Vantaggi, soddisfazione e rimpianti dei dottori di ricerca

Roberto Fantozzi fa il punto sulle condizioni occupazionali e di reddito dei dottori di ricerca. Dai dati esaminati, di provenienza ISTAT, risulta che il dottorato assicura un vantaggio sia in termini occupazionali sia in termini remunerativi. Emerge, tuttavia, che in generale i dottori di ricerca sono poco soddisfatti degli sbocchi professionali offerti dal mercato del lavoro italiano e il fenomeno del brai drain si spiega anche con le condizioni decisamente migliori, sotto vari aspetti, di cui godono coloro che si stabiliscono all’estero.

Dal 1978, il motto della Amerigo Vespucci, nave scuola della marina militare Italiana, è: «Non chi comincia ma quel che persevera». Il motto vuole esprimere così la vocazione della Vespucci alla formazione e all’addestramento dei futuri ufficiali della Marina Militare. Per analogia, lo stesso motto si sarebbe potuto adottare anche in ambito accademico quando qualche anno più tardi, nel 1982, la legge n. 382 istituiva anche in Italia, in ritardo rispetto al contesto internazionale, il dottorato di ricerca “quale titolo accademico valutabile unicamente nell’ambito della ricerca scientifica”.

Infatti, il dottorato o PhD (abbreviazione del latino “Philosophiæ Doctor”, mentre nei paesi anglofoni indica Doctor of Philosophy) si intraprende solo dopo aver conseguito la laurea e “perseverando” nello studio e nella formazione si giunge al conseguimento del massimo titolo di studio ottenibile in ambito universitario.

Mentre la carriera dei futuri ufficiali di Marina è ben delineata, cosa accade invece a coloro che decidono di conseguire un Phd? In questa scheda cercheremo di rispondere a questo quesito analizzando le informazioni, a nostra disposizione, sulla carriera dei dottori di ricerca.

L’istituto del dottorato, nel corso degli anni, ha subito diverse modifiche; come già ricordato la legge istitutiva (382/82) lo collocava esclusivamente all’interno della carriera accademica – il numero di addottorati era inizialmente molto limitato – solo successivamente il Phd ha iniziato ad interessare anche professioni e ambiti di ricerca esterni al circuito universitario. Una maggiore apertura dei dottorati con la crescita del numero di partecipanti si è avuta con l’approvazione delle leggi 210 del 1998 e 224 del 1999, che hanno consentito agli atenei di istituire autonomamente i corsi e di creare posti anche senza borsa di studio.

La recente crisi economica e la necessità di rispettare vincoli di bilancio sempre più stringenti, ha comportato, poi, con il DM 45/2014 sia una riduzione del numero di corsi sia del numero dei posti, a seguito dell’applicazione dei requisiti minimi (fissando un rapporto 3:1 tra i posti “con borsa” e “senza borsa”).

L’aumento negli anni del numero di dottori di ricerca ha fatto emergere anche in Italia un dibattito, già vivo all’estero, sul ruolo e le potenzialità dei dottorati. Il Phd non è stato più collocato esclusivamente all’interno dell’ambito accademico ma è gradualmente stato visto come un percorso capace di accrescere il capitale umano e conseguentemente lo sviluppo economico e tecnologico di un paese. Conseguentemente, il tema dell’occupazione e della remunerazione dei dottorati ha attratto sempre maggiore interesse.

Dalla rilevazione censuaria dell’Istat (cfr. Istat, 21 gennaio 2015, statistiche report: “L’inserimento professionale dei dottori di ricerca. Anno 2014”), risulta che nel 2010 gli addottorati sono stati 11.240 persone – di cui circa il 52% donne – molti di più rispetto agli 8.443 del 2004. La crescita del numero di dottori di ricerca è, pertanto, confermata. Per quello che riguarda le condizioni lavorative si osserva, sempre con riferimento ai dottori del 2010, che a quattro anni dal conseguimento del titolo il 91,5% svolgeva un’attività lavorativa mentre il 7% era ancora in cerca di un’occupazione. Queste percentuali sono molto confortanti, soprattutto se si tiene conto della situazione del mercato del lavoro italiano.

La probabilità di trovare un’occupazione, come accade anche per le lauree, dipende dalla disciplina in cui il titolo è conseguito. I tassi di occupazione più elevati, circa il 96%, si registrano nelle discipline matematiche, informatiche e di ingegneria; seguono, poi, con circa il 95%, quelle statistiche ed economiche. Tassi occupazionali inferiori alla media nazionale si hanno, invece, nelle discipline umanistiche e il valore minimo (85,2%) si registra nel settore di Scienze delle antichità, filologico letterarie e storico artistiche.

L’elevato tasso di occupazione, se pur differenziato tra le diverse discipline, indica un primo vantaggio consentito dal conseguimento del PhD che, però, non è indipendente dall’andamento più generale dell’economia. Infatti, da indagini svolte prima che la crisi si manifestasse, emerge che – dopo un numero di anni inferiore rispetto ai quattro dell’ultima rilevazione – la quota di occupati era maggiore: 94,2% nel 2004 e 92,8% nel 2006.

Un secondo aspetto da considerare è la tipologia di lavoro cui il Phd consente di accedere. Il 53,1% degli addottorati nel 2010 è impiegato in lavori a termine (contro il 43,7% nella coorte del 2008) di cui il 27,2% ha una borsa o assegno di ricerca mentre il 15,4% ha un contratto a tempo determinato e il 10,5% è impegnato in un lavoro a progetto o di prestazione d’opera occasionale.

I contratti a termine sono diffusi maggiormente tra le donne (57,6%) con una differenza di circa dieci punti percentuali rispetto agli uomini (48,4%) e solo nel 13,2% dei casi essi corrispondono ad una scelta dei dottori di ricerca. Dunque, nella grande maggioranza questi contratti sono accettati a causa della difficoltà a trovare sul mercato condizioni lavorative più stabili.

La mancanza di stabilità nei contratti di lavoro si ripercuote anche sulla soddisfazione complessiva per il lavoro svolto. Infatti, in una scala che va da 0 a 10, la soddisfazione media raggiunge i 7,2 punti; a pesare negativamente sono le prospettive di carriera e la stabilità lavorativa considerate insufficienti (il punteggio è, rispettivamente, 5,3 e 5,8). Al contrario, l’autonomia e le mansioni svolte ottengono 8 punti mentre il trattamento economico raggiunge appena la sufficienza (6,2). A quattro anni dal conseguimento del titolo i dottori del 2010 dichiarano di percepire, dal complesso delle loro attività, un reddito netto mediano mensile di 1.633 euro e quello delle donne è sistematicamente più basso. Anche in questo caso l’area disciplinare in cui è stato conseguito il titolo determina significative oscillazioni attorno alla media.

Il confronto tra i redditi dei dottorati e quelli dei laureati è possibile grazie ai dati forniti dalla XVI Indagine sulla condizione occupazionale dei laureati condotta da Almalaurea. Come mostrato in figura 1 il differenziale di reddito tra i laureati e i dottori di ricerca è mediamente di circa 200 euro mensili: il massimo differenziale è di circa 330 euro e riguarda le scienze di base mentre il minimo è di 76 euro e si riferisce alle scienze umane.

Figura 1: Confronto tra i redditi mensili dei Laureati magistrali, con o senza dottorato, a cinque anni dal titolo (Anno 2008 valori medi in euro).

Figura 1: Confronto tra i redditi mensili dei Laureati magistrali, con o senza dottorato, a cinque anni dal titolo (Anno 2008 valori medi in euro).  Fonte: elaborazioni su dati Almalaurea

Fonte: elaborazioni su dati Almalaurea

Un dato molto importante è la percentuale di dottorati che vive all’estero: secondo l’indagine Istat si tratta del 12,9%, sempre tra gli addottorati del 2010. I paesi preferiti sono il Regno Unito (scelto dal 16,3%), gli Stati Uniti d’America (15,7%), la Francia (14,2%), la Germania (11,4%) e la Svizzera (8,9%). Le motivazioni che spingono i dottori di ricerca ad emigrare in altri paesi sono strettamente legate alle caratteristiche del mercato del lavoro italiano. Infatti, alla base del fenomeno del “brain drain” c’è la maggiore probabilità di trovare all’estero un lavoro più qualificato o meglio retribuito; non a caso i dottori di ricerca residenti all’estero dichiarano un reddito da lavoro mensile che eccede di 830 euro il valore medio generale.
Dunque, il Phd fornisce un vantaggio sia in termini occupazionali sia in termini remunerativi.

Ma questi vantaggi, almeno con riferimento al mercato del lavoro italiano, sono un adeguato compenso per la maggiore “perseveranza” di chi si impegna nel suo conseguimento?

Le informazioni contenute nell’indagine Istat non sembrano consentire una risposta positiva. Infatti, i dottori di ricerca, sempre su una scala che va da 0 a 10, assegnano un punteggio di poco superiore alla sufficienza (6,9) all’esperienza complessiva del dottorato. Il fattore maggiormente incisivo in senso negativo, nonostante gli elevati tassi di occupazione, è la condizione occupazionale; infatti, il 39,3% dei dottori di ricerca – prevalentemente quelli in Scienze giuridiche e quelli in Scienze economiche e statistiche – dichiara che non seguirebbe lo stesso corso di dottorato adducendo quale motivo principale l’insoddisfazione per gli sbocchi professionali offerti dal titolo.

L’insoddisfazione, quindi, non sembra tanto legata al percorso di studi ma all’incapacità del mercato del lavoro italiano di accogliere adeguatamente chi ha deciso, perseverando, di accrescere le proprie competenze anche nella speranza di utilizzarle appieno all’esterno del mondo accademico.

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