C’è qualcosa di vagamente situazionista nella proclamazione inter-istituzionale del «pilastro europeo dei diritti sociali» da parte di Commissione, Consiglio e Parlamento dell’Unione solennemente riuniti al vertice di Göteborg dello scorso novembre. Per quanto probabilmente aspiri ad essere ricordato al pari di altri famosi vertici, a cominciare da quello celeberrimo di Lisbona del marzo del 2000, è difficile che quello di Göteborg possa davvero lasciare una effettiva traccia di sé negli anni a venire. Ed è invece probabile che ce ne ricorderemo, in negativo, come di un non-evento, palesemente inidoneo a rifondare su nuove basi – e men che meno su di un «pilastro» dal solido ancoraggio costituzionale – le politiche sociali e del lavoro dell’Unione europea.
La mia pessimistica previsione si basa su due principali ordini di considerazioni, sulle quali vorrei brevemente soffermarmi per motivare tanto scetticismo sul futuro del pilastro europeo dei diritti sociali. La prima attiene alla natura giuridica del pilastro ed è, quindi, se vogliamo, di metodo, giacché si appunta sulla scelta di affidare ad un atto di soft law, per quanto solennemente adottato, l’ambiziosa pretesa di una sorta di rifondazione politico-costituzionale dei diritti sociali nell’Unione europea. La seconda attiene invece ai contenuti del pilastro, ed è dunque di merito.
Il pilastro è formalmente un atto (articolato in tre capi preceduti da un lungo preambolo) di certo politicamente impegnativo per i tre organi che lo hanno proclamato in via inter-istituzionale, ma altrettanto certamente privo di valore normativo. Potremmo forse paragonarlo – mutatis mutandis – alla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori proclamata nel 1989 a Strasburgo (con l’auto-esclusione del Regno Unito) sotto gli auspici della Commissione Delors, la quale servì infatti essenzialmente da base programmatica delle proposte di politica sociale dell’esecutivo comunitario dell’epoca. Il paragone con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – che fu come noto proclamata solennemente per la prima volta a Nizza, nel 2001 – suonerebbe, invece, inappropriato, non fosse altro perché la Carta, elaborata con forte innovazione di metodo dalla convenzione appositamente costituita, era destinata ab origine a diventare parte integrante del diritto primario dell’Unione: ad assumere, cioè, come si dice, pieno valore costituzionale. Ed infatti, sia pure con un’attesa durata quasi un decennio, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha alla fine assunto tale valore, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
Al contrario, come si afferma chiaramente nel preambolo, il pilastro è stato ideato – «segnatamente per la zona euro» (ancorché con apertura a tutti gli Stati membri) – solo con l’obiettivo (politico) di «fungere da guida per realizzare risultati sociali e occupazionali efficaci in risposta alle sfide attuali e future così da soddisfare i bisogni essenziali della popolazione e per garantire una migliore attuazione e applicazione dei diritti sociali». Esso non aspira, dunque, ad assumere un valore normativo autonomo, ma mira piuttosto a guidare l’azione politica della Commissione, del Consiglio e del Parlamento europeo, oltre che degli Stati membri ai quali è indirizzato, compiendo una ricognizione dei principi e dei diritti sociali che formano già parte dell’acquis dell’Unione grazie alla Carta dei diritti fondamentali e, più in generale, alle norme primarie e secondarie in materia sociale già in vigore nell’ordinamento euro-unitario. Come si afferma nel punto 14 del preambolo, il pilastro «esprime principi e diritti fondamentali per assicurare l’equità e il buon funzionamento dei mercati del lavoro e dei sistemi di protezione sociale nell’Europa del 21° secolo. Ribadisce alcuni dei diritti già presenti nell’acquis dell’Unione». È vero, come si afferma subito dopo nello stesso punto del preambolo, che il pilastro «aggiunge nuovi principi per affrontare le sfide derivanti dai cambianti sociali, tecnologici ed economici», ma – salvo quanto osserverò criticamente tra breve sull’effettivo valore innovativo delle sue enunciazioni – esso riconosce anche che, «affinché i principi e i diritti siano giuridicamente vincolanti, è prima necessario adottare misure specifiche o atti normativi al livello appropriato». Ed è proprio qui che va colta la debolezza, o meglio l’insidia più grave, del pilastro europeo dei diritti sociali.
Nel ripercorrere a ritroso la lunga marcia della costituzionalizzazione dei diritti sociali nell’ordinamento dell’Unione, il pilastro riconsegna infatti questi diritti ad un (peraltro assai debole) programma di misure specifiche o di atti legislativi affidati alla iniziativa della Commissione e alla capacità – e volontà – di compromesso politico di Consiglio e Parlamento, oltre che alla disponibilità degli Stati membri per quanto di loro competenza anche alla luce del principio di sussidiarietà. Invece di aspirare alla costituzionalizzazione dei diritti sociali fondamentali al livello dell’Unione, come le precedenti solenni proclamazioni in materia, il pilastro esprime piuttosto una istanza di de-costituzionalizzazione e, in questo senso, in qualche modo prende atto di quanto già avvenuto, de facto, non solo al livello dell’ordinamento euro-unitario, nei lunghi anni della crisi europea. Peraltro, lo stesso obiettivo – di per sé del tutto condivisibile – di ri-politicizzare la nuova questione sociale europea, per rispondere alle grandi sfide dell’Unione, è, sua volta, contraddittoriamente affidato ad un documento (di soft law) redatto nello stile classico di una carta di diritti, senza una adeguata infrastruttura di concrete policies attuative (il che segna, ancora una volta, la distanza e la differenza storica rispetto all’ambizioso programma con cui la Commissione Delors diede seguito alla proclamazione di Strasburgo del 1989). Dunque, una paradossale de-costituzionalizzazione senza (vera) ri-politicizzazione.
Occorre d’altra parte seriamente dubitare – per venire alla critica di merito anticipata in apertura – che il pilastro possa davvero accompagnare e stimolare un rilancio delle politiche sociali e occupazionali dell’Unione all’altezza delle sue sfide e lungo vie davvero innovative. Scorrendo anche superficialmente i contenuti dei tre capi in cui si articola il pilastro (dedicati, rispettivamente, a pari opportunità e accesso al mercato del lavoro, condizioni di lavoro eque e protezione sociale e inclusione), si ha la netta impressione che la Commissione abbia voluto riscrivere i diritti sociali che già figurano nella Carta di Nizza conformandoli, nel contenuto, alla nuova grammatica politica (neoliberale) della flexicurity. Non v’è qui modo, per ovvie ragioni di spazio, per svolgere una esegesi accurata delle singole previsioni del pilastro. Anche ad uno sguardo impressionistico tale dato testuale balza, tuttavia, chiaramente agli occhi del lettore appena disincantato.
Si noti, innanzi tutto, la prevalenza – anche topografica e quantitativa – che è assegnata dal pilastro alle previsioni relative ai diritti che sono centrali nella logica della flexicurity, soprattutto per come essa è effettivamente tradotta sul piano delle politiche: i diritti strumentali all’accesso e alla partecipazione al mercato del lavoro, da un lato (capo I), e quelli in cui si sostanzia la protezione sociale in caso di disoccupazione (o di transizione da un impiego all’altro) e più in generale il contrasto dell’esclusione, dall’altro (capo III). Ma è l’analisi della riscrittura dei diritti che figurano nel corpo centrale del pilastro, ovvero quelli enunciati nel capo secondo e relativi allo svolgimento del rapporto, a confermare la preminenza della logica flessicuritaria, che richiede di riconfigurare in base al criterio-guida della giustizia d’accesso anche le tutele che sono deputate ad assicurare condizioni di lavoro eque (le quali, nell’ottica tradizionale, sono invece ancora improntate ad una idea di giustizia redistributiva e ad una istanza di riequilibrio dell’asimmetria di potere sociale tra le parti del contratto).
E così, anche in questo capo del pilastro l’accento cade – inevitabilmente – sulle condizioni che sono alla base di una «occupazione flessibile e sicura» (articolo 5); ciò che implica che sia garantita in primis «ai datori di lavoro la necessaria flessibilità per adattarsi rapidamente ai cambiamenti di contesto economico», dovendosi al contempo promuovere «forme innovative di lavoro» e incoraggiare l’imprenditorialità e il lavoro autonomo. E se va garantito il diritto ad una retribuzione equa, che offra un tenore di vita dignitoso, il corrispondente livello delle retribuzioni minime adeguate dovrà essere fissato dagli Stati membri in modo da salvaguardare comunque l’accesso al lavoro e gli incentivi alla ricerca di un’occupazione (articolo 6). Significativamente, i diritti riconosciuti dall’articolo 7 in caso di licenziamento sono formulati in termini prevalentemente procedurali, mentre i rimedi per le ipotesi di recesso ingiustificato vengono concepiti (e ridimensionati) in chiave essenzialmente indennitario-risarcitoria (si parla di «una compensazione adeguata»).
Il pilastro ha in ciò almeno il merito di rappresentare in forma chiara e direi quasi didascalica il mutamento di prospettiva che la nuova narrazione flessicuritaria comporta nella configurazione dei diritti sociali. Nell’ottica cui dà ora compiuta espressione il pilastro, i diritti e le politiche sociali sono reimpostati in funzione della ottimizzazione delle chances di partecipazione dei singoli (indipendentemente dalla tipologia di contratto) ad un efficiente mercato del lavoro, onde le stesse misure di protezione sociale articolate nel capo terzo sono coerentemente pensate anzitutto per favorire la reintegrazione nel mercato degli individui a rischio di esclusione. La classica funzione redistributivo-protettiva dei diritti sociali – ancorché non del tutto oscurata – viene così subordinata al nuovo imperativo di quella che, in un saggio famoso della fine degli anni novanta, Wolfgang Streeck ha chiamato la «solidarietà competitiva» (e condizionata), dove prevale l’idea che le politiche sociali siano per l’appunto strumentali – per usare un’altra efficace espressione (di Marco Dani) – ad una «continuous capitalisation of the self required by advanced liberalism». Di qui la singolare sovrapposizione – sicuramente inedita rispetto alla classica enunciazione dei diritti sociali nelle costituzioni e nelle carte novecentesche, cui almeno sotto questo profilo non si discosta nemmeno la Carta di Nizza – tra diritti dei lavoratori (non solo subordinati) e garanzie per i datori di lavoro. Se l’obiettivo è riconfigurare i diritti sociali in funzione della promozione della imprenditorialità e della competitività complessiva del sistema, questa sovrapposizione (che è a ben vedere iscritta nello stesso statuto epistemologico della flexicurity) è semplicemente necessaria.
La questione che va, allora, conclusivamente sollevata – per sintetizzare le osservazioni critiche sin qui svolte, riallacciandole alla scettica previsione fatta in apertura – è se un tale solenne rilancio della strategia della flexicurity sia davvero la strada giusta per affrontare le sfide fronteggiate dal modello sociale europeo, a partire dalla esplosione delle disuguaglianze e delle ingiustizie sociali e dalla precarizzazione dilagante dei rapporti di lavoro e delle condizioni di vita di milioni di lavoratori (soprattutto giovani, donne e immigrati). Chi scrive ne dubita fortemente. E ne dubita – si badi – anche a prescindere dalla motivata sfiducia sulla effettiva capacità di attuazione degli obiettivi solennemente proclamati al vertice di Göteborg, vista la pressoché totale assenza di proposte politiche degne di nota da parte della Commissione Juncker.