Tra i fenomeni che oggi caratterizzano le economie avanzate – i.e. Europa, Stati Uniti e Giappone – la tendenziale stagnazione della produttività è certamente uno dei più rilevanti. I dati pubblicati da OCSE e The Conference Board, riferiti alla tendenza di lungo periodo (1952-2017) del tasso di crescita della produttività oraria del lavoro mostrano come, esauritosi il trend di crescita scaturito dalla ricostruzione post-bellica (dagli anni ’50 ai primi anni ’70, in Europa e in Giappone) e, successivamente, dall’avvento delle tecnologie digitali (dal 1995 al 2005, negli Stati Uniti), negli ultimi 15 anni nelle economie avanzate la produttività ha stagnato o è perfino declinata. Le conseguenze negative sono numerose, tra cui la restrizione dello spazio di manovra per interventi di policy come la fornitura pubblica di beni e servizi o la redistribuzione di oneri e trasferimenti fiscali. Nonostante una rinnovata domanda popolare di misure più incisive di tutela dello stato sociale (Manow et al., 2018) ed una crescente popolarità elettorale del «welfare chauvinism» (Pavolini et al., 2019), la ‘crisi della produttività’ contribuisce a rendere ancora più stringenti i vincoli strutturali con cui le politiche di bilancio dei governi devono fare i conti.
Anche per questo è importante cercare di “spiegare” le cause della crisi della produttività. In un recente contributo (2020), Kleinknecht analizza le principali ipotesi, e ne discute punti di forza e limitazioni per poi avanzare quella che considera, alla luce delle evidenze empiriche, l’ipotesi di maggiore rilievo economico-politico.
La prima ipotesi investigata concerne la misurabilità dell’impatto positivo delle tecnologie digitali sulla dinamica della produttività, il quale non sarebbe adeguatamente colto dalla strumentazione statistica adottata. La ragione di tale ‘inafferrabilità’ è legata alla possibilità di replicare servizi e prestazioni digitali senza costi aggiuntivi, elemento che ha come conseguenza l’impossibilità di cogliere per intero gli effetti economici dell’economia digitale (Hartwig & Krämer, 2017). D’altro canto, le evidenze empiriche relative al peso di tali servizi sul prodotto nazionale, alla loro dinamica di diffusione ed alla assenza di una relazione empiricamente verificabile tra adozione delle ICT e crescita della produttività mostrerebbero che la crisi della produttività «non è un artefatto statistico, ma reale».
Una seconda ipotesi riguarda il processo di terziarizzazione nelle economie “avanzate” e il propagarsi della c.d. «malattia dei costi» o ‘Baumol disease’ (Baumol & Bowen, 1966), da cui deriverebbe il disaccoppiamento tra dinamica salariale e della produttività nel settore dei servizi. In questo caso, i dati mettono in luce un disallineamento tra la dinamica dell’occupazione, dei salari e della produttività nel settore dei servizi.
La terza ipotesi, elaborata da Koo (2011), pone l’accento sulla dinamica stagnante degli investimenti e sul parallelo incremento della quota di risparmi osservabile nei principali paesi OCSE durante la grande recessione post-2008. Sebbene tale dinamica di risparmi e investimenti abbia caratterizzato la fase post-crisi, sostiene Kleinknecht, sarebbe tuttavia improprio identificare la stessa dinamica quale causa scatenante la grande recessione.
La quarta ipotesi riguarda i fattori strutturali alla base di un potenziale “esaurimento delle opportunità tecnologiche”: il rallentamento dei processi d’innovazione legati alle componenti base dei dispositivi digitali (i.e. i microprocessori) rispetto a quanto previsto dalla legge di Moore (Gordon, 2016), i rendimenti decrescenti delle stesse tecnologie digitali (Cette et al., 2015) e in particolare il combinato disposto di tagli alla spesa pubblica in ricerca di base (OCSE, 2015) e ’miopia’ dei manager attratti da guadagni (finanziari) di breve e poco inclini ad investimenti di lungo termine (Lazonick & O’Sullivan, 2000).
Infine, la quinta ipotesi concerne la prevalenza di imprese in «ritardo tecnologico» rispetto a una minoranza di imprese «superstar» caratterizzate da alti livelli di produttività e livelli medio-alti di potere di mercato (Andrews et al., 2015).
A questo elenco Kleinknecht aggiunge un’altra ipotesi: l’affermarsi di modelli manageriali (il cosiddetto «short-termism») e competitivi (imprese in «ritardo tecnologico» che tendono a competere comprimendo i costi, in particolare il costo del lavoro. Tutto ciò sarebbe collegato alle politiche adottate da molti paesi OCSE dagli anni ’70 in poi: riforme del mercato del lavoro che avrebbero facilitato il consolidamento di una struttura d’incentivi, da un lato, sfavorevole all’innovazione ed agli investimenti di lungo periodo (Hall & Soskice, 2001; Amable, 2003); dall’altro, favorevole a strategie basate sulla compressione dei costi sulla flessibilità. Questa struttura d’incentivi corrisponde ad un «policy paradigm» (Hall, 1993) di impostazione neo-classica che ha tra i suoi capisaldi il perseguimento della flessibilità occupazionale, contrattuale e salariale attraverso l’istituzione di tre strumenti principali: (i) la facilità di assunzione e licenziamento concessa al datore di lavoro (ii) l’ampliamento dei regimi contrattuali «atipici» a sua disposizione (iii) la decentralizzazione della contrattazione salariale dal livello nazionale al livello della singola impresa.
Per evidenziare la relazione tra tali modificazioni nell’assetto del mercato del lavoro, le strategie competitive delle imprese, l’innovazione e la produttività, Kleinknecht ricorre a tre argomenti. Il primo e il secondo riguardano gli effetti perversi generati dallo squilibrio di potere nei rapporti tra capitale e lavoro. Secondo alcuni studi, il rallentamento della crescita salariale riconducibile al minore potere contrattuale del lavoro in un contesto di accresciuta flessibilità (in particolare, alla decentralizzazione della contrattazione salariale) sarebbe infatti significativamente correlato alla dinamica negativa della produttività del lavoro (Veerger & Kleinknecht, 2014). Il fenomeno sarebbe spiegato dall’allentamento della pressione competitiva esercitata da processi di «distruzione creatrice» (Schumpeter, 1943) legati all’innovazione tecnologica, a sua volta generato da riforme del mercato del lavoro che incentivano la competitività di prezzo in luogo della competitività di prodotto.
A livello aziendale, ciò significherebbe permettere a imprese poco innovative di ricorrere a strategie basate sul contenimento dei costi e l’intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro per difendere le proprie quote di mercato. A livello settoriale, favorendo la sopravvivenza di imprese a bassa intensità di capitale (fisico e umano) e di innovazione indebolendo, per questa via, il processo di diffusione delle nuove tecnologie.
Infine, il terzo argomento riguarda l’erosione del bacino di conoscenze e competenze a disposizione delle imprese (in particolare quelle caratterizzate da una bassa intensità innovativa), favorito, anche in questo caso, dall’affermazione di un modello competitivo basato sulla ricerca di profitti di breve termine, da un lato, e dallo scarso coinvolgimento dei lavoratori nella costruzione della base tecnologica, organizzativa e di conoscenza interna all’impresa (contraltare della flessibilità e dell’intenso sfruttamento della forza lavoro), dall’altro. Secondo Kleinknecht, il diffondersi di tale modello competitivo avrebbe contribuito a disincentivare: (i) l’investimento nella formazione e aggiornamento dei dipendenti; (ii) l’accumulazione di “memoria storica” circa le routine e la prassi aziendali (idiosincratiche) e di conoscenze tacite all’interno dell’impresa; (iii) la specializzazione produttiva del lavoratore, spinto a sviluppare competenze di natura generale (relativamente meno importanti per quanto riguarda la produttività individuale) piuttosto che specifica (strettamente correlate alla produttività individuale) dato il rischio, connaturato alla natura flessibile del mercato del lavoro, di dover trovare una nuova occupazione in un’impresa diversa. Inoltre, l’eccessiva asimmetria di potere a favore del management sembrerebbe aver contribuito a: (i) erodere il rapporto di fiducia tra impresa e lavoratori; (ii) restringere gli spazi di autonomia del personale e i margini di dialogo tra quest’ultimo e il management, incidendo negativamente sul potenziale innovativo dell’impresa e riducendo la possibilità di feedback tra aree quali la direzione strategica e i comparti produttivi; (iii) promuovere una cultura aziendale di accondiscendenza nei confronti del management, a sua volta portatrice di effetti controproducenti sull’innovatività d’impresa. Per Kleinknecht, i tre argomenti avrebbero un valore particolarmente significativo nei settori in cui prevale il modello d’innovazione «Schumpeter-Mark II» (1943), basato sull’accumulazione di conoscenza “tacita” (i.e. non codificata, relativa alla singola impresa; Polanyi, 1966), mentre sarebbero meno rilevanti nei settori caratterizzati dal modello «Schumpeter-Mark I» (1912), dove l’innovazione tende a basarsi su conoscenza codificata e dunque più facilmente accessibile.
Dal punto di vista empirico, le evidenze riportate dall’autore relative al rapporto tra flessibilità del mercato del lavoro e dinamiche della produttività e dell’innovatività sembrano confermare queste ipotesi: secondo le analisi di Cetrulo et al. (2018), illustrate in precedenza sul Menabò, e Hoxha & Kleinknecht (2019), la relazione tra le due sarebbe significativamente negativa nei settori produttivi caratterizzati dal modello d’innovazione «Schumpeter-Mark II» e non significativa nei settori contraddistinti dal modello «Schumpeter-Mark I». Dunque, le riforme avrebbero compromesso la capacità innovativa dei settori industriali ad alta intensità di R&S, mentre non avrebbero inficiato il potenziale innovativo e delle manifatture a basso contenuto tecnologico, e – in particolare – dei servizi gratuiti prodotti dalle start-up digitali. Si spiegherebbe, così, ad esempio, il notevole miglioramento della dinamica della produttività negli Stati Uniti tra 1995 e 2005 concomintante con una debole performance nei settori industriali ‘tradizionali’.
Emerge, quindi, una “battaglia delle idee” tra paradigmi interpretativi: teoria neoclassica e teoria evolutiva. Del resto, l’attenzione posta all’efficienza statica dalla prima (‘come allocare risorse scarse in modo efficiente?’) e all’efficienza dinamica dalla seconda (‘come aumentare le risorse disponibili’?) si riflette nella discrepanza interpretativa relativamente al tema dell’innovazione: da un lato, esogena ai processi di mercato; dall’altro, endogena e pertanto inestricabilmente connessa alla “violazione” delle condizioni di concorrenza perfetta poste dalla teoria neoclassica, nonché al (temporaneo) monopolio di mercato di cui beneficia l’impresa innovatrice. Il trade-off tra equilibrio statico e dinamico trova così un chiaro parallelismo nel dibattito relativo alla rigidità del mercato del lavoro: d’un lato, mero vincolo alla competitività aziendale; dall’altro, prerequisito essenziale e per l’accumulazione di conoscenze ‘tacite’ propedeutiche alla crescita dei tassi d’innovatività e produttività, e per l’efficienza dei processi selettivi di «distruzione creatrice».
Concludendo, Kleinknecht invita a riflettere sulle conseguenze della scarsa attenzione per il ruolo della conoscenza e, in particolare, dell’accumulazione di conoscenze ‘tacite’ entro le reti imprenditoriali, a fronte della promozione di riforme strutturali del mercato del lavoro spesso controproducenti per l’efficienza statica e dinamica delle economie “avanzate.
A margine, vale la pena di sottolineare che si tratta di una ipotesi molto generale, che merita di essere discussa sulla base di ricerche empiriche più analitiche, con particolare riferimento sia alla diversità dei modelli di crescita nazionali (Baccaro & Pontusson, 2018), sia alla coerenza inter-temporale tra giunture critiche della produttività e innovatività (primi anni ’70, 1995, 2005) e processi nazionali di riforma. Questo permetterebbe, si ritiene, di individuare in modo più dettagliato la rilevanza economica e settoriale di questi fenomeni.