Quale mission per le Residenze Sanitarie Assistenziali di domani?

Antonio Censi affronta alcuni aspetti della drammatica crisi che ha investito le Residenze Sanitarie Assistenziali delle zone più ricche del nostro Paese. Dopo aver dimostrato come organizzazioni che operano prevalentemente secondo logiche di mercato possano mettere in atto percorsi di esclusione sociale e di negazione della dignità delle persone, Censi fornisce alcune indicazioni per organizzare questi servizi in modo da coniugare la qualità dell’assistenza con il diritto al riconoscimento identitario e alla comprensione umana dei residenti.

La drammatica crisi che ha investito le Residenze Sanitarie Assistenziali delle zone più ricche del nostro Paese ci dovrebbe indurre a ripensare radicalmente la loro configurazione organizzativa, che negli ultimi anni si è sempre più schiacciata sull’erogazione di prestazioni ad elevata intensità sanitaria. Come ha impietosamente rivelato la crisi Covid-19 questi servizi si sono rivelati sprovvisti dei dispositivi necessari a tutelare la salute dei residenti. Ma un aspetto che l’emergenza in corso può lasciare in ombra è che per i residenti la posta in gioco, anche prima dell’esplosione della crisi, non è solo la loro salute, ma la loro dignità personale. Le riflessioni che seguono si propongono di dimostrare come, nelle Residenze Sanitarie Assistenziali, muovendo da una visione medica della condizione di non autosufficienza, si possano mettere in atto percorsi di negazione della dignità delle persone. Nell’articolo verranno presentati alcuni esempi di incomprensione della condizione di non autosufficienza nelle Residenze Sanitarie Assistenziali e verranno proposti alcuni strumenti concettuali che possono essere utilizzati per costruire un paradigma della non autosufficienza alternativo a quello che ha fino ad oggi orientato l’organizzazione di questi servizi.

Sulla base di un paradigma della non autosufficienza a più forte caratterizzazione sociale, si potrebbe cominciare a progettare e sperimentare modelli organizzativi all’interno dei quali le pratiche di riconoscimento identitario e di reciproca comprensione umana tra operatori e residenti, vengano poste sullo stesso piano della qualità delle prestazioni assistenziali.

Demedicalizzare la visione della non autosufficienza degli anziani. L’inarrestabile incremento del numero delle persone anziane non autosufficienti rappresenta un problema che per la sua complessità e le sue molteplici articolazioni richiederebbe la messa in atto di politiche sociali più ampie e coraggiose di quelle fino ad oggi adottate. Per comprendere e governare un cambiamento demografico di questa portata non ci si può limitare a fronteggiare la sua manifestazione più visibile e immediata: l’incremento esponenziale della domanda di prestazioni e servizi socio-sanitari e la ricaduta finanziaria che questo incremento è destinato ad avere sul benessere materiale di ciascuno di noi. Così come non si può continuare a delegare esclusivamente alle famiglie o al sistema dei servizi socio-sanitari la gestione di un fenomeno che investe l’intero assetto della nostra società e coinvolge tutte le generazioni.

La questione non riguarda perciò solo le istituzioni pubbliche e i loro policy maker, ma interpella in prima persona ciascuno di noi. E proprio da ciascuno di noi può provenire un primo piccolo ma significativo contributo alla riduzione della distanza sociale abissale che oggi sembra separare gli anziani non autosufficienti dagli altri. Basterebbe cominciare a pensarli, facendo ricorso alla nostra immaginazione creativa, non solo come un insieme di destinatari di prestazioni e servizi socio-sanitari, ma come persone non diverse da noi, in quanto, come noi, desiderose, indipendentemente dalle loro precarie condizioni di salute e di efficienza fisica, di continuare a sentirsi riconosciute come persone a pieno titolo e a fruire pienamente dei loro diritti sociali.

La posta in gioco è la dignità personale. L’aspetto più problematico della condizione di non autosufficienza, per chi la sta vivendo, non è tanto la perdita della salute fisica e funzionale, ma la difficoltà di continuare a riconoscersi e a essere riconosciuta come una persona a pieno a titolo. E’ la dignità personale la posta in gioco, vale a dire, il diritto all’autoderminazione del proprio corpo e della propria vita e all’autodefinizione dell’immagine di sé (Rodotà S., Il diritto di avere diritti, Bari, Laterza, 2012).

Sulla violazione della dignità personale degli ospiti delle Residenze Sanitarie Assistenziali esiste un’ampia documentazione mediatica. Ma i moti di indignazione verso gli abusi e le violenze subiti dai residenti sono di breve durata. Anche perché il desiderio di andare a fondo è frenato dall’obbiettiva constatazione della precarietà delle condizioni di lavoro all’interno di questi servizi (Arlotti M., Ranci C., Un’emergenza nell’emergenza, IN AGE, Abitare l’età fragile, 2020). Una giustificazione accettabile solo in parte, poiché la violazione della dignità della persona, è anche il risultato dell’impatto sulle condizioni materiali del lavoro degli operatori del paradigma medico della non autosufficienza intorno al quale sono organizzati i servizi.

La violazione della dignità della persona all’interno delle residenze per anziani assume principalmente due forme: la negazione dell’autonomia personale e il disconoscimento identitario. Anche in condizioni di fragilità e di dipendenza estrema, il desiderio prioritario della persona anziana rimane quello di esercitare la sua autonomia personale, “restando ciò che ha fatto di se stesso” (Gawande A., Essere mortale, Torino, Einaudi, 2017). Un’aspirazione comune a tutti gli esseri umani che si traduce nella libertà di plasmare la vita secondo le caratteristiche della propria personalità e dei propri valori.

In una residenza per anziani la legittima attesa della persona anziana non autosufficiente di ricevere l’aiuto necessario a conservare il governo del suo corpo e della sua vita viene arbitrariamente riconvertita in una domanda di prestazioni sanitarie e assistenziali. Il mandato che l’organizzazione assegna agli operatori è di agire esclusivamente sulle parti malate o malfunzionanti del corpo dei residenti che rientrano nella loro sfera di competenza professionale.  Se fino al momento dell’ingresso, la persona era riconosciuta come soggetto agente, capace di decidere e di agire sulla propria vita, dopo diventa un soggetto esclusivamente paziente, immerso in una rete di relazioni che lo sottopongono a direttive e prescrizioni decise da altri, e, in non pochi casi, a pratiche di sottomissione e di dominio.

Nel 2007, “Anno europeo dell’uguaglianza delle opportunità per tutti”, AGE, la Piattaforma europea delle persone anziane, diffondeva un documento che conteneva una forte sollecitazione a rispettare la molteplicità delle identità di ogni persona anziana. “Le persone anziane – si legge nel documento – come tutti gli altri individui della società, desiderano essere socialmente riconosciute attraverso una molteplicità di identità, non solo attraverso l’età anagrafica o le condizioni di salute. E’ indispensabile perciò che nella società e nei servizi si adotti un approccio che riconosca le identità individuali, soprattutto per ciò che riguarda le persone anziane” (AGE, Vers une société européenne pour tous les ages, http//:www.age-platform.org, 2007).

Per rispondere a questa sollecitazione bisognerebbe capovolgere l’approccio. Prima di valutare gli aspetti clinico-sanitari e i bisogni di assistenza e di riabilitazione, in funzione della stesura del PAI (Piano di assistenza individuale), tutti i membri dell’équipe, e non solo gli operatori sociali, dovrebbero impegnarsi in un lavoro di ricostruzione della identità sociale della persona prestando particolare attenzione ai cambiamenti che il processo di invecchiamento ha introdotto nella sua vita, ai vissuti e alle rappresentazioni che il soggetto ha associato a questi cambiamenti e alle strategie che ha utilizzato per gestirli.

La ricostruzione accurata del percorso biografico del nuovo residente, oltre a incrementare la personalizzazione delle cure e dell’assistenza, può rappresentare, sia pure sul piano simbolico, un atto di riconoscimento sociale e di rispetto umano.

Un nuovo paradigma. Se vogliamo creare servizi più rispettosi e inclusivi è necessario passare a una visione dell’invecchiamento più ampia, capace cioè di riconoscere le connessioni esistenti tra i fattori biologici, sociali e situazionali che caratterizzano ogni singola esperienza di invecchiamento. Diversamente, gli anziani non autosufficienti continueranno ad essere esposti a spiacevoli esperienze di discriminazione e di inferiorizzazione.

Un possibile percorso di cambiamento potrebbe partire da una rilettura in chiave sociale dei due concetti che orientano il lavoro degli operatori nei servizi.  fragilità e non autosufficienza. In ambito geriatrico essi vengono utilizzati per distinguere livelli diversi di limitazioni delle attività della vita quotidiana: più lievi nel caso della fragilità, più gravi nel caso della non autosufficienza.  Questa distinzione, se da un lato si rivela utile a pianificare le prestazioni assistenziali, dall’altro concorre a configurare, fra assistente e assistito, una relazione che può porre in ombra la condizione di uguaglianza sociale che li lega.

Se è possibile stabilire, per così dire, una asimmetria fisica tra due corpi, quello autosufficiente dell’assistente e quello non autosufficiente dell’assistito, non è accettabile che questa asimmetria venga estesa alla relazione interpersonale tra assistente e assistito. Osservata da un’angolazione sociale ogni relazione non può essere che simmetrica, poiché socialmente nessuno può dirsi pienamente autosufficiente, in quanto siamo tutti interdipendenti.

La dignità personale gli anziani non può essere assicurata da un insieme di prestazioni assistenziali tecnicamente qualificate. Richiede relazioni improntate al riconoscimento e al rispetto reciproco tra operatori e residenti. Nella tempistica di lavoro del personale di assistenza gli aspetti relazionali  (ascolto, osservazione, comunicazione) trovano, invece, oggi poco spazio, essendo considerati come un fattore di appesantimento dei costi delle prestazione assistenziali. Un lusso che, soprattutto nelle residenze a gestione pubblica, è impossibile concedersi, se si vuol “stare sul mercato”. Anche se non sono pochi, in questi servizi, gli operatori dotati della sensibilità necessaria a valorizzare la dimensione relazionale del loro lavoro di assistenza, quasi mai questo impegno riceve un riconoscimento o un sostegno adeguato dalle organizzazioni.

Considerazioni analoghe valgono per la fragilità, in quanto si tratta di una condizione che attraversa e accomuna le generazioni. Lungo il corso della vita ognuno di noi sperimenta momenti di fragilità contrassegnati da sentimenti di solitudine e di abbandono. Dal riconoscimento e dalla elaborazione di queste esperienze ciascuno potrebbe attingere risorse per incrementare il suo sviluppo umano. Ma è esattamente ciò che la società in cui viviamo ci induce a non fare, poiché vede nella fragilità un pericoloso segnale dei limiti della nostra esistenza.

In conclusione, la riorganizzazione delle residenze per anziani sulla base di un paradigma sociale della non autosufficienza ci offrirebbe la possibilità di perseguire due obbiettivi congiunti: da un lato, rispondere al bisogno della persona non autosufficiente che, ripetiamolo, non è soltanto quello di essere curata e assistita, quanto soprattutto quello di essere riconosciuta, compresa, rispettata e accompagnata fino al termine della sua vita; dall’altro, sfruttare una preziosa  opportunità di comprendere noi stessi, le nostre difettosità, le nostre carenze, facendo cadere le nostre illusioni di autosufficienza, e facendo muovere un passo in avanti al nostro sviluppo umano.

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