Come sa chi lo ha letto o ne ha sentito parlare, il tema del libro di Piketty, il suo fil rouge, è la disuguaglianza, la distribuzione tra ricchi e poveri del reddito generato dal lavoro e, soprattutto, dal capitale. Il suo risultato principale è che la disuguaglianza, dopo una importante interruzione nella parte centrale del secolo scorso (in cui era diminuita), ha ripreso a crescere, ed è stato così in tutti i paesi e secondo la stessa dinamica: i ricchi sono diventati sempre più ricchi, e la tendenza continua anche in questo secolo. Piketty si propone di mettere in luce i meccanismi che alimentano questa tendenza generale. La sua conclusione è che il fenomeno può essere compreso (e molte pagine del libro sono illuminanti al riguardo), e non è inevitabile: la crescita della disuguaglianza può essere ostacolata dalle scelte politiche.
Piketty raccoglie, elabora e analizza una massa enorme di dati, per diversi paesi e per almeno tre secoli. L’impiego degli strumenti tradizionali dell’economia politica (Piketty rifiuta l’espressione “scienza economica”), in particolare quello dei modelli, rimane largamente sotto traccia: l’uso delle equazioni (o, più spesso, delle identità) è estremamente parsimonioso; del resto, Piketty raccomanda di diffidare della precisione apparente e illusoria associata alle formalizzazioni matematiche, forse proprio perché le conosce bene. E comunque, il libro è stato scritto per essere letto anche da chi non conosce l’economia.
Tra le molte questioni che il libro pone, quella su cui mi soffermerò è trattata nell’ultimo capitolo. Si tratta di un tema di grande attualità: il debito pubblico. Coerentemente col suo approccio generale, Piketty parte dalle statistiche e dalla storia. Le cifre del debito pubblico in Europa sono fin troppo note; basterà richiamare il dato medio europeo: circa il 90% del Pil. Meno noto è, però, un aspetto messo in luce da Piketty: a fronte di questo debito gli Stati hanno una ricchezza complessiva più o meno dello stesso ordine di grandezza. Come dire che il capitale netto pubblico è zero (le passività, appunto il debito, sono compensate dalle attività). Piketty ha cura di ricordarci anche la corrispondente dimensione del capitale netto privato: grosso modo, cinque/sei volte il Pil. In breve, gli Stati sono poveri ma i privati sono ricchi. Quali privati? Solo alcuni: oltre la metà della popolazione non possiede praticamente ricchezza; questa si concentra in poche (pochissime) mani, di ricchi che diventano sempre più ricchi (attualmente il 60% della ricchezza totale è posseduto dal 10% più ricco della popolazione, e la concentrazione aumenta a dismisura quando si passa a considerare l’1% più ricco).
In passato molti paesi hanno conosciuto livelli di debito pubblico assai più alti. Per esempio quello accumulato dall’Inghilterra all’inizio dell’Ottocento, dopo le guerre napoleoniche, era circa due volte il Pil. E anche nel Novecento, dopo le due grandi guerre, i livelli erano, quasi ovunque, decisamente elevati.
Piketty dichiara di non aver particolare simpatia per il debito pubblico. Lo considera un ulteriore meccanismo, se mai ce ne fosse bisogno, di redistribuzione della ricchezza dai poveri ai ricchi; e poi il servizio del debito drena risorse che sarebbero molto più utilmente utilizzabili per altri scopi. Per questo motivo trova ragionevole cercare di ridurne il livello, preferibilmente senza imporre agli Stati il perseguimento di tale obiettivo con norme costituzionali.
Egli ricorda che per ridurre significativamente il debito pubblico “ci sono tre metodi principali, combinabili in varie proporzioni: tasse sul capitale, inflazione e austerità”. La sua preferenza va decisamente al primo. In alternativa, la strada del ricorso all’inflazione può rivelarsi utile (ed è stata molto praticata nel secolo scorso). Per Piketty, “la via peggiore, in termini sia di giustizia sia di efficienza, è una prolungata dose di austerità; e naturalmente è la strada che sta attualmente seguendo l’Europa”. Piketty considera anche la via delle privatizzazioni del patrimonio pubblico, in teoria possibile vista l’equivalenza tra attività e passività degli Stati, ma la scarta perché significherebbe affidare alle (poco affidabili) mani dei privati aree decisive del welfare, come l’istruzione, la salute e la sicurezza.
La tassazione (personale e progressiva) del capitale è, forse, la principale raccomandazione di Piketty per combattere l’ineguaglianza crescente. Oggi può apparire un obiettivo utopistico (ma non lo era anche, nell’Ottocento, la tassazione progressiva sul reddito?). Piketty ne discute con attenzione gli effetti positivi (non solo sulla distribuzione della ricchezza, ma anche sull’efficienza dell’economia, e sulla stessa tenuta della democrazia, per non parlare, appunto, del debito pubblico) e analizza gli ostacoli che ne impediscono la realizzazione, ma che, secondo lui, possono essere superati.
Un passo fondamentale per incamminarsi dall’utopia verso la realtà è, a suo (condivisibile) parere, la realizzazione di un “catasto” internazionale delle ricchezze La globalizzazione e la mobilità del capitale finanziario rendono necessaria una forte collaborazione tra gli Stati, anche per contrastare efficacemente i paradisi fiscali. Piketty nota che qualcosa si sta facendo in questa direzione (soprattutto negli Usa; l’Europa è molto più timida e riluttante), e che ormai gli ostacoli non sono tecnici ma politici. Intanto si potrebbe ricorrere a un’imposizione straordinaria sul capitale con aliquota fissa (sulle attività invece che sulle persone). In astratto, date le cifre riportate prima, basterebbe una tassa una tantum del 15% per eliminare del tutto il problema. Ovviamente avrebbe senso procedere con maggiore gradualità (e risparmiando i patrimoni più piccoli). Osserva Piketty che questa operazione equivarrebbe al ripudio del debito pubblico, ma con numerosi vantaggi rispetto a quest’ultimo (sia in termini di efficienza che distributivi).
Fermo restando che la tassazione del capitale “è la via migliore per ridurre un debito pubblico di grandi dimensioni, […] di gran lunga il metodo più trasparente, giusto ed efficiente”, l’inflazione resta, per Piketty, un’altra opzione, anche oggi possibile. Suona un po’ ironico che chi se ne è servito di più, nel secolo scorso, sia stata proprio quella Germania che oggi impedisce all’Europa di seguire Stati Uniti, Regno Unito e Giappone sulla strada di alimentare (un po’) la dinamica dei prezzi. Un banale calcolo mostra che per dimezzare il valore reale di un debito di 100 euro contando solo su un’inflazione del 2% occorrono circa venti anni; se l’inflazione fosse del 5% gli anni necessari scenderebbero a otto. Il ricorso all’inflazione è molto “allettante”, ma non mancano gli inconvenienti. Oltre al rischio che sfugga di mano e cresca su se stessa (un po’ come accade anche al debito pubblico), Piketty sottolinea i poco virtuosi effetti redistributivi dell’inflazione. Essa avvantaggia i debitori e colpisce i creditori, ma colpisce un po’ a caso, sicché i suoi effetti sulla disuguaglianza non sono scontati (e spariscono quando l’inflazione viene prevista). Per dirla in breve, “l’inflazione è uno strumento rozzo e impreciso”.
Comunque per Piketty l’inflazione è preferibile all’austerità come strategia per abbattere il debito. Il primo difetto di quest’ultima è che è richiede molto tempo. Al riguardo, Piketty propone il seguente esempio: partendo dagli attuali livelli del debito in Europa, assumendo inflazione nulla, una crescita di lungo periodo (molto ottimistica) del Pil del 2% e un disavanzo dell’1% (che, a causa del servizio del debito, richiede un elevato surplus del saldo primario), sono necessari 20 anni per ridurre di 20 punti il rapporto tra debito e Pil. L’esempio non è così astratto. Di fatto, quella dell’austerità prolungata (in condizioni di inflazione nulla) è stata la strada perseguita dalla Gran Bretagna nell’Ottocento per riassorbire il debito pubblico ereditato dalle guerre napoleoniche. L’austerità è durata un secolo. “Per tutto questo periodo, i contribuenti britannici hanno speso più per gli interessi sul debito che per l’istruzione. Una scelta che è stata, senza dubbio, nell’interesse dei possessori di titoli pubblici, ma che è improbabile sia stata nell’interesse generale del popolo britannico”.
L’attuale debito pubblico europeo è più basso di quello del Regno Unito dell’Ottocento. Inoltre persino la Germania è disposta ad accettare un’inflazione del 2%. Quindi l’austerità non dovrebbe durare tanto a lungo, ma si parla sempre di parecchi anni. Inoltre la cosa è complicata dal fatto che a livello europeo non esiste un governo democratico delle politiche di bilancio. E questa carenza alimenta egoismi nazionali e spinte centrifughe, tanto più che la distribuzione del debito pubblico tra i vari Stati è tutt’altro che uniforme. Ma, appunto, si può fare di meglio che rassegnarsi all’austerità. Secondo Piketty, predisporre delle alternative non è semplice ma è possibile. Il superamento delle difficoltà di carattere tecnico è largamente alla nostra portata. Il problema principale è politico e la sua soluzione passa per la costruzione di istituzioni per il governo democratico di un’economia complessa e variegata come quella europea. Se si riuscisse a fare questo primo passo, il resto della strada sarebbe in discesa.
Ho usato congiuntivo (riuscisse) e condizionale (sarebbe) perché quel primo passo appare tutt’altro che scontato. La principale istituzione cui pensa Piketty è un “parlamento per il bilancio” dei paesi dell’Eurozona, i cui membri siano espressione dei parlamenti nazionali, che prenda in modo democratico e nell’interesse dell’intera Eurozona quelle decisioni sull’economia che oggi vengono prese dai Consigli dei capi di Stato e dei ministri dell’economia in modo opaco e nell’interesse dei singoli Stati membri. Sarebbe un importante passo avanti verso la costruzione di un’Europa federale, un obiettivo che ritengo fondamentale per il nostro futuro. Ma non mi pare, almeno per ora, che si stia marciando in quella direzione. Al momento, piuttosto, prevalgono posizioni che vanno nella direzione opposta; che mirano alla salvaguardia dei singoli interessi nazionali; che perseguono la ricerca di spazi di discrezionalità per il proprio paese, piuttosto che coraggiose e lungimiranti cessioni di sovranità.
Infine, se c’è un appunto che potrei muovere al lavoro di Piketty non riguarda le indicazioni politiche (che condivido largamente) ma un atteggiamento un po’ sbrigativo rispetto all’analisi teorica. Come ho accennato, le sue tesi poggiano su una mole impressionante di evidenza empirica, ma non appaiono ancorate su solidi ragionamenti di teoria. In questo senso, si potrebbe rivolgere a Piketty la critica che le sue fondamenta teoriche appaiono fragili (qualcuno effettivamente lo ha fatto, e con argomenti non trascurabili). È la stessa critica che anni fa John Hicks (premio Nobel per l’economia) rivolse a Keynes. Ma mi sentirei di aggiungere, nei confronti di Piketty, lo stesso commento che Hicks faceva seguire a quella critica, ossia che si poteva essere “d’accordo nel sospendere i propri dubbi a causa della poderosa analisi che Keynes aveva costruito su delle fondamenta così precarie”. Insomma, Piketty ha lasciato agli economisti del lavoro da fare. Ben venga questo lavoro.