I governi espressi da partiti che si rifanno a tradizioni politiche di sinistra hanno sistematicamente adottato politiche economiche improntate alla “responsabilità” di governo. Non hanno cioè voluto perseguire obiettivi di diretto vantaggio per le proprie fasce sociali di riferimento (lavoratori dipendenti, cittadini a basso reddito, pensionati, disoccupati, ecc.) ma hanno preferito obiettivi che, nelle intenzioni dichiarate, sono di interesse del sistema paese nel suo complesso. Indipendentemente dalla valutazione politica che si voglia fare rispetto a questa strategia, il problema fondamentale è la scelta della prospettiva teorica adottata per determinare quali fossero gli interventi di politica economica necessari. Quella adottata è la teoria economica standard che ha dominato i dipartimenti di economia degli ultimi decenni e che è sostanzialmente basata su una fiducia illimitata nelle capacità dei mercati di autoregolarsi e identificare le migliori soluzioni a qualsiasi problema.
Il risultato è stata una serie di iniziative di governo che non solo hanno tutte le caratteristiche di politiche “di destra”, cioè a favore di interessi contrari a quelli del proprio elettorato, ma che, in aggiunta, hanno fallito sia l’obiettivo di affrontare le emergenze economiche che quello di avviare i cambiamenti strutturali di cui il paese ha bisogno. Vediamo alcuni dei punti che hanno caratterizzato in modo particolare il governo Renzi.
Gli sgravi fiscali alle imprese. Il governo ha rivendicato con orgoglio gli sconti fiscali distribuiti molto generosamente alle imprese, sostenendo che per questa via si sarebbe stimolata la ripresa economica una volta che la percezione degli operatori avrà acquisito il calo fiscale come permanente. Anche evitando di discutere la base teorica di questo approccio (basata sulle aspettative razionali, fondamento ideale della destra economica più estrema), il processo logico appare estremamente carente. Concedere sconti fiscali alle imprese in presenza di una carenza di domanda può al massimo aumentare i profitti trattenuti in azienda o distribuiti alla proprietà, ma sicuramente non produrrà incrementi di occupazione o di investimenti, che soli possono stimolare la crescita economica. La ragione è che per far bere il cavallo non è sufficiente condurlo alla fontana, è anche necessario che abbia sete. Le imprese espandono la propria capacità produttiva solo se motivate da una domanda crescente per i propri prodotti. La mancanza di risorse finanziarie può eventualmente essere un vincolo, ma la loro disponibilità non è certamente sufficiente a motivare le imprese a espandere la propria capacità produttiva. Ridurre le tasse alle imprese in presenza di una domanda stagnante ha come unico effetto quello di aumentare i profitti delle imprese che verranno risparmiati in qualche forma, come è puntualmente avvenuto nei settori nei quali la domanda ha tenuto. Per le altre imprese, in particolare per le piccole imprese che assorbono la maggior parte della forza lavoro, l’effetto è stato molto ridotto e temporaneo, e non ha toccato i problemi, questi si rilevanti, di complessità delle procedure connesse agli adempimenti fiscali.
L’efficienza della pubblica amministrazione. Una delle costanti dei governi è la lotta contro le inefficienze della pubblica amministrazione, per le quali, si sostiene, è necessario adottare riforme basate su un taglio dei costi finalizzato ad incrementi della produttività. L’argomento ha troppe sfaccettature per essere affrontato in modo esauriente, ma sicuramente l’idea di fondo, che tagliando le risorse si migliora l’efficienza, è logicamente inconsistente. La via di tagliare le risorse disponibili senza intervenire sulle modalità di funzionamento di un’organizzazione è la peggiore che si possa perseguire. La ragione è che chi occupa una posizione senza motivazioni produttive è tranquillamente in grado di evitare ogni possibile danno causato dal taglio dei finanziamenti, producendo, come necessaria conseguenza, che i reparti più produttivi saranno costretti a subire la maggior parte dei sacrifici. Il risultato della riduzione dei finanziamenti nelle pubbliche amministrazioni sarà quindi un sostanziale peggioramento del profilo dell’efficienza. I risparmi finanziari possono seguire gli l’incrementi di efficienza, non possono in nessun modo esserne l’origine, ed è quindi necessario, in primo luogo, introdurre riforme della pubblica amministrazione e da queste ottenerne, come risultato, eventuali risparmi.
Anche su questo lato però il governo Renzi (in buona compagnia con quelli precedenti) ha preso una direzione opposta a quella che sarebbe stato necessario intraprendere. Prendendo come esempio il settore della scuola e delle università, il governo ha promosso una estrema verticalizzazione gerarchica delle strutture pubbliche, ripetendo con la Buona Scuola lo stesso schema concettuale attuato dal governo Berlusconi con la riforma Gelmini delle università. Il principio adottato è che, concentrando tutto il potere decisionale di una struttura nelle mani di un solo responsabile, questi sarà in grado di aumentarne l’efficienza funzionale. Anche volendo tralasciare commenti sulla coerenza di una tale prospettiva con quelle di un partito politico che si dice di sinistra, né la teoria né l’osservazione empirica dimostrano che questo approccio è in grado di produrre anche solo parzialmente i risultati sperati. Il principio teorico a sostegno dell’”uomo solo al comando” come mezzo per aumentare l’efficienza di un’organizzazione è condizionato al fatto che il responsabile debba rispondere, in qualche modo, dei risultati raggiunti (e, soprattutto, non raggiunti). Questo non può essere assicurato in una organizzazione pubblica, in quanto il vertice non ha un diretto interesse personale nei risultati generati dalla struttura che dirige. Gli incentivi impliciti per il personale saranno quindi orientati a mostrare fedeltà alla dirigenza piuttosto che premiare competenze ed impegno.
E’ necessario aggiungere che la scorciatoia di “privatizzare” le pubbliche amministrazioni, tentazione spesso emersa dal governo Renzi, non ha alcuna possibilità di avere successo ai fini dell’incremento di efficienza. La natura giuridica di un’organizzazione, di diritto pubblico o privato, non può modificarne la sua missione. Laddove la missione è di svolgere un servizio pubblico le condizioni sono identiche, ed identici saranno i problemi da affrontare e le opportunità per risolverli.
Il Jobs Act. Tra le iniziative più rilevanti del governo Renzi vi è certamente la riforma del mercato del lavoro che, secondo i suoi sostenitori, ha permesso a tanti lavoratori precari di trovare un lavoro stabile. Le polemiche su questo provvedimento sono note e non vale la pena ricordarle. E’ sicuramente una misura che ha avuto costi enormi (in ultima analisi sostenuti dai lavoratori stessi) per finanziare gli incentivi alle assunzioni che sono poi immediatamente crollate appena terminati gli incentivi. Il risultato, facilmente prevedibile, è di aver sostanzialmente precarizzato l’intera platea dei lavoratori, come testimoniato dalla crescita dei licenziamenti succeduta all’entrata in vigore della riforma. Riguardo ai benefici sperati, anche ammettendo che il provvedimento possa produrre risultati positivi in termini di facilitazioni alle imprese nella gestione dei dipendenti, la misura non ha alcuna speranza di affrontare il nodo centrale della crisi economica italiana. Questo è infatti dovuto alla carenza di domanda, direttamente collegata sia al reddito percepito che alle aspettative di reddito futuro, e di conseguenza, se anche la legge riuscisse marginalmente a incrementare il numero degli occupati, la spesa per consumi sarà comunque seriamente penalizzata. Il motivo è dovuto al fatto che ai fini della domanda finale un identico reddito percepito, da un lato, come dipendente con garanzie lavorative oppure, dall’altro, senza queste garanzie si traduce nel secondo caso in una spesa per consumi minore in quanto il lavoratore dovrà necessariamente aumentare la scorta di risparmio a causa della maggiore incertezza sul proprio futuro lavorativo.
Oltre all’illogicità dei meccanismi ipotizzati che dovrebbero giustificare la riforma del mercato del lavoro ai fini della dimensione della crescita (risultato assai incerto), l’aspetto forse più grave sono gli effetti che produrrà sul tipo di sistema produttivo (che, al contrario, sono altamente probabili). L’intero disegno della riforma del mercato del lavoro è basato sull’idea che la crescita economica si manifesti grazie all’incremento di competitività prodotto da un abbassamento del costo del lavoro. Sempre tralasciando l’aspetto strettamente politico, di un governo sedicente di sinistra che persegue la compressione dei redditi e dei diritti dei lavoratori, l’intera prospettiva sottostante è insensata in una prospettiva di analisi economica di lungo periodo. La crescita della produttività dovuta a vantaggi di costo può avvenire solo in settori maturi, con produzioni standardizzate dove il costo della produzione è l’unico elemento di vantaggio concorrenziale. Se anche si riuscisse a guadagnare competitività per questa via, ogni vantaggio competitivo sarebbe necessariamente temporaneo, persistendo solamente finché qualche altro sistema economico non trovi il modo di abbassare ulteriormente i costi di produzione. La trappola della competizione basata sui costi è ben compresa da tutti i paesi, che, di conseguenza, investono fortemente per entrare (o rimanere) nei settori produttivi ad alto valore aggiunto per i quali la competizione è basata sulla qualità dell’offerta e sul suo contenuto tecnologico, assai più remunerativi e di più difficile imitazione. Questa forma di competizione, l’unica che può garantire un alto livello benessere economico persistente nel tempo, necessita di investimenti sui dipendenti da parte delle imprese, infrastrutture scientifiche e di alta formazione efficienti e diffuse, incentivi agli investimenti in ricerca per il lungo periodo, ed una gestione attenta alla qualità delle risorse umane utilizzate. Anche nelle condizioni ideali, la licenziabilità dei dipendenti potrebbe forse fornire un piccolo vantaggio competitivo temporaneo, ma necessariamente indirizzerà il sistema produttivo verso un tipo di sviluppo economico deleterio per il paese.
La pressione fiscale. Ogni governo, di qualsiasi colore, ha annunciato e, spesso, praticato la solita promessa elettorale di riduzione della pressione fiscale, dando per scontato che questa sia la missione naturale di ogni governo. Mentre la teoria economica tradizionale presenta le tasse come una forma di distorsione dei mercati da ridurre il più possibile, un governo di sinistra avrebbe dovuto applicare un’analisi più sofisticata.
Un sistema economico moderno necessita di un sistema fiscale fortemente progressivo, dove cioè i contribuenti a più alto reddito (che evidentemente più godono, direttamente o indirettamente, della capacità del sistema di generare ricchezza) cedono una quota maggiore del proprio reddito per il mantenimento del sistema che, comparativamente, torna maggiormente a loro vantaggio. Negando questa prospettiva i governi degli ultimi anni, indipendentemente dalla vernice politica adottata, hanno perseguito politiche che hanno comparativamente ridotto il prelievo fiscale per le fasce di reddito maggiori a sfavore delle fasce di reddito più basse. In parte questo è dovuto alla piaga della evasione, mai seriamente affrontata, che naturalmente distorce il peso del prelievo a danno dei redditi più bassi. In aggiunta, tutte le iniziative intraprese dai governi puntano a ridurre la pressione effettiva a carico delle fasce più abbienti. L’esempio migliore è dato dalla eliminazione della tassa sulla prima casa. Questo provvedimento ha favorito a dismisura i possessori di lussuosi patrimoni immobiliari che hanno ricevuto lo stesso beneficio relativo dei proprietari di abitazioni modeste. Sarebbe bastato mantenere la tassa sull’intero patrimonio introducendo una fascia di esenzione come misura, al tempo stesso, di progressività e di riduzione netta di questa imposta. In questo modo, ad esempio, i proprietari di due monolocali in aree periferiche avrebbero subito un’imposta molto ridotta se non nulla, mentre chi possiede come unica abitazione una residenza di lusso avrebbe contribuito per l’intera quota di valore del proprio patrimonio in eccedenza alla soglia di esenzione.
In conclusione, le politiche attuate dai governi formalmente “di sinistra” sono la prova non solo della crisi culturale di questa tradizione politica, ma anche dell’incapacità della classe politica tradizionale di superare una teoria economica obsoleta amata da economisti pronti a sacrificare sia il progresso della disciplina che l’interesse del paese sull’altare della fedeltà all’ortodossia di un sistema teorico ampiamente screditato. Perseguire l’equità fiscale, promuovere la qualità delle competenze lavorative, gestire responsabilmente le pubbliche amministrazioni non sono solo obiettivi “di sinistra”, ma sono anche l’unica via per indirizzare il sistema economico verso un percorso di benessere economico e sociale diffuso sull’intera popolazione e sostenuto nel tempo. Non solo il suo principale partito di sinistra ma anche l’intero paese ha bisogno di modificare radicalmente la prospettiva economica da cui trarre ispirazione per azioni di governo realmente efficaci.