ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 181/2022

27 Ottobre 2022

Quota del lavoro e risultati economici: problemi di misurazione istituzionali

Leonello Tronti si occupa di quota del lavoro e relazioni industriali sostenendo, anzitutto, che i problemi statistici posti dalla costruzione della quota del lavoro nel reddito dipendono sia dalle norme che regolano il lavoro autonomo e dipendente (nel caso della labour share) sia dalle istituzioni che presiedono alla contrattazione collettiva (nel caso della wage share). Tronti sostiene, poi, che queste ultime portano alla stagnazione dei salari reali, della produttività e dell’economia, che solo in parte si riflette sulla quota del lavoro.

La distribuzione primaria (o funzionale) del reddito (labour share) aiuta a comprendere i rapporti di potere tra capitale e lavoro nella realtà contemporanea e altri aspetti strutturali dell’economia italiana? Per rispondere a questa domanda è necessario anzitutto vagliare alcuni problemi di misura e di interpretazione dell’indicatore, tra i quali si segnala con forza la difficoltà di tenere conto del lavoro indipendente. Inoltre, se ci si sofferma sul solo lavoro dipendente (wage share) e sugli aspetti istituzionali che regolano la contrattazione collettiva, emergono implicazioni rilevanti per la distribuzione primaria e per il più generale funzionamento dell’economia. 

La rilevanza della distribuzione primaria del reddito e l’importanza di una sua corretta misurazione derivano dal fatto che essa può essere considerata la bilancia dei poteri tra capitale e lavoro nel conflitto industriale (ad es. Franzini e Pianta, Explaining Inequality, 2016) anche se, per una migliore comprensione delle sue caratteristiche e dei suoi movimenti, anche altri indicatori possono dimostrarsi rilevanti, quali: il tasso di sindacalizzazione, il tasso di copertura sindacale, il numero, l’intensità e la durata dei conflitti, la quota percentuale di dipendenti che rinnovano il contratto nazionale alla scadenza e altri ancora.

Il livello e l’andamento della distribuzione primaria del reddito non sono indipendenti dalle istituzioni che regolano il lavoro. Sotto questo profilo, il primo aspetto rilevante è che le regole che governano la contrattazione collettiva e la fissazione dei salari, si applicano esclusivamente al lavoro dipendente. Questa caratteristica evidenzia la difficoltà di fornire misure attendibili di una labour share diversa dalla wage share: una quota del valore aggiunto che remuneri complessivamente il lavoro, tanto dipendente quanto indipendente, e non si limiti invece al solo lavoro dipendente. A differenza della remunerazione di quest’ultimo, il reddito da lavoro indipendente è però misto, ovvero derivante tanto dal lavoro quanto dal capitale. Per questo la tradizionale procedura di stima, che imputa ad autonomi e parasubordinati il “corrispondente” reddito da lavoro dipendente – anche quando si tenga conto del dettaglio settoriale, territoriale, di dimensione dell’impresa o del gruppo professionale dei lavoratori oggetto dell’imputazione – difficilmente porta a risultati attendibili.

Peraltro, oltre al carattere misto, un secondo aspetto che differenzia in modo rilevante il lavoro indipendente da quello dipendente è la durata. Nel 2019 ad esempio, prima della pandemia da coronavirus, la durata media del tempo di lavoro annuo di un lavoratore dipendente è stata, nei conti nazionali Istat, pari a 1.579 ore lavorate, mentre quella di un indipendente era di 2.134 ore, il 35,2 per cento in più. Ovviamente anche la variabilità dell’orario di lavoro di un indipendente, privo di tetti contrattuali di orario massimo o minimo, è nettamente superiore. Questo comporta che, nel confrontare i redditi da lavoro dipendente e indipendente, l’utilizzo di un’unità di lavoro diversa dall’ora lavorata (l’occupato o l’unità di lavoro equivalente a tempo pieno) non possa che avere effetti distorsivi.

Per le ragioni indicate, la tradizionale rappresentazione statistica della distribuzione primaria del reddito da lavoro “corretta per gli indipendenti”, per quanto (troppo) largamente utilizzata in letteratura, risente in modo significativo non soltanto dell’attribuzione al lavoro indipendente di un reddito unitario da lavoro dipendente mal comparabile, ma anche del fatto che l’attribuzione venga spesso effettuata su unità di lavoro (l’occupato o l’unità di lavoro equivalente a tempo pieno) caratterizzate da profonde differenze nel volume e nella dinamica tra lavoro dipendente e indipendente. 

Il punto è ben evidenziato da D’Elia e Gabriele (in Franzini e Raitano, a cura di, Il mercato rende diseguali?, 2018) che, nel loro studio sulla distribuzione funzionale dei redditi tra 1995 e 2016 mettono a confronto i risultati della metodologia standard di calcolo della quota “corretta per gli indipendenti” con una quota ottenuta grazie ad una più sofisticata procedura di stima dei redditi da lavoro degli autonomi, basata su di un utilizzo approfondito dei conti Istat dei settori istituzionali. 

Figure 1A e 1B – Quota dei redditi da lavoro dipendente e indipendente sul valore aggiunto al costo dei fattori (a sinistra) e Quota dei redditi da lavoro, corretti per gli indipendenti, sul valore aggiunto al costo dei fattori. Due versioni (a destra)

Fonte: D’Elia e Gabriele (2018).

D’Elia e Gabriele evidenziano (Figura 1A) la dinamica profondamente diversa delle quote dei redditi da lavoro dipendente e indipendente sul valore aggiunto, in particolare nel periodo 2002-2016; differenza che ovviamente esita (Figura 1B) andamenti nettamente divergenti della stima della quota del reddito da lavoro complessivo (dipendente e indipendente), a seconda che si segua la tradizionale procedura di imputazione o si utilizzi una stima più approfondita e appropriata dei redditi da lavoro autonomo.

Se, dunque, quanto precede conferma in modo netto il peso delle istituzioni (nel caso specifico, la natura giuridica del rapporto di lavoro) nel plasmare la stima della distribuzione primaria del reddito, con riferimento alla contrattazione collettiva – limitata per definizione al lavoro dipendente – vanno poi sottolineati due ulteriori aspetti istituzionali. Il primo è il rapporto tra la “regola aurea” della contrattazione salariale a livello microeconomico e la cosiddetta “legge di Bowley” a livello macroeconomico, che prevede nel medio periodo la relativa costanza delle quote distributive nel reddito. La regola aurea richiede che la crescita delle retribuzioni (a prezzi correnti o costanti) sia più o meno uguale a quello della produttività del lavoro (rispettivamente in valore o in volume). Se viene rispettata in tutti i settori e la composizione settoriale e dimensionale dell’economia non cambia in modo repentino, il suo esito in termini aggregati è la stabilità della distribuzione primaria del reddito, che costituisce anch’essa regola aurea perché assicura la massima crescita non inflazionistica dei consumi delle famiglie (Samuelson, Kaldor, Leon, Tarantelli). L’applicazione della regola, soprattutto nella contrattazione di categoria (una tradizionale norma di comportamento sindacale, abbandonata negli anni ’80 a fronte delle politiche di austerità allora adottate dalle economie avanzate), assicurando che l’aumento del valore aggiunto si trasferisca in egual proporzione a salari e profitti, ha poi anche il merito di alimentare e cementare un incentivo chiave alla cooperazione tra i partner sociali finalizzata al miglioramento della produttività. 

Infine, un ulteriore motivo per cui è preferibile esaminare separatamente il reddito da lavoro dei dipendenti risiede nel fatto che, a differenza di quelle che regolano i rapporti di lavoro indipendente, le regole della contrattazione collettiva rispondono a un determinato orientamento condiviso collettivamente, e dunque muovono l’economia in una direzione più o meno idonea ad assicurare il benessere e lo sviluppo. Il modello italiano di contrattazione salariale collettiva varato nel 1993 (il cosiddetto Protocollo Ciampi) è stato nel tempo deprivato del pezzo forte della concertazione sociale dell’inflazione, così come non ha visto che una tenue e sporadica applicazione della terza parte del documento, che conteneva un programma di ammodernamento delle imprese e potenziamento del lavoro. Ma è invece rimasto quasi invariato nell’articolazione della contrattazione salariale su due livelli. 

Il primo (contratto nazionale di categoria), ha sostituito la «scala mobile» mantenendo nel tempo il potere d’acquisto dei minimi salariali – ma non aumentandolo, a meno di uno specifico e mai sottoscritto accordo – nel quadro di una politica salariale d’anticipo (tasso di inflazione programmato – dal 2009 solo previsto – e recupero degli scostamenti minimi salariali-inflazione). Il mancato adeguamento del potere d’acquisto dei minimi di categoria ne ha prodotto la peculiare condizione di rigidità non solo “verso il basso” ma anche “verso l’alto”: un caso unico di vero e proprio real wage cap imposto in Italia alla voce salariale preponderante. 

Nel disegno del 1993, poi, l’aumento delle retribuzioni reali (secondo livello) è condizionato a miglioramenti dal lato dell’offerta (produttività, redditività, qualità del prodotto), in accordo con un’impostazione teorica che esclude qualunque effetto keynesiano di domanda autonoma dei salari che preceda, sostenga e guidi l’offerta stessa. Inoltre, poiché le imprese sono protette da qualunque aumento autonomo dei salari, non c’è alcuno spazio per gli elementi di “frusta salariale” previsti, ad esempio, dalla productivity function di Paolo Sylos Labini (per una sintesi del suo lavoro ventennale sul tema si veda Corsi e Guarini in “Revue d’économie industrielle”, 118, 2007): né nella forma dell’effetto Ricardo – un aumento del costo del lavoro relativamente al prezzo dei macchinari – né in quella dell’effetto Clup reale/organizzazione – un aumento del costo del lavoro per unità di prodotto rispetto ai prezzi del prodotto.

Di conseguenza, la probabilità che nell’economia italiana la produttività cresca sulla base di impulsi della domanda legati alla contrattazione salariale è molto bassa se non nulla; e, dati i vincoli all’espansione della spesa pubblica, la crescita della produttività riposa essenzialmente sull’estensione dei mercati di sbocco delle esportazioni. Mentre la probabilità che i salari reali, in accordo con la ricordata regola aurea della politica salariale, crescano nella stessa misura della produttività è anch’essa molto bassa, legata com’è all’estensione e all’intensità della contrattazione collettiva di secondo livello. Quest’ultima, nella versione territoriale non si è mai sviluppata e in quella aziendale resta confinata alle poche imprese di dimensione tale da ospitare una rappresentanza sindacale adeguata.

La compresenza della rigidità dei minimi contrattuali in termini reali e della mancata applicazione della regola aurea della politica salariale viene così a costituire un legame inverso e anticiclico tra quota salari e produttività che – al contrario della regola aurea – scoraggia la cooperazione tra i partner sociali finalizzata al miglioramento della produttività e della crescita. L’indebolimento dell’incentivo alla crescita tende a spostare la concorrenza tra le imprese sul costo del lavoro anziché sull’innovazione e, con ciò, a contenere dal lato della crescita del valore aggiunto gli effetti della stagnazione salariale sulla stessa quota del lavoro.

Di fronte a questa caratterizzazione istituzionale di lungo periodo, non stupisce che l’Italia sia l’unico paese Ocse in cui nel trentennio 1990-2020 il salario reale medio annuo si sia ridotto del 2,9 per cento (-0,1 per cento l’anno) mentre, nella media delle altre tre maggiori economie dell’euro (Germania, Francia e Spagna), cresceva invece del 23,7 per cento (+0,7 per cento l’anno). Una differenza tanto vasta non può non alimentare il dubbio che il drammatico ristagno salariale di lungo periodo abbia esercitato ripercussioni profonde sulla dinamica di consumi, investimenti, produttività e, in definitiva, crescita dell’intera economia. Questo, nonostante la distribuzione primaria del reddito presenti, in termini di comparazione con gli stessi paesi, un esito meno sfavorevole.

Si può dunque concludere questa nota tornando a segnalare le rilevanti cautele con cui va misurata e interpretata la distribuzione primaria del reddito, con riferimento tanto ai problemi di carattere statistico, quanto a quelli di carattere istituzionale (differenze tra lavoro dipendente e lavoro indipendente, regole che presiedono alla contrattazione collettiva) e quanto, infine, al nesso tra i suoi movimenti e i risultati complessivi dell’economia. Si tratta certamente di una variabile fondamentale dell’economia i cui movimenti però, vincolati da aspetti istituzionali, possono non trovare rispondenza, se non in senso lato e con rilevanti lag temporali, né nello stato di salute del sistema economico, né nell’obiettivo di una distribuzione ottimale del reddito.

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