Il termine recovery nel senso di ripresa economica, ricorre con frequenza quasi ossessiva nei media e nei dibattiti di tutti i generi. Ma cosa è la ripresa economica e quando può dirsi effettivamente compiuta?
Attingendo alle onorate teorie del ciclo economico si può dire che la ripresa è una fase del ciclo (che ne contempla di norma altre tre: la recessione, la depressione, e l’espansione) nel corso della quale i principali aggregati (PIL e occupazione, soprattutto) riprendono a crescere; inoltre essa può dirsi compiuta allorché tali aggregati raggiungono i livelli che avevano prima della recessione. Se la loro positiva dinamica continuasse oltre questo limite si entrerebbe nella fase di espansione che, in generale, è necessaria perché il sistema economico segua un trend crescente nel lungo periodo.
Può essere utile, con riferimento alla crisi in atto, un rozzo calcolo di quanto dovrebbe crescere il PIL per poter considerare compiuta la ripresa. Rispetto al II semestre del 2019, quello immediatamente precedente la recessione, la caduta di PIL (a prezzi concatenati) nel I semestre di quest’anno (senza tenere conto di aggiustamenti stagionali) è stata di circa 100 miliardi. Però, la cifra (semestrale) da recuperare è, in realtà, maggiore. La ragione è che il PIL del I semestre di quest’anno incorpora gli effetti dei primi due decreti anti-crisi che hanno mobilitato circa 60 miliardi di risorse su base annua e che contribuiscono al PIL anche in funzione del loro effetto moltiplicativo. Poiché politiche fiscali di questa dimensione non sono, naturalmente, sostenibili la ripresa ‘sostenibile’ richiede un aumento del PIL significativamente superiore ai 100 miliardi di cui sopra (e potrebbe essere utile tentare di calcolarla con precisione).
Nella letteratura economica si è per decenni, e anche più, discusso dei fattori che possono favorire la ripresa, ed il suo compimento. In particolare una questione che ha occupato a lungo i dibattiti economici è se la ripresa abbia luogo grazie alla spontanea reazione del sistema alla recessione oppure se meccanismi di questo tipo siano assenti (o troppo deboli) e quindi occorrano politiche mirate alla ripresa, cioè alla rimozione degli ostacoli che la impediscono. Tanto per fare qualche esempio, nella teoria del ciclo di Schumpeter, che assegna un ruolo decisivo alle innovazioni, la ripresa si avvia da sola quando il sistema economico si è ‘ripulito’ delle imprese rese obsolete dall’affermarsi delle nuove tecnologie o della nuove modalità organizzative. Keynes, dal canto suo, riteneva che le recessioni portassero con sé un persistente peggioramento delle aspettative e che, anche per superare questo ostacolo, fossero necessarie politiche di sostegno alla domanda.
Queste considerazioni conducono a porre alcune questioni che appaiono cruciali per l’evoluzione della crisi in atto e per i suoi probabili lasciti anche di lungo termine.
Le questioni sono le seguenti: i) possiamo confidare sulle forze spontanee della ripresa o occorrono politiche ben calibrate, dirette anche a rimuovere gli ostacoli prodotti dalla stessa recessione?; ii) che rapporto possiamo individuare tra i numerosi e vari progetti da includere nel Recovery Plan europeo e la recovery intesa nel senso precedentemente indicato?; iii) possiamo accontentarci di una nozione di ripresa definita esclusivamente in termini di grandi aggregati senza prestare attenzione alle eterogeneità e alle disuguaglianze che possono accompagnarsi ad essa?
Rispetto alla prima questione il problema principale sembra essere (al di là di generiche affermazioni di principio sulle virtù – per alcuni – e sui limiti – per altri – del mercato, nel suscitare la ripresa) la mancanza di analisi approfondite ed adeguate degli effetti, anche strutturali, della recessione dai quali dipende, naturalmente, la possibilità di esprimersi sulla necessità e le caratteristiche degli interventi di policy necessari. E’ stato osservato, anche sul Menabò, che questa recessione è peculiare perché riguarda simultaneamente il lato della domanda e dell’offerta, ma le implicazioni anche per la recovery di questo aspetto, e di altri non meno rilevanti, non vengono di norma adeguatamente colte. L’attenzione, come dirò anche in seguito, sembra essere orientata quasi esclusivamente su quelli che vengono considerati i problemi strutturali pre-esistenti alla pandemia. Non che ciò sia sbagliato, ma certo non è sufficiente se ad ostacolare la recovery sono anche gli effetti specifici della recessione sulle modalità di produzione, sulla composizione della domanda o sulle aspettative per il futuro. Ciò non impedisce, però, a molti di formulare previsioni sulla ipotizzata dinamica della ripresa e di affidarne la rappresentazione alla lettera dell’alfabeto che appare più appropriata: L, U, W, V, in ordine crescente di ottimismo.
Quanto al rapporto tra progetti di cui si discute a proposito del NGEU e dei Recovery Plan, da un lato, e la recovery come ritorno degli aggregati ai loro valori pre-recessione, dall’altro, la sensazione è che l’attenzione prestata a questo rapporto sia piuttosto scarsa. Si parla, e giustamente, di problemi strutturali da rimuovere, se ne fornisce un elenco condivisibile ma forse incompleto (anche per le ragioni che dirò tra breve) ma pochi sembrano preoccuparsi dell’intensità e della rapidità degli effetti che tali progetti potranno avere sulla ripresa economica e della loro capacità di rimuovere gli ostacoli addizionali creati dalla recessione stessa. Senza nulla togliere – e ci mancherebbe! – alla rilevanza della digitalizzazione o del Green New Deal è forse opportuno considerare che i difetti sotto entrambi gli aspetti non possono essere considerati responsabili della recessione, con le sue caratteristiche di rapidità e intensità; dunque, la recovery non può essere considerata una conseguenza certa degli interventi in quei due ambiti, qualunque essi siano. Per questo sarebbe bene formulare progetti che hanno anche la capacità di sostenere la recovery e di valutarli – anche, di certo non solo – sotto questo aspetto. C’è da augurarsi che questo stia avvenendo al riparo del clamore delle cronache e forse qualche utile indicazione potrebbe venire dalla notizia, da controllare, che la Germania sembra intenzionata a destinare 78 miliardi alla ripresa a breve termine. Sarebbe interessante sapere se è effettivamente così e quali siano le misure previste.
Su queste tema viene alla mente un precedente storico piuttosto straordinario. Era il 31 dicembre del 1933 quando il New York Times pubblicò una lettera, divenuta poi quasi un oggetto di culto, indirizzata al Presidente Roosevelt da J. M. Keynes. Si era ancora nel pieno della Grande Depressione, il New Deal aveva già compiuto gran parte del suo corso, e il grande economista rimproverava il grande presidente per prestare poca attenzione alla recovery (e, si può forse aggiungere senza malizia, per applicare con troppa timidezza le sue teorie, ormai largamente definite). Roosevelt seguì la sua strada orientata soprattutto, come si espresse più volte, a ricostituire l’eguaglianza delle opportunità e lo spirito della Costituzione americana che considerava violati da un eccesso di potere economico, con ciò mostrando di anteporre in qualche misura la reform alla recovery.
In termini puramente formali il problema sembra essere simile a quello che ho posto con riferimenti al presente. Anche se le riforme di cui si parla non sono quelle di Roosevelt, la sensazione che si ha è che in molti ambienti si parli di reform senza adeguata attenzione per la recovery. Ma la vera sfida è come combinare le due cose e, da questo punto di vista, si può dire che Keynes pose un problema sul quale anche oggi sarebbe bene riflettere e cioè quale sia la sequenza migliore per il succedersi degli interventi di reform e di recovery. Tenendo, in aggiunta, presente un aspetto forse non adeguatamente considerato.
Ritardare e indebolire la recovery può avere effetti devastanti nel lungo periodo e soprattutto per quei giovani ai quali molti dedicano, e giustamente, grande attenzione. Come mostrano numerosi studi, l’ingresso ritardato nel mercato del lavoro o in una fase di sua grande debolezza ha effetti negativi sull’intero percorso di vita dei giovani che ne sono vittima. Non sembra, questo, un effetto secondario e sarebbe bene tenerne conto in un consapevole e responsabile processo decisionale, anche in relazione al prezioso benessere dei giovani. I quali, vale la pena ricordarlo, sono anch’essi una categoria assai eterogenea, al punto che, secondo un rapporto dell’OCSE, nel passaggio da una generazione all’altra la classe di età che registra il maggior peggioramento delle disuguaglianze è proprio quella dei giovani.
Questa considerazione ci conduce alla terza questione e cioè l’insufficienza di una nozione di recovery tutta centrata sulle grandezze aggregate senza attenzione per le eterogeneità e la dispersione. Al riguardo merita di essere ricordata la tesi – apparentemente avanzata da un analista finanziario americano – secondo cui la lettera più appropriata a rappresentare la recovery che verrà è il K. Quella lettera trasmette l’idea che qualcuno vada in alto e qualcun altro in basso, dunque un’idea di grande eterogeneità e crescente disuguaglianza. E qualche segnale che le cose stiano andando – e ancor più possano andare – in quella direzione è già pervenuto. Possiamo, dunque, chiederci: la recovery si può considerare davvero compiuta quando il PIL torna ai livelli pre-crisi ma i redditi individuali – e altre misure del benessere – sono ancora più divaricati di quanto non fossero prima della crisi? La questione non coinvolge solo problemi ‘teorici’ di adeguatezza del PIL a rappresentare il benessere sociale.
Stando a notizie recentissime essa potrebbe avere una grande rilevanza pratica se è vero che sta prendendo forma, anche per iniziativa del nostro Ministro dell’Economia, l’ipotesi di ripristinare il patto di stabilità e le regole fiscali una volta che la recovery sia compiuta e, dunque, il PIL sia tornato ai livelli pre-recessione. Considerando gli effetti che quel ripristino molto verosimilmente avrà sulle disuguaglianze, consentire che esso abbia luogo al compiersi di una K-recovery vuol dire permettere alla recessione e a quel che ne è seguito di produrre un devastante e duraturo effetto di peggioramento delle disuguaglianze. L’opposto di quello che dovremmo augurarci come sostiene anche Granaglia in questo stesso numero del Menabò.
In conclusione, sembra necessario prestare maggiore attenzione alla recovery e alla sua fusione con la reform, ma la reform deve aprire uno spazio, non marginale, a un problema strutturale pre-esistente alla recessione e aggravato da questa: quello della disuguaglianza.