“Siamo tutti Keynesiani”. Negli ultimi sessant’anni, questa frase è risuonata più volte alle orecchie dell’opinione pubblica. La prima volta, nel 1965, il magazine Time la attribuì a Milton Friedman che, a quanto sembra, non la prese benissimo. La seconda volta, tre anni dopo, Friedman stesso cercò di rettificare l’affermazione, dichiarando “Tutti usiamo il linguaggio e l’apparato Keynesiano ma nessuno accetta più le conclusioni iniziali di Keynes”. Il 4 gennaio 1971, al termine di un’intervista rilasciata alla rete televisiva ABC, toccò al presidente Nixon affermare “in economia sono un Keynesiano”, e pochi mesi dopo, di nuovo “siamo tutti Keynesiani”. Nel 2009, infine, commentando le azioni adottate dai governi e dalle banche centrali in risposta alla crisi finanziaria, è la volta di Robert Lucas: “Immagino che chiunque, una volta finito in trappola (foxhole nella versione originale), sia un Keynesiano”. In tutti i casi, è curioso che a pronunciare la fatidica frase sia stato un avversario di Keynes, nel campo della teoria economica o in quello della politica. La frase, in questo senso, assume i toni di una dichiarazione di resa, temporanea, riluttante, insincera quanto si vuole, ma pur sempre una resa.
Come ha ricordato di recente Maria Cristina Marcuzzo, “Dopo la crisi del 2007-8, il nome di Keynes è rientrato nella lista degli economisti che si raccomanda di leggere e di cui si ritorna a dire che sarebbe opportuno seguirne le idee. Dopo un bando di circa venticinque anni, trascorsi tra elogi del mercato e test econometrici diretti a dimostrare l’inefficacia o peggio l’irrilevanza delle politiche economiche, Keynes è riapparso sulla scena mediatica, se non proprio in quella accademica dominante, che continua per lo più ad essere la macroeconomia della restaurazione anti-keynesiana iniziata tra gli anni 1970 e 1980”. (M.C. Marcuzzo, ‘Gli 80 anni della Teoria Generale di Keynes: perché è ancora un libro attuale’, Moneta e Credito, di prossima pubblicazione).
Il “Ritorno di Keynes”, di cui parla Marcuzzo, ha prodotto molti frutti tra cui una serie di libri, in prevalenza scritti da accademici per un pubblico colto di non specialisti, che raccontano la vita e le idee dell’economista inglese e discutono la rilevanza di queste ultime per il mondo di oggi. A questo tema sarà, peraltro, dedicato il primo numero della nuova serie, in lingua inglese, degli Annali della Fondazione Einaudi, di cui quest’articolo vuole essere un’anticipazione.
Sono quattro i temi principali che emergono dalla nuova letteratura su Keynes. Il primo riguarda la possibilità di utilizzare la politica economica per combattere la disoccupazione e le disuguaglianze, i due mali principali del capitalismo, secondo quanto Keynes stesso denuncia nell’ultimo capitolo della Teoria Generale. Il secondo tema si collega alla riflessione di Keynes sui vantaggi e i limiti del capitalismo, sulle sue basi etiche e sulle prospettive di lungo periodo. Il terzo ambito, riguarda le riflessioni di Keynes in materia di commercio e finanza internazionale e i suoi piani di riforma presentati, nel 1944, alla conferenza di Bretton Woods (di cui il Menabò si è già occupato). Il quarto tema, infine, è la riconduzione del fallimento dei modelli economici contemporanei nel prevedere la crisi finanziaria recente, alla distanza esistente fra quei modelli e le intuizioni di Keynes.
Senza entrare nel merito di questi temi, ognuno dei quali meriterebbe un approfondimento, vale la pena chiedersi quali siano le ragioni di fondo che sembrano rendere necessario un ritorno a Keynes. Secondo Robert Skidelsky, il biografo principale dell’economista di Cambridge, il motivo principale che spiega il “Ritorno del Maestro”, per citare il titolo del suo ultimo libro (Skidelsky R. 2009. Keynes. The Return of the Master, Allen Lane, Londra), consiste nella possibilità di utilizzare le idee del grande economista di Cambridge per comprendere i problemi del mondo di oggi e per formulare soluzioni adeguate.
Keynes fu testimone di molte crisi economiche nel corso della sua vita. Lo stallo sulle riparazioni di guerra tedesche, lo sciopero generale del 1926, proclamato dopo il ritorno della Gran Bretagna al Gold Standard, la compromissione delle relazioni economiche internazionali nel periodo fra le due guerre, la Grande Depressione, il disordine economico causato dalla necessità del riarmo, la fine delle prerogative imperiali della Gran Bretagna e del suo potere finanziario globale. Le soluzioni che Keynes propose per rispondere a questi problemi riflettono il suo acume e la sua vasta cultura, unite ad una conoscenza diretta dei mercati finanziari e di quelli delle materie prime. La conoscenza del contesto storico e intellettuale, all’interno del quale le proposte di Keynes presero forma, costituisce parte integrante dello sforzo di ricostruirne la logica.
Al centro della riflessione teorica di Keynes, si trova il concetto d’incertezza. Con questo termine, Keynes definisce quelle situazioni in cui non è possibile esprimere una valutazione degli eventi futuri in termini probabilistici. Che il problema riguardi una famiglia, posta di fronte a una spesa importante, o un imprenditore, che deve decidere se acquistare un nuovo macchinario, o uno speculatore alle prese con le oscillazioni della Borsa e dei cambi, il diffondersi dell’incertezza, paralizza le decisioni d’investimento e di spesa e spinge a rimandare e “tenersi liquidi” seguendo l’opinione convenzionale. In questo modo, l’incertezza determina la diminuzione della produzione, dell’occupazione e dei prezzi e può portare il sistema economico ad avvitarsi in una spirale deflazionistica da cui è impossibile uscire, almeno in tempi brevi, senza l’intervento del governo e della banca centrale. All’interno dell’economia globale, poi, i problemi si diffondono rapidamente da paese all’altro, acuendo gli squilibri e le tensioni nel campo del commercio internazionale e nei mercati dei cambi.
La teoria economica prevalente preferisce ragionare in termini di rischi misurabili piuttosto che d’incertezza. Questa scelta è coerente con il desiderio di esattezza che la pervade e con l’aspirazione a misurare tutti i fenomeni dell’economia e a rappresentarli con l’ausilio di modelli matematici più o meno complessi. Prima dell’esplosione della crisi finanziaria, molti hanno ritenuto che il rischio fosse scomparso, grazie all’innovazione in campo finanziario e attuariale. In un mondo in cui è possibile assicurarsi contro ogni rischio, la moneta perde il connotato di bene rifugio e si riduce a semplice mezzo di scambio, domandato per essere speso un attimo dopo, non per essere trattenuto come antidoto all’incertezza.
Il problema di un’impostazione del genere, e della fiducia nella teoria dei mercati efficienti e nell’ergodicità del mondo, che ne costituisce parte integrante, è che, adottandola, diventa difficile spiegare le forti oscillazioni nella preferenza per la liquidità, i fenomeni di contagio finanziario, le ondate improvvise di panico di cui siamo stati testimoni recenti.
In questo senso, l’economia di Keynes fornisce solide basi, sulle quali costruire nuovi modelli, capaci di spiegare il mondo com’è, e non come gli economisti vorrebbero che fosse. Fa parte di questa ricostruzione la disponibilità a riflettere sui limiti della concorrenza, oltre che sui suoi meriti (che Keynes riconosceva), a superare l’idea che ogni fenomeno economico sia spiegabile come somma di scelte razionali, a formulare ipotesi realistiche, a prestare attenzione agli aspetti storici, sociali e istituzionali dell’economia. L’obiettivo di uno sforzo del genere, è mettere la teoria economica al servizio dell’uomo comune – come avrebbe detto il Keynesiano Federico Caffè – elaborando politiche capaci di garantire la piena occupazione, attraverso una combinazione sapiente d’investimenti pubblici e lotta alle disuguaglianze, e di ridurre la pressione a competere fra le nazioni sul piano del commercio e della finanza internazionale.
E’ utopistico pensare che una ricostruzione del genere possa avvenire in tempi brevi. Troppi ostacoli si frappongono ad essa, dalla tirannia dello status quo, di cui parla Paul De Grauwe (P. De Grauwe, “The Return of Keynes”, International Finance, 2010), alla capacità del mainstream di assorbire le intuizioni di Keynes, sintetizzandole e riducendole a casi particolari di una teoria generale d’impostazione neoclassica. Nonostante questo, però, quelle intuizioni, col loro insistere su parole come incertezza, stabilizzazione, ragionevolezza, giustizia, se sorrette dalla fiducia nella capacità della politica economica di immaginare soluzioni sono in grado di comporre interessi in conflitto e rappresentano un punto di riferimento imprescindibile per comprendere i problemi economici e sociali che affliggono il mondo di oggi e per proporre soluzioni efficaci.
Per questo è importante lavorare perché si affermi una nuova agenda di ricerca, d’impostazione keynesiana, che possa fornire un base per “un modo di pensare migliore” come Keynes stesso auspicò in un celebre discorso alla Camera dei Lord il 23 maggio 1944. Questo non significa fermarsi all’esegesi, per quanto importante, delle parole di Keynes, ma andare oltre, sperimentando e ispirandosi al suo pragmatismo, al suo senso della storia e alla sua forte visione etica. Per fare questo, citando ancora una volta Skidelsky “Non abbiamo bisogno di un nuovo Keynes; ci serve piuttosto il vecchio Keynes, adeguatamente aggiornato. Non sarà la nostra unica guida per il futuro, ma rimane un’indispensabile guida” (R. Skidelsky, “The Relevance of Keynes”, Cambridge Journal of Economics, 2011).