ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 216/2024

1 Giugno 2024

Come l’inflazione impatta sulla disuguaglianza? Nessi teorici e prime evidenze

Massimo Aprea e Michele Raitano chiariscono l'importanza di considerare gli effetti dell'inflazione e del costo dei beni necessari sulla distribuzione del benessere economico e, dopo aver ricordato le varie difficoltà che occorre affrontare, presentano un semplice esercizio di simulazione per l’Italia che mostra, da un lato, che la disuguaglianza aumenta molto se dai redditi individuali si sottrae la spesa per cibo e, dall’altro, come la recente impennata inflazionistica può aver contribuito a aggravare la disuguaglianza.

La disuguaglianza dei redditi – misurata prendendo a riferimento il reddito disponibile equivalente come misura del benessere economico individuale – in Italia sembra sostanzialmente stabile dalla metà degli anni ’90 del XX secolo in poi, come discusso da Franzini e Raitano sul Menabò. Tale quadro di stabilità contrasta con la diffusa percezione di un arretramento del tenore di vita per ampie fasce della popolazione e di una contestuale crescita dell’opulenza di alcuni gruppi sociali. Escludendo che siano errate le percezioni della popolazione, questo iato può essere spiegato dall’incapacità delle indagini campionarie di rappresentare adeguatamente l’evoluzione del tenore di vita dei super-ricchi, oppure dalla mancata considerazione di alcuni fattori che influenzano le condizioni di vita individuali e che non sono colti appieno dalla dinamica dei redditi disponibili. Uno di questi fattori, quello su cui ci soffermiamo in queste note, è l’inflazione. 

Il legame fra inflazione e disuguaglianza è stato poco indagato certamente anche a causa della scarsa rilevanza del fenomeno inflattivo nel decennio tra la fine della grande crisi e la crisi energetica iniziata nella seconda metà del 2021, ovvero negli anni in cui il tema della crescita della disuguaglianza ha ritrovato centralità nel dibattito economico. Affrontarlo pone, comunque, rilevanti problemi. 

Come è noto, le analisi sulla tendenza della disuguaglianza si basano quasi sempre su variabili monetarie (in primis, redditi o retribuzioni) definite in termini nominali; non tengono, cioè, conto del livello e della dinamica dei prezzi. D’altro canto non risolve il problema trasformare i redditi nominali in redditi reali utilizzando il livello generale dei prezzi, anche perché le principali misure di disuguaglianza e povertà relativa sono invarianti rispetto al livello dei prezzi. Per stabilire quale sia l’evoluzione della disuguaglianza occorrerebbe applicare a ciascun individuo l’indice di inflazione relativo ai beni che consuma. Data la dinamica dei redditi nominali, il reddito reale (proxy del benessere) peggiorerà in misura diversa per gli individui a seconda del tasso di inflazione dei beni che consumano o, più precisamente, di quanto – a causa dell’inflazione – cresce la quota del loro reddito destinata all’acquisto di quei beni. Dunque, se l’inflazione è differenziata e i panieri di consumo sono diversi è pressoché impossibile disporre delle informazioni necessarie per calcolare correttamente la dinamica della ‘vera’ disuguaglianza. Ma qualche progresso si può fare rispetto al modo insoddisfacente con cui oggi vengono esaminati i rapporti tra disuguaglianza e inflazione. 

Un primo elemento conoscitivo è fornito dalla Figura 1 che raffronta, per il caso italiano, il tasso di inflazione medio cumulato nel periodo 2019-2023 con quello delle principali macrocategorie di spesa secondo la classificazione COICOP. Dalla figura emerge un quadro di profonda eterogeneità anche fra macro-categorie di beni. A fronte di un tasso di inflazione cumulato del 17.2%, il prezzo dei beni alimentari è aumentato di quasi il 23% mentre quello dei beni nella categoria ‘abitazione’ – che include i beni energetici – del 45%. Se le quote di spesa nelle diverse categorie di beni variano lungo la distribuzione del reddito, il tasso di inflazione effettivo sopportato dagli individui in base al loro paniere di consumo abituale non è ‘uguale per tutti’. Al contrario, è maggiore per le famiglie che acquistano in proporzione maggiore i beni soggetti a più alta inflazione. La Figura 1 mostra che i maggiori aumenti si sono concentrati su prodotti – cibo e beni energetici – che, generalmente, costituiscono la parte principale della spesa delle famiglie più povere e può fornire una spiegazione, per quanto parziale, della percezione di una crescita della dispersione del tenore di vita non colta dall’evoluzione dei principali indici di disuguaglianza basati sui redditi nominali.

Figura 1: Inflazione cumulata 2019-2023 in Italia per diverse categorie di spesa

Fonte: elaborazioni su dati Eurostat

Per tenere conto dell’impatto dell’inflazione sulla disuguaglianza dei redditi occorrono basi dati che registrino, congiuntamente, informazioni sul reddito e sulla spesa delle famiglie nelle diverse categorie di beni. Alcuni recenti lavori per gli Stati Uniti (cfr. Argente e Lee, “Cost of living inequality during the Great Recession”), facendo uso di dati sulla spesa per consumi rilevata nei luoghi di acquisto, mostrano che, in media, i più poveri destinano una maggior parte della spesa in categorie di beni a maggiore inflazione. In aggiunta, esiste una differenza nei tassi di inflazione effettivi anche all’interno delle varie categorie di beni e tale differenza è a vantaggio dei più ricchi, che più facilmente possono modificare le proprie abitudini di consumo o ricercare offerte vantaggiose. I fenomeni inflattivi risultano, dunque, essere pro-rich amplificando la disuguaglianza dei redditi reali più di quanto emerge dalla mera osservazione dei redditi nominali. Un’indicizzazione generalizzata delle diverse fonti di reddito fornirebbe copertura contro l’inflazione media e perciò non sarebbe sufficiente per compensare gli effetti della crescita differenziata dei prezzi. 

Occorrerebbero, come si è già detto, dati sui tassi di inflazione a livello di singola famiglia. Ma vi sarebbero comunque problemi e ad originarli potrebbero essere le preferenze individuali. Si consideri il caso di chi, molto ricco, fa un consumo smodato di un bene di lusso il cui prezzo cresce moltissimo nel tempo. Tenere conto dell’aumento di prezzo di questo bene significherebbe deflazionare notevolmente il reddito reale di questo individuo e quindi concludere che la disuguaglianza si è ridotta. 

Come uscirne? L’ideale sarebbe avere a disposizione l’informazione sul costo di un paniere di beni cosiddetti ‘necessari’ (quali casa, sanità, cibo) per isolare l’effetto delle preferenze e valutare l’impatto sul benessere economico individuale della crescita del costo derivante dal dover disporre di tali beni. Inutile sottolineare che anche la definizione di beni necessari – e di quanta parte della spesa in questi sia effettivamente ‘necessaria’ – presenta notevoli ostacoli teorici e metodologici. 

Da un punto di vista teorico – vista anche la difficoltà empirica e concettuale di costruire tassi di inflazione effettivi individuali – si può però argomentare che l’impatto del costo della vita sul benessere economico potrebbe essere colto in modo adeguato prendendo come indicatore del tenore di vita individuale non il reddito complessivo che si ha a disposizione – inteso solitamente come la miglior misura del ‘potere di disporre delle risorse’ – ma il reddito ‘disponibile dopo aver sostenuto la spesa per i beni necessari’. In altri termini, se misurassimo la disuguaglianza sulla base di quanto si ha effettivamente a disposizione per soddisfare le proprie preferenze in eccesso ai soli bisogni primari ci si baserebbe su una misura di benessere che, oltre a essere chiaramente sensibile all’andamento del costo della vita, potrebbe essere maggiormente rappresentativa di ciò a cui effettivamente gli individui guardano per valutare il loro tenore di vita. Tenere conto di quanto si deve spendere per alcune categorie di beni necessari nella misurazione del benessere economico individuale permette, quindi, di considerare come la differente distribuzione della spesa di alcune categorie di beni in base al reddito individuale, da una parte, e l’aumento del prezzo di questi beni, dall’altro, possano incidere sulla disuguaglianza del tenore di vita. 

In linea con quest’idea, abbiamo svolto un semplice esercizio, usando i dati per l’Italia dell’indagine EU-SILC 2019, che contengono informazioni dettagliate sui redditi familiari e sulla spesa per il cibo consumato a casa (escludendo, quindi, la spesa nei ristoranti). Dall’indagine EU-SILC si conferma come la quota di reddito destinata a spesa alimentare nel nostro paese si riduca al crescere del reddito individuale (Figura 2). Ciò rappresenta un indizio, o forse una conferma, del fatto che l’inflazione amplia le differenze tra le quote di reddito che i ricchi e i poveri possono destinare a beni non necessari, decisivi per il miglioramento del benessere. I dati a nostra disposizione non consentono di distinguere quanta della spesa per cibo è ‘necessaria’ o ‘voluttuaria’. Tuttavia, almeno per la coda bassa della distribuzione, è lecito assumere che la spesa per cibo sia meno influenzata dalle preferenze rispetto ad altre tipologie di beni. 

Figura 2: Quote di spesa per beni alimentari per quintile della distribuzione dei redditi equivalenti disponibili in Italia

Fonte: elaborazioni su dati EU-SILC

Sulla base di questa ipotesi, applicando l’approccio ‘out-of-pocket’, valutiamo come cambia la misura di disuguaglianza quando si guarda a ciò che resta dei redditi equivalenti una volta sottratta la spesa alimentare. Successivamente, simuliamo cosa sarebbe accaduto alla disuguaglianza del reddito out-of-pocket dapprima aumentando il costo della spesa alimentare in base al tasso di inflazione dei beni alimentari fra il 2019 e il 2023 e, infine, indicizzando pienamente tutti i redditi disponibili in base al tasso di inflazione e sottraendo la spesa per cibo inflazionata (Figura 3). Dai nostri calcoli emerge chiaramente come il reddito disponibile al netto delle spese alimentari sia molto più diseguale del reddito disponibile (l’indice di Gini cresce del 15.6%), dal momento che le spese alimentari sono sostenute in misura relativamente maggiore (rispetto al reddito) dai nuclei meno abbienti. Tale effetto è ulteriormente aggravato degli effetti dell’inflazione sui beni alimentari (il coefficiente di Gini cresce di un ulteriore 3.8%, da 0,375 a 0,389). 

Ovviamente, l’effetto complessivo dell’inflazione sulla disuguaglianza andrebbe valutato tenendo conto di come cambiano i redditi nominali individuali (per effetto di meccanismi di indicizzazione automatica, rinnovi contrattuali e modifiche nei risultati di mercato) e, anche in base a questo aspetto, laddove a crescere di più dovessero essere i redditi nominali dei più abbienti, l’inflazione potrebbe rivelarsi pro-rich. 

In questa sede non intendiamo proporre analisi complesse sulla variazione dei redditi nominali individuali ma adottiamo semplici ipotesi relative alla crescita, in base al tasso di inflazione medio, di tutti i redditi da una determinata fonte (raggruppate per semplicità in tre: pensioni e trasferimenti, salari, redditi da capitale e da lavoro autonomo). Dalla Figura 3 si verifica che anche nell’ipotesi estrema in cui tutte le fonti di reddito aumentassero in linea col tasso di inflazione complessivo, non si recupererebbe interamente l’aumento della disuguaglianza legato all’inflazione dei beni alimentari (il Gini crescerebbe da 0,375 a 0,378).

Figura 3: Variazione dell’indice di Gini in base a diversi scenari relativi alla definizione del reddito disponibile

Fonte: elaborazioni su dati EU-SILC

Nella Figura 4, vediamo in maggiore dettaglio l’effetto dell’indicizzazione applicata – una alla volta – alle singole fonti di reddito. L’effetto di un aumento differenziato delle diverse componenti dei redditi nominali durante un episodio inflattivo sulla disuguaglianza dipende dalla rilevanza di quella fonte di reddito per le famiglie nelle diverse fasce della distribuzione. Non sorprende, dunque, che indicizzare unicamente i redditi da capitale e da lavoro autonomo, relativamente più frequenti nella parte alta della distribuzione, condurrebbe a un notevole aumento della disuguaglianza rispetto allo scenario base (che esclude sia l’inflazione che l’indicizzazione; da 0,375 a 0,394). Al contrario, indicizzare congiuntamente solo pensioni e salari, ossia le fonti di reddito che compongono la stragrande maggioranza del reddito delle famiglie più povere, consentirebbe di azzerare quasi del tutto l’effetto dell’inflazione sulla disuguaglianza.

Figura 4: Effetto dell’indicizzazione di diverse componenti del reddito disponibile

Fonte: elaborazioni su dati EU-SILC

In conclusione, va chiarito che queste note non vogliono rappresentare una simulazione dettagliata di cosa è accaduto alla distribuzione del tenore di vita della popolazione italiana in seguito alla recente crescita dell’inflazione, ma intendono mettere in evidenza un aspetto spesso trascurato su cui è bene porre la giusta enfasi: la ricerca economica nel campo delle disuguaglianze dovrebbe fare ulteriori sforzi concettuali ed empirici per riuscire a tenere conto di tutti quegli aspetti che influenzano le condizioni di vita delle famiglie ma che spesso sono colti poco o male dagli indicatori a disposizione. Misurare bene è infatti precondizione necessaria per valutare nel miglior modo possibile l’impatto di alcuni macro-fenomeni e fornire risposte adeguate da parte delle politiche pubbliche.

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