ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 181/2022

27 Ottobre 2022

Il capitale che non c’è: lavoro e disuguaglianza ai tempi del capitale immateriale

Lisa Magnani si occupa del capitale normalmente chiamato immateriale o intangibile, che sta assumendo un’importanza sempre maggiore nei sistemi economici contemporanei. Dopo aver ricordato le difficoltà che sorgono a definire con precisione il capitale immateriale e la varietà di forme che esso può assumere, Magnani richiama le principali conoscenze di cui disponiamo sugli effetti che questo capitale ha sulla produttività, sui profitti, sul finanziamento degli investimenti e sulle disuguaglianze nonché i suoi rapporti con le dinamiche della concorrenza nei mercati.

Tra i principali fattori che caratterizzano le nuove forme di produzione nel mondo post-industrializzato – che, nel loro complesso, costituiscono la New Economy – vi è, secondo molti, quello che viene chiamato capitale immateriale. Di questo capitale, come vedremo, non è facile dare, anche per la varietà di forme che può assumere, una definizione pienamente soddisfacente ma non vi è dubbio che esso si distingue nettamente dal capitale produttivo tradizionalmente inteso, cioè il capitale fatto di macchine e catene di montaggio. Il capitale immateriale, o gran parte di esso, produce rendite scorporate da input di produzione fisici, richiede forme di finanziamento specifiche, è legato da rapporti complessi al capitale umano e ben si adatta a un sistema produttivo che punta soprattutto sull’offerta di servizi. In queste note mi propongo di fornire elementi utili a definire il fenomeno, a conoscerne l’estensione e a valutarne le implicazioni, soprattutto in relazione alle sfide che pone al lavoro.
Se intendiamo il capitale immateriale come l’insieme di attività di ricerca e sviluppo, nuovo software, database, diritti d’autore, marchi, organizzazione e reti di distribuzione, gli investimenti in questo capitale risultano cresciuti a dismisura nei paesi OCSE negli ultimi decenni. La figura sottostante (tratta da A. Caggese e A. Pérez-Orive, “How stimulative are low real interest rates for intangible capital?” European Economic Review, 142, 2022) illustra la crescita del capitale immateriale nelle imprese statunitensi quotate in borsa (la linea spezzata si riferisce all’impresa mediana, quella intera alla media ponderata con pesi proporzionali al patrimonio delle imprese) dagli anni Ottanta ad oggi.

Alla fine dello scorso millennio, gli investimenti privati lordi in capitale immateriale negli Stati Uniti hanno superato i mille miliardi di dollari, raggiungendo così gli investimenti in capitale materiale (S. Mitra, “Intangible capital and the rise in wage and hours volatility”, Journal of Economic Dynamics and Control, 100, 2019). Inoltre, la pandemia causata dal Coronavirus sembra aver acuito questi trend, accelerando la transizione verso un’economia immateriale (McKinsey, “Getting tangible about intangibles. The future of growth and productivity?”, Discussion paper, 2021).
Come si è già accennato, il capitale immateriale assomma voci ben diverse quali l’innovazione delle forme organizzative, da un lato, e i brevetti e i diritti commerciali, dall’altro. Questi ultimi permettono alle imprese, di proteggere il flusso di rendite derivante dalle innovazioni, e tale protezione, come è noto, si è molto rinforzata negli ultimi decenni. Il capitale immateriale inteso come capitale organizzativo può generare profitti e crescita ma non richiede significativi investimenti e risorse finanziarie perché consiste essenzialmente nella capacità di modificare i comportamenti di chi opera nell’impresa. I brevetti, viceversa, richiedono investimenti rischiosi i cui costi, proprio a causa del rischio, spesso sono messi a carico della collettività attraverso l’impiego di risorse pubbliche, ma poi permettono di accrescere i profitti e le rendite private. La vicenda dei vaccini contro il Covid-19 illustra, in modo estremo, questo problema.
Si può aggiungere che il capitale organizzativo, generato ad esempio da una brava manager motivando i suoi dipendenti, è non-rivale, nel senso che è potenzialmente trasferibile ad altre imprese, mentre il capitale brevettuale (come del resto il diritto d’autore) è protetto da leggi che lo rendono di fatto un bene privato, non utilizzabile gratuitamente da altri.
Per questo, non stupisce che il capitale immateriale abbia effetti eterogenei sull’economia, non solo crescita economica e produttività del lavoro, ma anche potere monopolistico delle imprese e profitti.
È comunque fuori discussione che, nella New Economy, il capitale immateriale incida profondamente sulla crescita economica, sia a livello aggregato che di settore o impresa. Studi a livello d’impresa, ci ricorda M. O’ Mahony (“Intangible Capital, Productivity and Labour Markets”, 2020), hanno confermato che gli investimenti nel capitale immateriale aumentano la produttività media del lavoro e la Total Factor Productivity (cioè la capacità di produrre di più al netto di ciò che deriva dalla crescita degli input di produzione). Questi studi suggeriscono la presenza di forti complementarietà tra capitale immateriale, capitale materiale e capitale umano, intendendo quest’ultimo non solo come conoscenze e competenze connesse al livello d’istruzione ma anche a tratti della personalità, come ad esempio la capacità di socializzare o di lavorare in squadre in cui sono presenti competenze diverse. Questi studi hanno anche evidenziato la presenza di forti spillovers di produttività, che emergono quando la produttività del gruppo è maggiore della somma delle produttività individuali. Come sostengono A.Thum-Thysen, P. Voigt e C. Weiss (“Complementarities in capital formation and production: Tangible and intangible assets across Europe” EIB Working Paper 2021) si spiegherebbe così, in particolare, la osservata simultaneità di investimenti in capitale umano, addrestramento dei lavoratori e investimenti in software a livello d’impresa. La presenza di effetti di spillover esterni all’imprese, siano essi a livello di settore o distretto o regione, aiuta, poi, a spiegare la forte dipendenza di queste forme di investimento da risorse pubbliche e interventi governativi.
Un altro aspetto importante del capitale immateriale è l’osservata correlazione tra la sua accumulazione e la concentrazione di potere di mercato delle imprese (per esempio, D. Autor, D. Dorn, L. F. Katz, C. Patterson e J. Van Reenen, “The Fall of the Labor Share and the Rise of Superstar Firms” , The Quarterly Journal of Economics, 2020).Come spiega L. Zhang (“Intangibles, Concentration, and the Labor Share”, mimeo, 2019) il fatto che i brevetti, ben più che il capitale tradizionalmente intenso, generino rilevanti economie di scala, fa sì che le imprese che hanno la possibilità di investire in capitale immateriale di questo tipo crescano più delle altre, accrescendo il loro potere di mercato e limitando la concorrenza tra produttori. La forte protezione accordata ai brevetti, accentua, naturalmente, queste tendenze.
Che il capitale immateriale sia correlato con un indebolimento della concorrenza è preoccupante anche alla luce di studi, come quello di Caggese e Perez-Orive (2022) secondo cui le politiche monetarie orientate a determinare i tassi di interesse hanno un impatto ben più limitato sugli investimenti in capitale immateriale rispetto a quelli nel capitale tradizionalmente intenso. Questa diversa reattività del capitale immateriale a cambiamenti del tasso d’interesse deriva dal fatto che a livello d’impresa gli investimenti in questo capitale immateriale richiedono forme di finanziamento interne, derivanti, cioè, da profitti e accantonamenti aziendali, piuttosto che da fonti finanziarie esterne all’impresa. Per questa ragione, L. Demmou, I. Stefanescu e A. Arquie, (“Productivity growth and finance: The role of intangible assets-a sector level analysis” , 2019) giungono alla conclusione che le politiche monetarie espansive non servono a facilitare gli investimenti in capitale immateriale delle tante piccole e medie imprese. Il che invita a riflettere sul ruolo che la politica monetaria può avere nel rafforzamento delle piccole e medie imprese in un’epoca nella quale il capitale immateriale ha un ruolo così importante.
Un’analisi degli effetti del capitale immateriale sul lavoro rivela che, se da un lato il capitale immateriale sembra essere correlato con miglioramenti della productività delle imprese, dall’altro lato, la sua espansione sembra contribuire al declino delle quote del lavoro nel PIL, e all’aumento della disuguaglianza. Ad esempio l’osservata complementarietà tra capitale immateriale e capitale umano contribuisce a spiegare le ragioni per cui l’impatto del capitale immateriale sia diverso per i vari gruppi di lavoratori, differenziati non soltanto in base all’età ma anche per il settore economico, o per il grado d’istruzione. In effetti, il capitale immateriale sembra aver contribuito all’aumento delle disuguaglianze manifestatesi a partire dagli anni Ottanta. Questo consente di affermare che politiche economiche volte a sostenere occupazione, salari e crescita e a diminuire la disuguaglianza che il mercato del lavoro genera, dovrebbero prestare attenzione agli effetti che hanno sugli incentivi a investire in una forma di capitale piuttosto che in un’altra. In realtà, l’obiettivo dovrebbe essere quello di favorire le sinergie tra le varie forme di investimento e tra di esse e il lavoro.
Ora, purtroppo, così non è. Lo dimostrano alcuni trend associati alla crescita del capitale immateriale. In primo luogo, il capitale che non si tocca, tocca i lavoratori meno addestrati, accrescendo la loro esposizione al rischio di licenziamenti e di ristrutturazioni. In secondo luogo, il capitale immateriale sembra associato al trend verso la diminuzione delle quote del reddito da lavoro sul totale del PIL, osservato di frequente, come discusso da O’Mahony (2020) riferendosi ad un più ampio studio di O’ Mahony, Vecchi e Venturini “Technology, Intangible Assets and the Decline of The Labour Share” (ESCoE Discussion paper, 2019). Infine, i salari e l’occupazione possono diventare più precari. Al riguardo, Mitra (2019), citato sopra, ci ricorda che negli Stati Uniti gli investimenti in capitale immateriale sono andati di pari passo con un sostanziale aumento della volatilità di salari e delle ore di lavoro, almeno a partire dalla metà degli anni Ottanta. Altri autori documentano il crescente ricorso a contratti di lavoro in cui le retribuzioni sono collegate ai risultati (performance-based), per esempio, J. Champagne e A. Kurmann (“The great increase in relative volatility of real wages in the United States”. CIPREE Cahier de Recherche/Working Paper, 10-10, 2013) e F. Nucci e M. Riggi (“Performance pay and shifts in macroeconomic correlations”, Bank of Italy Temi di Discussione, No. 800, 2011). Nel complesso, il capitale immateriale sembra ulteriormente frantumare l’idea del lavoro come categoria unitaria e, almento nel 20esimo secolo, unificante.
In conclusione, che il capitale necessiti del lavoro per essere produttivo non è una novità. Specialmente per le giovani generazioni di lavoratori, l’impiego nella New Economy ha comportato la necessità di imparare a lavorare con nuove forme di capitale, appunto il capitale immateriale, quale quello incorporato in informazione o in attività che generano innovazione e competenze umane. Investimenti in capitale immateriale determinano la crescita di imprese ed economie, ma rimangono inaccessibili a piccole e medie imprese e accrescono il potere di mercato delle imprese più grandi. Agendo su disuguaglianza e quote del lavoro sul PIL, il capitale immateriale apre nuove sfide per il lavoro e per la capacità dei lavoratori di elaborare forme di organizzazione solidale al passo con le sfide del 21esimo secolo. Prestare maggiore attenzione alle varie forme di capitale immateriale, a come si crea e a come si distribuiscono i profitti e le rendite che esso genera, appare indispensabile per rendere il sistema economico più efficiente ed equo.

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