La Corte costituzionale (con la sent. n. 35/2017) ha azzoppato la legge elettorale (L. n. 52/2015). E dichiarando incostituzionale il ballottaggio ha contestualmente travolto anche la retorica della democrazia di investitura e l’idea, a essa sottesa, che la partecipazione democratica si risolva (sempre e comunque) nella scelta del Capo e nella possibilità di conoscere il nome del Presidente del Consiglio “il giorno stesso delle elezioni” (secondo la legge censurata, anche in caso di un «consenso esiguo» ottenuto al primo turno, una determinata lista avrebbe potuto con il ballottaggio «ottenere il premio, vedendo più che raddoppiati i seggi» come opportunamente evidenziato dallo stesso giudice costituzionale).
Ma la decisione della Corte per quanto opportuna e condivisibile non risolve – né avrebbe potuto – i tanti e controversi problemi politici che oggi gravano sull’ordinamento elettorale. Problemi in gran parte derivanti dalle differenti discipline elettorali oggi vigenti per Camera e Senato (premio di maggioranza, capilista bloccati, soglie di accesso, vincoli di coalizione, pluricandidature, sorteggio). Un esito paralizzante, derivante innanzitutto dalla superficiale decisione delle forze politiche di governo di procedere alla stesura della legge elettorale per uno solo dei rami del parlamento (la Camera dei deputati), dando per scontato il superamento del bicameralismo perfetto contemplato dalla legge di riforma costituzionale. Una valutazione quanto mai azzardata, come la schiacciante vittoria del No al referendum costituzionale avrebbe di lì a poco dimostrato travolgendo la riforma. Da quel momento partiti e istituzioni sono entrati in un corto circuito dal quale stentano a uscire.
La condizione di profonda delegittimazione che grava sull’attuale parlamento (eletto con una legge incostituzionale) si è in questi mesi ulteriormente acuita. La sconfitta referendaria e la persistente incapacità dimostrata dalle Camere di redigere una legge elettorale conforme a Costituzione hanno definitivamente travolto le ostentate velleità “costituenti” dell’attuale parlamento.
Lo smacco subìto è evidente. Ma non tutti paiono essersene accorti. E, tamquam non esset, ecco allora che all’interno del principali forze politiche spuntano ipotesi (rivedute e corrette) di reintroduzione del ballottaggio e insistenti tentativi di abbassare la soglia del 40% prevista per la Camera dei deputati. Verrebbe da pensare che “non c’è due senza tre”. E che, ancora una volta, una parte cospicua del parlamento si stia oggi, con nonchalance, impegnando per porre le condizioni di una nuova declaratoria di incostituzionalità da parte della Corte.
Il confronto sulla legge elettorale recentemente ripartito non lascia (al momento) ben sperare. Le forze politiche si muovono disordinatamente, proponendo a ritmi giornalieri nuovi e variegati modelli elettorali, tutti stucchevolmente conditi da quel latinorum tedioso che è oramai divenuto parte integrante di ogni discussione in materia: italicum, mattarellum, tedeschellum, consultellum, legalicum. Formule recentemente accompagnate da alcune significative new entry, come il verdinellum e il fragomellum.
Ciò che è certo è che ancora una volta il dato costituzionale rischia di venire accantonato, all’interno del dibattito parlamentare, per far posto esclusivamente alle logiche di convenienza e ai calcoli contingenti dei singoli partiti: il premio di maggioranza conviene assegnarlo alla lista o alla coalizione? Abbassare la soglia del 40% consentirebbe di blindare il “voto utile”? Le soglie di accesso vanno allineate a quelle della Camera (3%), del Senato (8%) o andrebbe sperimentata una soluzione mediana (5%)? Rimangono i capilista bloccati o tornano le preferenze?
Ma agire sulle contingenza storica nel tentativo di blindare i rapporti di forza non solo non serve, ma rischia di produrre effetti imprevedibili. Il quadro politico è quanto mai fluido e nessun partito dispone oggi della palla di vetro per sapere cosa accadrà al momento del voto. Una condizione ottimale che avrebbe dovuto indurre il parlamento a redigere, al riparo del “velo di ignoranza” (come direbbe Rawls), una buona legge elettorale.
Ragioni di etica democratica, negli anni scorsi formalizzate (finanche in sede Ue) dalla Commission for Democracy through Law, non a caso vietano la modifica della legislazione elettorale nell’anno che precede la chiamata alle urne al fine di evitare «le manipolazioni in favore del partito al potere» (Risoluzione n. 1320/2003 dell’Assemblea parlamentare del diritto d’Europa, successivamente ripresa dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa).
Ciò non vuol dire che la soluzione oggi preferibile sia quella di lasciare le cose come stanno. Il sistema elettorale, come si è appena detto, è talmente sgangherato che una sua riforma è oggi necessaria, soprattutto al fine di assicurare una coerente fisiologia politica e democratica al sistema. Ma il “facite ammuina” di queste settimane non può essere la soluzione. Il parlamento ha davanti a sé un compito quanto mai delicato che richiederebbe, a ciascuna forza politica, un surplus di responsabilità e di senso dello Stato. La legge elettorale non è una legge come le altre. Misurarsi con la sua stesura significa riflettere sulle articolazioni della società, sulle dinamiche dei poteri, sulla complessità dei rapporti tra rappresentanza politica e voto. Ma anche su quanto è avvenuto in questi anni.
All’inizio degli anni Novanta, sulla scia di una violentissima polemica “antipartitocratica”, alimentata dagli scandali di Tangentopoli, si è proceduto al varo di nuove leggi elettorali finalizzate a «consentire ai cittadini di eleggere direttamente il governo» come recitava uno slogan del referendum del 1993 contro il proporzionale.
In politica inizia a farsi strada un nuovo dogma: la governabilità, adottato il quale l’Italia decideva di rinunciare a essere una democrazia rappresentativa per divenire, a tutti gli effetti, una democrazia “immediata”. Un esito per perseguire il quale è stato necessario neutralizzare l’identità politica del nostro Paese, adeguandola maldestramente a quella di altri ordinamenti, estranei alla nostra tradizione giuridica. Ne è scaturita una democrazia anomica, repentinamente deprivata di quei “riferimenti consustanziali” che sono parte integrante dell’identità storica e politica di ogni singolo paese.
Gli effetti prodotti dalla retorica della governabilità sono ancora oggi sotto i nostri occhi: la sublimazione del capo, la personalizzazione della politica, la sistematica compressione dei tradizionali canali della partecipazione democratica, il progressivo deperimento di tutte le assemblee rappresentative (dal parlamento ai consigli comunali).
Ma vi è dell’altro. Nella moderna Italia del maggioritario finanche l’idem sentire de republica è stato irresponsabilmente recepito alla stregua di un inutile feticcio, l’effetto obsoleto prodotto da una cultura politica datata e “consociativa”. A tal punto che persino la Costituzione è improvvisamente divenuta, in questi anni, parte integrante dell’azione di governo. E, in ragione di ciò, unilateralmente “gestibile” e unilateralmente modificabile da maggioranze parlamentari contingenti: è toccato nel 2001, per volontà del centrosinistra, al Titolo V. Ha rischiato di toccare nel 2006 (per volontà delle destre) e nel 2016 (per volontà del partito democratico) all’intera seconda parte della Costituzione (se non fosse intervenuto, in entrambi i casi, il referendum costituzionale oppositivo).
È in questa distorsione dei meccanismi della rappresentanza che va oggi rintracciata una delle principali cause della progressiva alterazione delle dinamiche costituzionali e, in particolare, del rapporto tra parlamento e governo. Tra un parlamento divenuto, in questi anni, sempre più “esecutivo” e un governo che, deformando le proprie funzioni, è via via venuto assumendo un ruolo sempre più “legislativo” (basti solo pensare alla famigerata sequela decreto legge – maxiemendamento – voto di fiducia).
Ma il declino della centralità parlamentare è, a sua volta, l’effetto di una crisi ben più profonda che ha il suo epicentro nella decadenza della forma partito. D’altronde così come non possiamo disconoscere che in passato la rappresentanza politica ha tratto la sua forza dall’organizzazione democratica dei partiti, allo stesso modo non possiamo negare che la sua crisi sia oggi uno dei principali effetti sortiti dal loro declino e dalla loro incapacità di essere punto di coagulo di istanze, interessi, progetti, visioni.
Anche per queste ragioni è giunto, pertanto, il momento di tornare a riflettere sulla dimensione inclusiva dei sistemi elettorali e sulla loro essenza democratica. E provare così, su queste basi, a restituire legittimazione politica alle ragioni della rappresentanza.
Ma per perseguire questo obiettivo bisogna innanzitutto spezzare il mito della governabilità, provando a far comprendere che gli eccessivi timori relativi alla difficoltà di dare vita a governi stabili (perché lo sono forse stati quelli che si sono succeduti in questi anni?) possono essere agevolmente risolti attraverso disposizioni di rango regolamentare o costituzionale (si pensi all’introduzione della sfiducia costruttiva sul modello tedesco).
Ciò che oggi è invece prioritario è dare vita a una nuova legge elettorale in grado di riattivare i circuiti della partecipazione popolare e favorire una più matura articolazione dei soggetti democratici. Una legge elettorale, in definitiva, in grado di assicurare la più ampia rappresentazione, sul piano istituzionale e sociale, degli orientamenti politici presenti nel paese. In caso contrario il parlamento sarà destinato drammaticamente a divenire – ancor più di come lo è oggi – un luogo distante e separato dai bisogni dei cittadini, un puro ornamento del sistema sempre più ermeticamente chiuso alle istanze sociali e sempre più permeabile ai desideri dei media, dei poteri economici, dell’antipolitica.
A questa esigenza corrisponde la scelta di un sistema elettorale proporzionale con sbarramento. Una soluzione che restituirebbe al parlamento la centralità che la Costituzione gli assegna, facendo della rappresentanza politica il punto di emersione e condensazione del pluralismo sociale, delle culture politiche, degli interessi concreti.