ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 181/2022

27 Ottobre 2022

La proposta di Raccomandazione sul reddito minimo della Commissione Europea

Chiara Saraceno commenta la proposta di Raccomandazione della Commissione europea sulla necessità che ogni paese membro garantisca a chi si trova in povertà l’accesso a beni e servizi abilitanti e a un reddito minimo. Saraceno sottolinea che nella proposta la distinzione tra chi è occupabile e chi non lo è non rileva per l’accesso al reddito, ma solo per la necessità di assicurare ai primi sostegni e servizi formativi che ne favoriscano l’occupabilità e l’accesso a buoni lavori. La raccomandazione sembra in contrasto con i propositi del nuovo governo italiano.

Molti non lo sanno, si direbbe anche tra i politici, ma il diritto ad un reddito minimo adeguato fa parte del Pilastro europeo dei diritti sociali adottato dalla Commissione Europea a Marzo 2021 e fatto proprio dal Consiglio Europeo nel maggio successivo. Un reddito che, per chi è in grado di lavorare, dovrebbe essere combinato con incentivi al (re)inserimento nel mercato del lavoro. Il Principio n.14 del Pilastro statuisce, infatti, che “tutti coloro che non hanno sufficienti risorse hanno diritto a un reddito minimo adeguato a garantire una vita dignitosa in ogni fase della vita e ad un effettivo accesso a beni e servizi abilitanti”. E aggiunge: “Per coloro che sono in grado di lavorare il reddito minimo dovrebbe essere integrato da incentivi per la (re)integrazione nel mercato del lavoro”. Non quindi, come argomentano coloro che, in Italia, criticano il Reddito di cittadinanza, una contrapposizione tra sostegno al reddito e inserimento nel mercato del lavoro, ed una distinzione tra chi avrebbe diritto di accedere al primo e chi invece andrebbe avviato al secondo, ma integrazione tra le due misure, ed anche con l’accesso a servizi di qualità.

Sulla base di questi principi, la Commissione ha ora elaborato una proposta di Raccomandazione per il Consiglio, in ordine all’adozione, in ciascun paese membro, di un reddito minimo che assicuri un’inclusione attiva ai beneficiari, ove necessario modificando in questa direzione le misure di reddito minimo già esistenti che non garantiscano adeguatamente, o non a tutti coloro che potenzialmente ne avrebbero bisogno, una vita dignitosa e l’accesso ai beni e servizi “abilitanti”: istruzione, formazione e riqualificazione in età adulta, consulenza e tutoring, politiche attive del lavoro efficaci, opportunità di inclusione sociale e di valorizzazione di sé.

Da circa un ventennio era in corso un dibattito nella UE sulla opportunità di definire una direttiva vincolante che definisse l’obbligatorietà e gli standard comuni di un reddito minimo in tutti i paesi membri, superando la raccomandazione, molto soft, del 1992, per altro rimasta largamente inosservata anche a livelli minimi in alcuni paesi come l’Italia e alla Grecia fino al 2018. Queste proposte si sono tuttavia scontrate, non solo con i differenti interessi dei paesi membri e con la resistenza di alcuni a condividere i costi della protezione da un rischio che ha una diffusione molto diversa tra paesi, ma anche con la difficoltà sia a individuare una soglia comune, sia a inserire una simile misura in contesti molto differenziati per le caratteristiche delle altre forme di garanzia del reddito: in primis indennità di disoccupazione e cassa integrazione, ma anche trasferimenti legati alla presenza di figli ed esistenza o meno di pensioni di base. Cantillon, Verschueren e van Mechelen (“Towards Minimum Income Protection in Europe: Budgetary and Political Obstacles to Overcome”, European Journal of Social Security, 2011) pur dichiarandosi a favore di una Direttiva, avevano individuato quattro ostacoli principali. Il primo è, appunto, la difficoltà ad individuare il modo più appropriato per definire un reddito minimo adeguato. Ciò dipende non solo dalla necessità di trovare un consenso su quali elementi, quale tenore di vita, livello e tipo di consumo definisca l’adeguatezza, o anche il minimo decente, in tutti i paesi membri. Vale la pena di ricordare, a questo proposito, che nello stimare il rischio di povertà nella UE non si utilizza una linea di povertà comune, neppure aggiustata per tener conto del costo della vita, ma tante linee di povertà quanti sono i paesi, senza tener conto della, a volte grandissima, disuguaglianza nei livelli di vita tra paesi (su questo problema si può vedere il secondo capitolo del volume che ho scritto con Benassi e Morlicchio, La povertà in Italia, il Mulino 2022). Il secondo ostacolo alla promulgazione di una direttiva sul reddito minimo è la conseguenza di questa difformità: un livello minimo comune imporrebbe costi enormi soprattutto ai paesi più poveri, causando anche, ed è il terzo problema, trappole significative di disoccupazione, in quanto potrebbe essere più alto non solo dell’indennità di disoccupazione, ma anche dei salari minimi. Il quarto ostacolo alla possibilità di approvare una direttiva è costituito appunto dalla eterogeneità – politica ed economica – tra i paesi membri. In considerazione di questi ostacoli Cantillon e colleghi ritenevano che una direttiva potesse essere solo graduale.

Con la decisione di proporre al Consiglio dei Ministri europei una raccomandazione e non una direttiva la Commissione sembra aver preso atto di queste difficoltà, ma allo stesso tempo della inadeguatezza della Raccomandazione del 1992 e della necessità di definire una cornice comune alle misure di sostegno al reddito, innanzitutto rispetto alla finalità che questo deve avere: appunto garantire un livello di vita dignitoso per gli standard del paese in cui si abita alle persone e famiglie che non possono o non riescono a procacciarselo da sé, per tutto il tempo necessario, ovvero finché il bisogno persiste. La necessità di avere una misura di questo tipo, o di aggiornare quelle esistenti nasce dalla constatazione che, nonostante in tutti i paesi membri esistano misure di sostegno al reddito come l’indennità di disoccupazione, pensioni di base o sociali, assegni per i figli, per le persone con disabilità, voucher per l’affitto e simili, ed anche forme di reddito minimo vero e proprio, un ampio numero di persone e famiglie ne rimane esclusa o comunque non riesce ad avere risorse sufficienti per soddisfare propri bisogni. La questione del non take up, del mancato ricorso al sostegno da parte di chi pure ne avrebbe diritto è diventata particolarmente evidente durante la pandemia ed ora con la crisi energetica e le conseguenze della guerra russo-ucraina. La prima ha lasciato prive di reddito milioni di persone senza che potessero ricorrere ai consueti ammortizzatori sociali – lavoratori autonomi, freelance, lavoratori intermittenti – costringendo i vari governi a creare forme di aiuto ad hoc. Le conseguenze, oltre a mettere di nuovo in crisi le imprese, quindi la domanda di lavoro, sono particolarmente onerose in termini di inflazione e di costi energetici per le famiglie a reddito più modesto. La Commissione stima che a livello UE circa il 20% delle persone senza occupazione e a rischio povertà non abbia diritto ad alcun sostegno al reddito e che circa la metà di chi potrebbe fruirne non vi faccia ricorso. Eppure, solo in pochi paesi ci si preoccupa di analizzare le cause del mancato ricorso al sussidio da parte di chi ne avrebbe diritto. Al contrario, come avviene in Italia, tutta l’attenzione è rivolta ai possibili imbroglioni.

Introdurre una forma di reddito minimo, quindi, non basta, se accedervi è difficile per chi ne avrebbe bisogno a causa di requisiti troppo macchinosi, o troppo escludenti (vedi il requisito italiano per la durata di residenza nel paese, la più alta non solo in Europa, ma nell’OCSE), o squilibrati a sfavore di determinati gruppi (in Italia i minorenni e le famiglie con minorenni, tanto più se numerose). Occorre che l’architettura della misura sia pensata con cura per includere tutti coloro che si trovano in stato di povertà, oltre che coordinata con le altre misure di sostegno al reddito, e resa accessibile a chi ne ha diritto con modalità di informazione capillari e procedure non respingenti, oltre che non stigmatizzanti. 

Senza cadere nella dicotomia tra politiche attive e passive e nell’evocazione del fantasma dell’assistenzialismo e dei poveri nullafacenti sdraiati sul divano, la Commissione non esita ad affermare che un reddito minimo ben disegnato può non solo ridurre le disuguaglianze sociali e rafforzare la coesione sociale, ma anche promuovere l’integrazione nel mercato del lavoro per coloro in grado di lavorare. Sulla base di conoscenze ampiamente consolidate nella ricerca e nelle pratiche a livello internazionale, la Commissione da un lato formula il concetto di attivazione e in particolare di politiche attive del lavoro in modo ampio, non ristretto al semplice incrocio tra domanda e offerta. Le politiche attive del lavoro dovrebbero comprendere infatti misure di life long learning (apprendimento lungo tutto il corso della vita), sostegno e consulenza personalizzata (tanto più necessaria nel caso delle persone a bassa qualifica e lontane dal mercato del lavoro, come sono spesso i beneficiari del reddito minimo), promozione di occupazioni di qualità e di stabilità occupazionale. In altri termini, la richiesta fatta ai beneficiari in grado di lavorare di “attivarsi” (e le relative sanzioni se non lo fanno) deve essere sostenuta da una robusta offerta di servizi formativi e di consulenza, oltre che da una disponibilità di occupazioni decenti. Dall’altro lato, sempre sulla scorta delle evidenze empiriche, la Commissione suggerisce che per incentivare l’occupazione è utile che a coloro che trovano un’occupazione venga mantenuto, per un certo periodo, il diritto al reddito minimo, evitando aliquote marginali troppo alte (come nel caso italiano). 

Con la proposta di Raccomandazione la Commissione intende perseguire i seguenti obiettivi per i paesi membri: 1) migliorare l’adeguatezza del reddito minimo; 2) migliorare il livello di copertura e di take up di questa misura, 3) migliorare l’accesso a mercati del lavoro inclusivi per coloro che sono in grado di lavorare; 4) migliorare l’accesso dei beneficiari ai servizi essenziali e abilitanti; 5) promuovere forme di sostegno personalizzate. Questi obiettivi vengono articolati in 34 sotto-raccomandazioni.

Per quanto riguarda l’adeguatezza in particolare, e il possibile effetto disincentivante sulla disponibilità a lavorare, la Raccomandazione (cfr. il punto 21) afferma che, qualsiasi sia il benchmark scelto da un paese per definire l’importo, un reddito minimo può essere considerato adeguato quando garantisce una vita dignitosa. Aggiunge inoltre che non vi è alcuna robusta evidenza empirica che percepirlo costituisca un ostacolo a trovare un’occupazione. Per quanto riguarda il secondo obiettivo, ai punti 22, 23 e 24 raccomanda di rivedere criteri di accesso che escludono o svantaggiano determinate categorie in base a requisiti di età, residenza o altro, e di avere un approccio flessibile, in modo da permettere di utilizzare il reddito minimo per proteggere tempestivamente individui e famiglie che si trovino improvvisamente in condizione di povertà.I cinque obiettivi della Raccomandazione e le diverse sotto-raccomandazioni coincidono in larga misura con le proposte di revisione del Reddito di cittadinanza (RDC) avanzate, oltre che dal Comitato scientifico di valutazione del RDC, da Alleanza contro la povertà e da Caritas. Sono invece molto lontani dalle intenzioni espresse prima e durante la campagna elettorale dai partiti che ora sono al governo, che mirano invece a ridurre la platea dei beneficiari, limitandola a chi non è in grado di lavorare, a prescindere dalle effettive chances occupazionali di chi è teoricamente in grado di lavorare e dalla qualità delle occupazioni che vengono loro offerte. Non è quindi affatto certo che la nostra Presidente del Consiglio darà il suo assenso nel Consiglio dei Ministri europei.

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