ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 214/2024

28 Aprile 2024

Verso le elezioni regionali in Emilia-Romagna: una nota di discussione 

Alberto Rinaldi e Giovanni Solinas ragionano su alcuni rilevanti temi e trasformazioni solitamente non considerati nel dibattito politico corrente e specificamente nel dibattito sulle prossime elezioni regionali in Emilia-Romagna. Si tratta di sfide che richiedono l'apertura di una nuova fase di amministrazione condivisa per promuovere reti aperte a nuovi attori a sostegno di politiche che perseguano visioni più audaci e socialmente desiderabili, dando un più ampio inveramento alla democrazia.

Nel prossimo autunno si svolgeranno le elezioni regionali in Emilia-Romagna (ER), la regione simbolo del governo locale del PD e del centrosinistra in Italia. Negli ultimi dieci anni l’ER ha superato le altre maggiori regioni italiane per tasso di crescita del PIL e valore dell’export pro-capite. Al tempo stesso, l’economia regionale è stata attraversata da importanti cambiamenti strutturali: il declino dei settori low-tech, la crescita dei settori medium e high-tech (in particolare la meccanica e meccatronica), la nascita e affermazione delle imprese leaderdistrettuali fortemente e l’arrivo delle imprese multinazionali. 

Le transizioni digitale ed ecologica segneranno nei prossimi decenni l’evoluzione dell’economia dell’ER. Ci sono però due altre questioni con cui la nuova giunta regionale dovrà misurarsi: la demografia della popolazione e la demografia delle imprese. Esse sono per molti aspetti comuni al resto dell’Italia, ma hanno anche delle implicazioni particolari per una regione, come l’ER, economicamente dinamica e con una struttura industriale imperniata su sistemi produttivi locali diffusi sul territorio.

La demografia della popolazione. L’ER è un territorio attrattivo, ma con una popolazione sempre più anziana e un saldo naturale negativo. 

Una popolazione che si contrae, con una piramide della popolazione “proporzionata”, può non costituire un problema particolare. Ma una popolazione che invecchia e perde giovani crea problemi in tutti gli ambiti della vita economica e sociale: cambiano la struttura dei consumi e la domanda di servizi privati e pubblici. I modelli di cura tradizionali, basati sul sostegno familiare, diventano meno sostenibili. Lo stesso patrimonio immobiliare appare ad un tempo sottoutilizzato e inadeguato, sollecitando nuove forme residenziali e nuove forme di uso della proprietà a garanzia dell’assistenza sociale e privata.

In quanto al sistema produttivo, si creano strozzature dal lato dell’offerta di lavoro rispetto ai fabbisogni delle imprese, diminuisce la propensione al rischio di impresa e all’imprenditorialità. 

L’altra faccia della medaglia è nota. Un territorio attrattivo ma con un “buco” nella popolazione diventa un attrattore di immigrazione.

Da un lato, flussi migratori non programmati mettono in crisi i sistemi di accoglienza, creano problemi di sicurezza, generano conflitti con i cittadini “autoctoni” e con gli immigrati da più lunga data. 

Al tempo stesso, l’immigrazione è anche l’unica soluzione dei problemi strutturali appena ricordati, purché si trovino modi e vie per programmare e gestire reti attraverso cui concordare gli ingressi. La gestione di queste reti richiede il coinvolgimento di una molteplicità di attori che si facciano garanti della correttezza del processo, contro le forme più varie di caporalato e l’infiltrazione della criminalità. Essa richiede anche la creazione di nuove figure e nuove competenze, al di là dei mediatori culturali e degli assistenti sociali attuali. E richiede, soprattutto, una battaglia politica molto difficile, che passa per il superamento della legge vigente (Bossi-Fini), la quale non consente alcuna ingegneria volta alla costruzione di forme di immigrazione regolari.

L’atteggiamento nei confronti delle migrazioni è una delle questioni che maggiormente dividono destra e sinistra. E che, trasversalmente, spaccano in molti luoghi anche l’elettorato di sinistra. Ma è importante comprendere che la demarcazione non passa soltanto per linee ideologiche, o da preoccupazioni che riguardano la sicurezza nelle città: dall’incremento dell’immigrazione legale dipende anche il benessere collettivo. 

La demografia delle imprese. Vi è una seconda popolazione – quella delle imprese – che in questi anni ha avuto dinamiche sulle quali si è indagato poco. 

Il numero delle imprese in ER (e in particolare il numero delle imprese piccolissime) a partire dalla crisi del 2008-2013 è diminuito di circa l’8%.

Nelle città, la scomparsa di artigiani e degli esercizi commerciali di prossimità tradizionali è in atto da molti anni, spazzati via, almeno questi ultimi, dai centri commerciali e dalla grande distribuzione.

Nella manifattura, la riduzione del numero delle imprese è principalmente legata alla ristrutturazione nella subfornitura, che ha avuto un ruolo così importante nei distretti industriali della regione. A partire dalla crisi del 2008-2013, le imprese leader italiane hanno aumentato i propri livelli di integrazione verticale, mentre le multinazionali a controllo estero hanno allungato le catene del valore esternalizzando (almeno sino alla crisi pandemica del 2020) un numero crescente di fasi della catena del valore. Questi processi hanno reso più difficili le condizioni della subfornitura locale. 

Il punto di vista dominante è stato di considerare questi fenomeni come una forma di darwinismo sociale: il prezzo pagato al progresso con la scomparsa delle imprese marginali ed inefficienti. 

In questo modo si rischia però di sottovalutare i costi sociali delle trasformazioni atto. I processi sopra richiamati aumentano le disuguaglianze. La moria delle piccole imprese può creare buchi nella matrice dei saperi locali e delle competenze presenti sul territorio. 

Soprattutto, questi processi comportano un cambiamento del modello su cui l’ER ha costruito il suo equilibrio sociale: aumenta la distanza tra i gruppi sociali e cambiano i meccanismi della mobilità sociale. Il percorso di mobilità ascendente tipico della società regionale (si inizia a lavorare come dipendente in una piccola impresa, poi si passa in un’azienda un po’ più grande o un po’ più specializzata e, infine, ci si mette in proprio) appare più difficilmente percorribile. 

La centralità del sistema formativo e della formazione professionale, ovvero dove le amministrazioni locali in qualche misura possono. Molti osservatori considerano l’investimento in istruzione la miglior forma di assicurazione contro le incertezze del futuro. È risaputo che a fronte della domanda su quali fossero le tre cose più importanti della sua politica per la crescita, il motto di Tony Blair era “1. education; 2. education; 3. education”. Su scala diversa questo, in qualche misura, è avvenuto anche in ER.

Poche misure di politica industriale regionale hanno più visibilità mediatica della costituzione del Centro per i Big Data o di Muner – il corso sull’automotive delle università regionali, partecipato dai produttori di auto e componenti. Molto rilievo è stato dato anche al lancio degli ITS e, in subordine, dei progetti IFTS. 

Si tratta di progetti di grande importanza che avranno un impatto sulla creazione di profili di alto livello. E, tuttavia, nella loro forza si delineano anche i loro limiti. I saperi e le capacità di crescita dei sistemi produttivi locali in ER non dipendono solo dall’educazione terziaria. 

Per molti decenni, le scuole tecniche e professionali hanno avuto un ruolo di primo piano nella creazione di reti di competenze diffuse sul territorio che hanno sostenuto lo sviluppo dei distretti industriali della regione. E, per molti versi, è ancora così. Non solo nel senso che i destini di molte imprese e di molti progetti imprenditoriali sono ancora in grande misura governati da “periti” e non da “ingegneri”. Vi è una ragione più profonda. Se l’analisi che si è condotta in precedenza sulle migrazioni ha fondamento, l’istruzione secondaria e la formazione professionale continueranno ad avere un ruolo di centrale sia per l’accesso al mercato del lavoro, sia per l’integrazione sociale di chi proviene da altre culture.

La formazione professionale regionale è la porta di accesso per l’inserimento al lavoro dei nuovi migranti. Così come lo sono le scuole secondarie e, in particolare, le scuole tecniche e professionali.

Come è accaduto in passato, affermare un ruolo di questa importanza richiede visione ed impegno della Regione. Alle scuole a maggior contenuto professionale vanno garantite le migliori condizioni in termini di insegnamento, rapporto con le imprese, strutture didattiche, laboratori. Avendo ben presente che, in ER, vi è un problema di ricostruzione di immagine e di buona reputazione. Sul terreno della formazione professionale, l’apparato regionale è molto articolato e flessibile. Rimangono ampi margini di miglioramento in termini di coinvolgimento delle imprese, anche nella costruzione dei programmi formativi, ridimensionando modalità di offerta “a catalogo” da parte dei soggetti gestori, più facili da organizzare, ma meno capaci di cogliere bisogni specifici.

Le relazioni industriali e il governo del mercato del lavoro, ovvero dove le amministrazioni locali possono poco, ma hanno un ruolo centrale nella costruzione di una visione. L’assetto delle relazioni industriali non è determinato dal governo regionale e dai i partiti a livello locale, ma sia gli uni che gli altri lo possono influenzare in quanto costruttori di regole sociali: di ciò che, nel pensare comune, è considerato accettabile e di ciò che non lo è.

Il miglior indicatore singolo dello stato di salute delle relazioni industriali è la durata dei rapporti di lavoro. Qui si osserva che la durata delle nuove assunzioni si concentra nelle classi inferiori a un anno. Questo accade anche nelle imprese leader e non soltanto nelle imprese più fragili e marginali. L’enorme diffusione di contratti di lavoro di breve durata è, in prospettiva, un pericolo, in quanto può preludere ad un disinvestimento in capitale umano sia da parte delle imprese che dei lavoratori. Essa crea, inoltre, aree del mercato del lavoro in cui il precariato e i bassi salari sono la norma. 

Anche in questo caso, si tratta di uscire da una lettura ambigua e fuorviante del mercato del lavoro, che assume che il “lavoro a vita” o i rapporti di lavoro di lunga durata caratterizzati dall’impegno reciproco di lavoratore e datore di lavoro non esistano più.

Non meno del salario minimo, questo potrebbe essere un terreno centrale di confronto, anche culturale. Rapporti di lavoro che possono essere accesi e spenti in tempi rapidissimi sono il primo segno della sconfitta e della svalorizzazione del lavoro. Il fenomeno dei “neet” – i giovani che non studiano e non lavorano – ha radici anche qui.

Il ruolo dei social workers. Vi è un altro aspetto da rimarcare: gestire reti migratorie legali, lavorare all’integrazione dei migranti, ridisegnare la formazione, gestire i neet richiede competenze che nell’economia locale non ci sono: quelli che nel mondo anglosassone sono chiamati social workers, figure professionali specifiche con formazione secondaria e terziaria con la competenza specifica di gestire reti sociali (lingua, legge, convenzioni, modalità di soluzione dei conflitti, e così via). Averne di più potrebbe essere di beneficio alla comunità. 

Penetrazione mafiosa e ‘ndranghetista. Forse l’ER sta, in prospettiva, consumando il suo capitale fisico, umano e sociale. Ma è una regione abbastanza ricca da attrarre non solo migranti, ma ‘ndrine e mafie. Che sia così lo confermano i processi Aemilia. Ne è una ulteriore prova il fatto che questo tema sia stato posto in modo esplicito anche nel documento di programmazione regionale (NADEFR). Avvertire la comunità è meritorio. Tanto più quando digitalizzazione e rete rendono le possibilità di malaffare assai più numerose e difficilmente identificabili. Vi è però un nodo irrisolto: come è possibile che un sistema di norme sociali, che tendenzialmente avrebbe dovuto essere impermeabile a tali forme di corruttela, ne sia stato invece coinvolto anche in alcuni suoi gangli vitali? Questo aspetto è ancora in gran parte da indagare. Comprenderlo aiuterebbe a rendere le nostre comunità più resilienti.

Verso un nuovo “equilibrio dinamico trasformativo”? Affrontare con successo i punti critici sopra evidenziati richiede l’apertura di una nuova stagione di amministrazione condivisa. Si tratta di costruire un nuovo modello di partecipazione e cittadinanza politica diffusa per valorizzare tutte le risorse umane, affermare percorsi di libertà e assunzione di responsabilità condivise, dando un nuovo e più ampio inveramento alla democrazia.

L’impressione è che il dialogo costante con i principali attori sociali che la Regione ha praticato sin dalla sua costituzione e poi formalizzato con il Patto per il Lavoro del 2015 abbia condotto nel tempo ad un “equilibrio dinamico conservativo”, in cui il cambiamento strutturale è promosso e governato con la finalità di perseguire obiettivi che soddisfino un gruppo pre-selezionato di stakeholder che “si riconoscono a monte” – l’espressione è dell’assessore regionale alle Attività Produttive, Vincenzo Colla – quali attori di una concertazione sostanzialmente neo-corporativa. Così, i principali interventi realizzati negli anni recenti, come la creazione dei tecnopoli e dei Clust.ER, appaiono indirizzati soprattutto ai settori più consolidati dell’economia regionale e a soddisfare gli attori più forti e, al tempo stesso, capaci di veicolare le proprie domande di policy.

La sfida sembrerebbe, così, essere di passare ad un “equilibrio dinamico trasformativo” che includa nel processo di definizione dell’agenda di policy tutti (o, almeno, il numero più ampio) gli stakeholder e non solo quella parte di essi che partecipa all’attuale concertazione neo-corporativa. In questo, vi è una precisa volontà di recupero di ruolo da parte dell’insieme dei corpi intermedi – a partire dai sindacati dei lavoratori, ma anche da nuove espressioni del terzo settore ed aggregazioni del mondo giovanile – oggi lasciati ai margini. Si tratta di avviare una nuova fase di innovazione sociale per promuovere reti aperte a nuovi attori, che possano cogliere domande latenti, apportare ed acquisire nuova conoscenza ed assumere nuove responsabilità a sostegno di più visioni normative più audaci e socialmente desiderabili. 

Schede e storico autori