conto anche dell’istruzione dei genitori (come proxy del background socio economico) e si depura per le caratteristiche non osservabili specifiche di ciascun paese e per gli effetti del ciclo economico.
Per ogni individuo vengono considerate tre misure di capitale umano: 1) la probabilità di ottenere un’istruzione secondaria superiore e una laurea o il numero di anni di istruzione completata; 2) due indicatori di skill proficiency (numeracy e literacy scores), che catturano abilità cognitive e, quindi, tengono anche conto della qualità dell’istruzione completata; 3) un indicatore della probabilità di non essere occupato, al fine di esplorare l’impatto della disuguaglianza sulle opportunità offerte dal mercato del lavoro. Tutte queste misure di capitale umano vengono stimate in relazione all’istruzione dei genitori (distinta in bassa, media e alta), all’indice di Gini e alla sua interazione con il livello di istruzione dei genitori, e infine controllando per effetti fissi di paese e anno per depurare da caratteristiche non osservabili specifiche di ciascun paese che non variano nel tempo e da effetti di ciclo.
Emerge così che un aumento della disuguaglianza ha effetti negativi sul capitale umano solamente per coloro che provengono dalle famiglie con il più basso livello di istruzione. Il capitale umano, invece, tende a rimanere pressoché invariato all’aumentare della disuguaglianza per coloro che provengono da un background familiare più elevato. I risultati sono robusti per tutte le misure di capitale umano utilizzate.
Questa evidenza empirica sembra rafforzare la tesi delle mancate opportunità sostenuta dalla teoria del capitale umano, piuttosto che quella della disuguaglianza come incentivo. In particolare, in contrasto con quest’ultima, risulta che sia la probabilità di ottenere un grado di istruzione secondaria superiore e una laurea, sia le performances degli studenti (misurate dai punteggi ottenuti in calcolo e letteratura), sia le loro opportunità lavorative, tendono a diminuire tra i segmenti più poveri della popolazione all’aumentare della disuguaglianza. Dunque, secondo l’OCSE, ridurre le disuguaglianze migliora le opportunità di istruzione, favorisce la mobilità sociale ed è benefico per la crescita economica.
E’ quindi auspicabile che risultati come questi entrino nel dibattito sulle politiche economiche e sul ruolo che dovrebbe avere al loro interno il contrasto delle disuguaglianze.