ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 197/2023

15 Luglio 2023

Il dissesto finanziario degli enti locali in oltre trent’anni di normativa

Cristiana Fiorelli e Carolina Serpieri si occupano del dissesto finanziario degli enti locali italiani. Dopo aver ricordato che la relativa procedura ha subito varie modifiche normative dal 1989 ad oggi, mostrano che il fenomeno - concentrato nel Mezzogiorno - ha seguito un andamento oscillante: in diminuzione dall’inizio degli anni duemila, in aumento nell'ultimo decennio. Secondo le autrici l’evoluzione della normativa ha influito su questa dinamica e le tendenze recenti segnalano che il quadro normativo è ancora poco efficace.

Dal 1989 al 2022, oltre 700 dichiarazioni di dissesto finanziario hanno interessato i comuni italiani di piccole e medie dimensioni (fino a 60.000 abitanti). Le procedure di dissesto attivate dagli enti locali hanno registrato un andamento altalenante nel tempo. Inoltre, la distribuzione geografica del fenomeno mette in evidenza il cosiddetto “divario Nord-Sud”, mostrando una chiara concentrazione di dissesti tra i comuni del Mezzogiorno con oltre l’80 per cento del totale dei default dichiarati. 

La dinamica delle procedure di dissesto può in parte essere ricondotta al quadro normativo che, a partire dalla sua istituzione nel 1989, si è affermato per esercitare un controllo sui bilanci finanziari degli enti locali. Nel corso degli anni, il legislatore è intervenuto più volte apportando modifiche all’apparato normativo di riferimento, tra cui l’introduzione di status preventivi, come il predissesto ovvero riequilibrio finanziario pluriennale. 

Tre interventi normativi sostanziali contribuiscono a spiegare, anche se non in maniera del tutto esaustiva e univoca, la dinamica del dissesto finanziario.

Il primo intervento, introdotto dalla legge n. 144/1989, istituisce una procedura complessa per l’accertamento e il pagamento dei debiti e il recupero finanziario ed è caratterizzata dalla clausola di bail-out. In particolare, era previsto che l’ente dissestato potesse contrarre un mutuo, garantito dallo Stato, con la Cassa Depositi e Prestiti al fine di rifinanziare l’indebitamento pregresso. La facilità con cui gli enti locali facevano ricorso a tale procedura, riconducibile ad un comportamento di tipo azzardo morale, dato l’onere interamente a carico dello Stato, e i ripetuti inadempimenti imposti per far fronte alla gestione ordinaria, hanno indotto il legislatore a intervenire nuovamente.

Il secondo intervento normativo, che segna una significativa inversione di tendenza rispetto alla precedente gestione delle procedure di dissesto finanziario si identifica con la riforma del Titolo V della Costituzione (legge costituzionale n. 3/2001), che ha rafforzato il processo di decentramento dal governo centrale alle autonomie locali. Adottando il principio di sussidiarietà verticale e le prescrizioni comunitarie previste dalla Carta delle Autonomie Locali che miravano a sensibilizzare gli amministratori locali, la nuova normativa ridefinisce i limiti e l’azione degli enti e di tutti gli attori coinvolti nella procedura di dissesto. La riforma abroga la clausola di salvataggio prevedendo che soltanto per quei comuni che avessero dichiarato il dissesto prima dell’8 novembre 2001 restasse valida la vecchia normativa in tema di assunzione di mutui e contribuzione statale sul relativo onere di ammortamento.

La Riforma dell’art. 243-ter del Titolo VIII del Testo Unico degli Enti Locali (TUEL) del 2013 si identifica come il terzo passaggio fondamentale nella procedura di dissesto degli enti locali e completa il processo di decentramento. Inoltre, le regole imposte dal Patto di Stabilità Interno (PSI) vengono estese anche ai comuni con popolazione sopra i 1.000 abitanti al fine di garantire la condivisione degli obiettivi di finanza pubblica anche da parte degli enti locali minori, i cui equilibri di bilancio hanno un impatto, nonostante in misura contenuta, in termini di indebitamento totale netto.  

La riforma ha introdotto una nuova procedura di riequilibrio finanziario pluriennale, della durata massima di dieci anni, per gli enti locali che presentano uno squilibrio strutturale di bilancio talmente evidente, anche dopo il controllo da parte delle Sezioni Regionali della Corte dei Conti, da determinare una situazione di dissesto. L’Amministrazione centrale prevede, in questi casi, un anticipo del fondo di rotazione, appositamente istituito, per garantire la stabilità finanziaria degli enti locali che hanno approvato la procedura di risanamento, da restituire in un periodo massimo di dieci anni a partire dall’anno successivo a quello in cui viene erogato.

La Figura 1 riporta il numero di dichiarazioni di default totali e aggregate per macroarea dal 1989 al 2022. Le serie sono state costruite utilizzando le informazioni fornite da Ministero dell’Interno, Corte dei Conti e Fondazione Ca’ Foscari. 

Figura 1: Numero di dissesti finanziari dichiarati anno per anno, per area geografica. Le linee orizzontali indicano i tre principali interventi legislativi in materia di dissesto finanziario.

La distribuzione nel tempo del dissesto finanziario mostra una dinamica a forma di U (Degni, M., Le criticità finanziarie dei comuni: profili contabili, Corte dei conti, n.20 12/2017). Il 1989 è l’anno in cui si registra il maggior numero di dichiarazioni di default e coincide con l’introduzione della legge n. 144/1989. Il fenomeno tende a ridursi nel corso degli anni successivi fino agli anni duemila, in cui l’Italia nel suo complesso può godere di un periodo di relativa stabilità economica, grazie al processo di convergenza per l’ingresso nell’Unione Economica e Monetaria e all’adozione della moneta unica. Nello stesso periodo, la Riforma del Titolo V rappresenta un punto di svolta per il fenomeno del dissesto, in quanto, come già evidenziato, viene istituita una procedura di risanamento dall’ “interno”. Pertanto, è possibile pensare che la riduzione del numero di dichiarazioni sia in parte legata al periodo di crescita del Paese e in parte legata alla mancata convenienza ad accedere alla nuova procedura. A partire dalla crisi finanziaria del 2008, il fenomeno torna nuovamente a crescere e si intensifica negli anni successivi alla crisi del debito sovrano. Il 2019 ha registrato il numero più alto di enti locali che hanno fatto ricorso alle procedure di dissesto negli anni duemila. Considerando anche il predissesto, nello stesso anno si raggiunge il secondo picco di enti locali in procedura (dissesto e predissesto) nell’arco dell’intero periodo in esame. In tale circostanza, si può ipotizzare che le nuove regole di finanza pubblica, relative al terzo intervento normativo, possano aver contribuito alla crescita del numero delle procedure attivate. Tuttavia, non si può escludere l’impatto negativo delle crisi finanziarie sui bilanci dei comuni e sulla probabilità di dichiarare il default. 

La maggior parte delle procedure attivate si concentra nel Mezzogiorno d’Italia. Seguono i comuni del Centro Italia con appena l’11 per cento e i comuni del Nord Italia che rappresentano solamente il 6 per cento del totale dei comuni che hanno fatto ricorso alla procedura di dissesto finanziario. La Calabria è la regione del Sud Italia che ha registrato nel corso degli anni il numero più elevato di default finanziari (208 dichiarazioni di dissesto), circa il 35 per cento del totale dei dissesti nella macroarea. In Campania il 30 per cento dei comuni hanno fatto ricorso almeno una volta alle procedure di dissesto, il 17 per cento in Puglia e il 13 per cento in Sicilia. Inoltre, circa il 6 per cento del totale dei comuni dissestati è “recidivo”, avendo sperimentato più di un dissesto finanziario nel periodo di riferimento. Al contrario, tra i casi più virtuosi, troviamo i comuni delle regioni settentrionali del Trentino Alto-Adige, del Friuli-Venezia Giulia e della Valle d’Aosta che non hanno registrato casi di dissesto negli ultimi trent’anni. Inoltre, la maggior parte dei comuni interessati dal fenomeno del dissesto finanziario (circa il 60 per cento) sono comuni piccoli, con meno di 5.000 abitanti. 

Gli interventi normativi che si sono susseguiti nel tempo hanno condizionato l’autonomia finanziaria e la gestione dell’indebitamento degli enti locali, creando condizioni più o meno favorevoli per l’affermazione di una dichiarazione di dissesto. Tuttavia, l’impianto normativo non risulta sufficientemente adeguato a discriminare se le continue richieste di sostegno finanziario provenienti dagli enti locali siano state giustificate da un’effettiva carenza di risorse o da gestioni poco oculate e trasparenti delle stesse da parte dei policy-maker locali. Oltre a manifestazioni di tipo “opportunistico”, diversi fattori, legati alle finanze pubbliche degli enti locali, alla qualità delle istituzioni, al livello di corruzione, al rischio idrogeologico del territorio, ecc., possono influenzare la probabilità di dichiarare dissesto. Tra questi fattori di rischio, un alto livello di indebitamento locale gioca un ruolo chiave. Alla fine del 2018, il debito degli enti locali ammontava a 44,6 miliardi, di cui 37,7 miliardi assunti dai comuni e i restanti 6,9 miliardi dalle province. Inoltre, il tasso di interesse pagato sul debito esistente dagli enti locali è superiore, in media, al 4 per cento annuo, come riportato dall’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani nel 2021 (https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-Debito%20Comuni.pdf). Rispetto al governo centrale, gli enti locali, come i comuni, le province e le regioni, hanno un accesso limitato ai mercati finanziari, che creano condizioni di finanziamento sfavorevoli. Secondo il rapporto della Commissione per la stabilità finanziaria degli enti locali (COSFEL) per il 2021 (https://dait.interno.gov.it/documenti/rapporto-cosfel-2021.pdf), il ricorso allo strumento del dissesto finanziario è legato anche a fattori endogeni che limitano le entrate in bilancio, quali la bassa riscossione, il ricorso agli anticipi di tesoreria e i ritardi nei pagamenti. 

Nonostante gli sforzi del legislatore, volti in un primo momento a contenere gli effetti di un eventuale fallimento dell’ente locale anche in termini di aggravio dei conti pubblici nazionali e, successivamente, alla responsabilizzazione dei policy-maker, la situazione di disequilibrio delle finanze locali pone l’esigenza di un maggiore coordinamento del sistema fiscale. Inoltre, l’eccessiva regolamentazione a più livelli ostacola la governance degli amministratori locali e rende più complessa una gestione sostenibile del debito degli enti locali. Di conseguenza, la presenza di problematiche fiscali interne all’ente e le ripercussioni economiche profonde derivanti dalla recente crisi pandemica del COVID-19, rendono necessari una riflessione politica e un intervento legislativo definitivo in materia di finanza degli enti locali. 

In conclusione, si ritiene che, a fronte dell’impianto normativo descritto, la procedura del dissesto finanziario degli enti locali sia sufficientemente coerente con un assetto di finanza moderno decentrato e possa garantire, in condizioni di stabilità, autonomia finanziaria all’ente nel rispetto dei principi di accountability e sussidiarietà.

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