La sinistra continua a perdere terreno, soprattutto in quell’importante segmento di società, di certo non composto di individui privilegiati, che storicamente ha sempre rappresentato. Lo perde in gran parte a favore di partiti anti-globalizzazione e anti-immigrati. Ed è così non solo in Italia, naturalmente. Donald Trump, Marine LePen e Geert Wilders, per citarne alcuni, sono lì a testimoniarlo. Inoltre, quasi ovunque, il terreno la sinistra lo perde dopo aver governato, spesso per periodi non brevi.
Le reazioni a queste sconfitte sono di vario tipo ma raramente, per non dire mai, tra di esse vi è una analisi “radicale” e profonda delle cause che le hanno determinate da parte di chi, in vario grado e con diversa responsabilità, ne è stato l’artefice. Su alcune tematiche cruciali – e qui non ci riferiamo alla trasparenza e correttezza dei comportamenti dei politici, né soltanto all’Italia – vi è anzi la tendenza ad arroccarsi su posizioni che un attento esame dei fatti dovrebbe indurre ad abbandonare. Questo arroccamento accomuna le classi dirigenti dei partiti di sinistra moderata e un segmento piuttosto ampio del mondo intellettuale che esprime quelle che possiamo chiamare posizioni liberal. I due principali pilastri di queste posizioni sembrano essere, da un lato, la convinzione che questa globalizzazione debba essere difesa, più o meno così com’è, perché ha prodotto esiti positivi e, dall’altro, l’idea che alle dislocazioni da essa indotte nell’occupazione e nel lavoro si possa fare fronte con politiche di aggiustamento marginale e nazionale, in particolare con politiche di formazione e riconversione dei lavoratori. A queste convinzioni ci riferiamo, forse con qualche semplificazione, quando parliamo di posizioni liberal e si tratta di una posizione che può essere assunta anche da chi per altri versi potrebbe non essere considerato liberal.
Entrambi questi argomenti sono presenti, ad esempio, in un recente articolo pubblicato sul Corriere della Sera, da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. Da un lato si sostiene che la globalizzazione come la conosciamo è benefica perché ha portato milioni di Cinesi e Indiani a superare la soglia della povertà, dall’altro si afferma che politiche di sostegno al reddito nelle fasi di disoccupazione combinate con politiche di riqualificazione sono sufficienti ad assicurare ai lavoratori dislocati a causa della globalizzazione prospettive di carriera equivalenti in impieghi alternativi – oltre che necessarie per prevenire inefficienze. Inoltre, questi interventi sarebbero senz’altro più efficaci in mercati del lavoro flessibili, come quello che il cosidetto Job Act ha iniziato a disegnare. Una posizione di questo tipo dopo altre elezioni – quelle della vittoria di Trump – è stata espressa in più occasioni da Krugman, economista premio Nobel nel 2009, proprio per i suoi studi su globalizzazione e commercio internazionale – e certamente liberal in senso più ampio.
I motivi per dubitare di questi argomenti pro-globalizzazione- e, dunque, per ritenere che occorra ben altro per rilanciare la sinistra che lasciare le regole della globalizzazione così come sono e ricorrere a politiche nazionali di formazione e riqualificazione dei lavoratori – sono diversi.
Anzitutto la sinistra retrocede in paesi caratterizzati da politiche nazionali, anche in tema di formazione, molto diverse: dalla Francia agli Stati Uniti passando per i Paesi Bassi. Soprattutto, il problema del malcontento dei lavoratori non sembra che si possa risolvere con la formazione e la ri-occupazione. Vi è evidenza empirica che negli Stati Uniti, anche svariati anni dopo aver trovato un nuovo lavoro, è altamente improbabile che si possano raggiungere gli stessi livelli di salario dell’impiego perso (Autor et al., in Quarterly Journal of Economics, 2014, Walker, in Quarterly Journal of Economics, 2013). In aggiunta, accurati e autorevoli studi da parte di David Autor dell’MIT e suoi coautori (ad esempio, Autor et al. in American Economic Review, 2013; Autor et al., NBER Working Paper, 23173, 2017), hanno dimostrato che l’impatto della globalizzazione sui colletti blu non ha riguardato solo i redditi e la partecipazione lavorativa ma il loro benessere complessivo (ad esempio, aspettative di vita, qualità ambientale e capacità di crearsi una famiglia) in particolare nel caso di bianchi, maschi e di mezz’età.
I motivi di tutto ciò sono abbastanza chiari: da una parte, i colletti blu non diventeranno mai abbastanza qualificati da poter ambire a impieghi ben pagati nei knowledge-intensive business services, nella manifattura high-tech e nella finanza; dall’altra, il numero complessivo di questi lavori è limitato anche a causa dell’affermarsi delle nuove tecnologie digitali che, in maniera sempre crescente, rimpiazzano i lavori qualificati dei colletti bianchi in questi settori. Le opportunità sono invece concentrate in segmenti sottopagati, come i servizi alla persona, i piccoli impieghi autonomi, del turismo e della ristorazione, in breve i lavoretti di cui ha parlato Staglianò sul Menabò.
Quanto, poi, agli effetti benefici della globalizzazione nei paesi emergenti che consiglierebbero di non modificarne le regole all’argomento sulla fuoriuscita dalla povertà di milioni di persone se ne possono opporre molti di segno diverso.
Ad esempio, da quando la Cina è entrata nella World Trade Organization (nel 2001) le emissioni di gas serra sono aumentate di quasi il 50% (quelle Cinesi del 200% passando da poco meno del 10 al 40% delle emissioni globali) , mettendo a rischio il benessere delle generazioni presenti e future e ancora di più la salute dei cittadini cinesi; inoltre le diseguaglianze nei paesi sviluppati sono peggiorate in modo strutturale e ciò almeno in parte è imputabile al fatto che nelle imprese più grandi, che hanno beneficiato maggiormente delle recenti liberalizzazioni commerciali, la quota dei salari si è ridotta (Autor et al, NBER Working Paper, 2017). In relazione alle questioni ambientali, le imprese con le caratteristiche di cui si è appena detto, hanno anche una più alta propensione a rilocalizzare le parti più inquinanti dei propri processi produttivi nei paesi emergenti (Cherniwchan, in Journal of International Economics, 2017). Infine, ma non ultimo, c’è l’ulteriore argomento che in Cina se è vero che i poveri estremi sono diminuiti di numero è anche vero che le disuguaglianze di reddito sono enormemente aumentate.
Dunque, è tutt’altro che chiaro se e in che misura i benefici in termini di riduzione della povertà indotti dalla globalizzazione senza regole siano superiori ai costi sociali e ambientali (oltre che politici) ad essa riconducibili.
Criticare questa globalizzazione non vuole di certo dire che la soluzione risieda nel protezionismo (peraltro unilaterale) alla Trump, di cui scrive De Arcangelis in questo stesso numero del Menabò. Piuttosto che una soluzione quella sembra una sciagura ben peggiore dello status quo perché, tra le altre cose, potrebbe scatenare guerre commerciali e alimentare pericolose tensioni internazionali. Ma nutrire dubbi vuol dire dissociarsi dal silenzio assordante del pensiero liberal di fronte ai numerosi fallimenti della globalizzazione così com’è – e, in subordine, della rachitica architettura che sorregge l’Unione europea – che sono in testa alla classifica delle cause della disfatta della sinistra. Per rompere quel silenzio i liberals non dovrebbero diventare Trumpiani, basterebbe che cominciassero a ripensare alle regole globali in modo condiviso e multilaterale, cercando di esplorare lo spazio delle possibilità tra liberismo, da una parte, e protezionismo, dall’altra. Diciamolo con chiarezza: il sentiero è difficile, ma se i liberals pensano di consigliare al mondo solo ciò che è facile nelle condizioni attuali, diventano per definizione conservatori. I veri liberals dovrebbero sapere che le riforme sono difficili e diventano quasi impossibili se proprio loro rinunciano a pensare in quella direzione.
Il presupposto da cui bisogna partire è che le politiche nazionali raramente funzionano, eccetto nel caso sempre virtuoso, ma con qualche crepa, dei paesi Scandinavi, e che un tentativo di coordinamento internazionale è necessario partendo da un coraggioso ripensamento delle regole del commercio globale. Alcune proposte sono sul tavolo da tempo ma non hanno trovato riscontro a livello politico, anche a cause di oggettive difficoltà tecniche a realizzarle. Un esempio importante è il carbon border adjustments (Helm et al., in Oxford Review of Economic Policy, 2012), una tariffa commerciale proporzionale alla differenza tra le tasse sulle emissioni di gas serra di due paesi (ad esempio, Italia e Cina). L’esperienza degli accordi di Kyoto suggerisce che l’accordo sul clima di Parigi senza un meccanismo di penalizzazione effettiva, e quindi necessariamente commerciale, per i paesi che non riducono le emissioni meno di quanto promesso ha pochissime possibilità di raggiungere gli ambiziosi obiettivi prefissi da tale accordo. Occorre notare che un tale provvedimento avrebbe probabilmente effetti marginali sulla propensione a ricollocare le produzioni inquinanti in Cina ed altri paesi emergenti, ma permetterebbe di mitigare una delle distorsioni principali della globalizzazione, ossia i suoi effetti negativi sul clima. Incidentalmente, tale proposta porterebbe gettito fiscale addizionale nelle casse dei paesi che adottano politiche ambientali ambiziose e rafforzerebbe la creazione di un florido mercato per beni e servizi green di cui sia i paesi ricchi che la Cina potrebbero beneficiare.
La stessa logica potrebbe essere usata per assorbire gli squilibri evidenti creati dalla globalizzazione sul mercato del lavoro: laddove l’aumento dei salari nei paesi in attivo di bilancia commerciale sia strutturalmente più basso del tasso di crescita dell’economia, come avviene in Cina, si potrebbe richiedere a tali paesi un graduale aggiustamento pena l’applicazione di tariffe commerciali mirate. Tale provvedimento, che rimanda all’idea di Keynes che persistenti attivi di bilancia commerciale vadano scongiurati in quanto frenano l’aumento della domanda aggregata, avrebbe sicuramente un effetto del primo ordine nel riequilibrare il potere contrattuale a livello globale tra capitale e lavoro. Sempre nell’ottica di ridurre le diseguaglianze create dalla globalizzazione, rendendola in tal modo accettabile da una più larga fetta della popolazione e quindi neutralizzando l’ondata populista, si potrebbe ragionare sull’imposizione di livelli minimi di tassazione del capitale per i paesi che aderiscano ad accordi commerciali in modo da limitare il proliferare dell’ottimizzazione fiscale legalizzata. Ma questo in ultima analisi è un problema tutto europeo che riguarda la questione più generale del coordinamento delle politiche fiscali e la lotta ai paradisi fiscali in seno ai paesi dell’Unione e certamente richiede un’analisi più approfondita.
In conclusione, la nostra idea di fondo è che “this time is different”: il processo legittimo di catching-up cinese verso i livelli di reddito dei paesi sviluppati crea, per evidenti questioni dimensionali e per un esercito pressoché infinito di lavoratori di riserva, distorsioni gravitazionali che, invece di democratizzare le istituzioni cinesi, (si pensi alla recente rimozione del vincolo sul numero di mandati per il Presidente cinese) rischiano di portare al collasso le istituzioni democratiche e sociali che abbiamo così faticosamente costruito e che sono alla base di un patto sociale per cui i frutti in termini di crescita sono distribuiti (o redistribuiti) in modo equo. Il legame tra i due pilastri del patto sociale, equa disuguaglianza e redistribuzione, da un lato, e democrazia, dall’altro, è inscindibile e la presenza del primo è la conditio sine qua non per il secondo. L’arretramento, nel mondo, della sinistra a noi pare avere molto a che fare con questa frattura. Prenderla sul serio come terreno di nuova riflessione ed elaborazione politica è il passo preliminare. Le strategie seguiranno.