ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 218/2014

30 Giugno 2024

Potere e cambiamento climatico*

Maurizio Franzini riflette sul ruolo del potere in relazione al cambiamento climatico con specifico riferimento al ritardo nell’attuazione delle politiche per il raggiungimento degli obiettivi concordati a livello internazionale, documentato nel recente COP28. Franzini, anche richiamando l’attenzione sul fenomeno degli ‘investimenti incagliati’, esamina le strategie delle grandi imprese del fossile (big oil ) si sofferma sulla possibile, grave, tensione tra il loro potere economico e il buon funzionamento della democrazia.

Vorrei partire da due evidenze in tema di politiche di contrasto del cambiamento climatico.

Il ‘fallimento climatico’. La prima è il ritardo nel dare corso alle politiche considerate necessarie per raggiungere gli obiettivi concordati a livello internazionale, ed in particolare quello definito a Parigi nel 2015: il contenimento dell’aumento della temperatura media del pianeta a 1,5 gradi entro questo secolo rispetto al dato di fine ‘800. In occasione del COP28 tenutosi lo scorso novembre a Dubai, è stato presentato il primo Global Stocktake, cioè il primo rapporto sullo stato di avanzamento delle politiche che dovrebbero garantire il raggiungimento di quell’obiettivo. Da esso (ma non soltanto da esso) risulta che, malgrado qualche progresso, l’obiettivo appare molto lontano. Più in generale sembra esservi difficoltà a realizzare le politiche richieste dagli obiettivi che vengono concordati in diversi consessi internazionali – e anche a livello europeo – per contrastare il cambiamento climatico.

Le stranded assets. La seconda evidenza si riferisce al fenomeno delle stranded assets (investimenti incagliati), cioè delle riserve di carbone, petrolio e gas naturale già disponibili che perderebbero ogni valore se i fossili venissero utilizzati nella misura richiesta per rispettare gli accordi di Parigi. Secondo le stime dell’IEA ciò implicherebbe che resterebbero ‘incagliati’ nel sottosuolo investimenti pari a circa 2/3 delle attuali riserve.

Le perdite, soprattutto in termini di caduta del valore di borsa delle società proprietarie di quelle assets, sarebbero enormi.  Secondo G. Semieniuk et al. (“Stranded fossil-fuel assets translate to major losses for investors in advanced economies in Nature Climate Change, 2022) si tratterebbe di circa 1400 miliardi di dollari.

È di interesse esaminare brevemente chi sono gli azionisti delle società fossili che sarebbero danneggiate. Si tratta secondo Semieniuk et al. (cit.) soprattutto di governi e di important fondi di investimento con una forte concentrazione delle perdite prospettive. T. Dordi et al. (“Ten financial actors can accelerate a transition away from fossil fuels”, Environmental Innovation and Societal Transitions, 2022) più precisamente sostengono che tra i10 azionisti più colpiti vi sono 8 importantissimi fondi, tra cui in particolare BlackRock – che ha la quota più consistente in Exxon Mobil – e Vanguard – maggiore azionista di Shell – e due governi: quello indiano e l’Arabia Saudita.

In considerazione degli stretti rapporti tra fossili e finanza nonché dell’alta concentrazione degli interessi che sarebbero colpiti appare plausibile ipotizzare che tra le due ricordate evidenze via sia un nesso. Più esplicitamente una causa (preminente) del ritardo nel contrasto al cambiamento climatico sembra essere la temuta perdita di valore delle stranded assets da parte di attori dotati, in vario senso, di potere. Un interesse particolare sembra quindi sovrapporsi all’interesse generale, che possiamo identificare negli obiettivi fissati nei consessi internazionali, con nocumento per la democrazia.

La strategia delle Big Oil.Per cercare di fare luce sulla questione è utile ricostruire sinteticamente la strategia che le Big Oil sembrano aver seguito negli ultimi decenni. A questo scopo attingo informazioni da vari rapporti internazionali e soprattutto dal recentissimo documento dei Democratici del Committee on Oversight and Accountability che conclude un’indagine avviata in Usa nel 2021.

In quei documenti di sostiene che le Big Oil erano a conoscenza da moltissimo tempo degli effetti dannosi per il clima dei fossili ma si sono ben guardate dal renderla nota, anche temendo che l’effetto immediato potesse essere la perdita degli enormi sussidi pubblici destinati ai fossili.

In passato, le Big Oil hanno sostenuto tesi negazioniste (Cfr. C. Perrow e S. Pulver, “Organizations and markets”, in Climate Change and Society: Sociological Perspectives, a cura di R.F. Dunlop e R.J. Brulle, Oxford University Press, 2015) e hanno fatto ampio ricorso all’argomento che quelle politiche avrebbero portato al blocco (se non al regresso) della crescita, evocando quindi peggioramenti per tutti. Più di recente la strategia sembra essere quella di prendere posizione a favore dell’esigenza di contrastare l’innalzamento delle temperature ma soltanto in pubblico perché in privato si perseguono ben altri obiettivi, anche con attività di lobbying, come risulta da numerose comunicazioni interne alle compagnie. Un esempio riguarda la Shell che ha a lungo sostenuto pubblicamente l’introduzione una carbon tax, ma i documenti dimostrano che ha osteggiato la sua introduzione nello Stato di Washington.

Un altro esempio: nel febbraio 2020, BP ha annunciato l’intenzione di diventare un’azienda a emissioni nette zero entro il 2050 o anche prima e di voler “aiutare il mondo ad arrivare a emissioni nette zero”. Ma alcune e-mail private di pochi mesi prima indicano che i vertici dell’azienda dubitavano della possibilità di raggiungere questo obiettivo e le connesse affermazioni sembrano rimandare al problema delle stranded assets. Infatti, rispondendo a un richiesta del Guardian, un alto dirigente della compagnia disse: “ritengo un po’ eccessivo affermare o implicare il sostegno a un’economia a zero emissioni entro il 2050, perché ciò richiederebbe una politica che potrebbe mettere a rischio alcune asset esistenti”.

 Quindi vi sono segnali che molte compagnie petrolifere non prendono apertamente posizione contro gli obiettivi climatici (e contro il loro fondamento scientifico), anzi mostrano di farli propri e si presentano come leader dell’energia pulita, pur continuando a investire nei combustibili fossili. Infatti al momento risulta che numerose grandi imprese del fossile, tra cui Chevron, Exxon Mobil e Eni, hanno progetti espliciti di aumento della produzione di petrolio e gas. Altre (in particolare BP e Shell) vendono asset inquinanti a imprese che quasi certamente le utilizzeranno, con l’effetto di produrre emissioni inquinanti; questa strategia consente di evitare perdite senza essere direttamente responsabili delle emissioni inquinanti.

Siamo, dunque, di fronte a strategie che sollevano qualche inquietudine e che sembrano possibili solo se si ritiene di avere il potere (perché di questo si tratterebbe) di fare il contrario di quanto si afferma; di dichiararsi a favore dell’interesse generale mentre si persegue il proprio particolare interesse.

Coerente con questa strategia è anche la presa di posizione a favore di misure che dovrebbero ridurre il Co2 presente nell’atmosfera senza limitare il ricorso al fossile (e quindi senza subire perdite in termini di stranded assets). Il riferimento è alle soluzioni geo-ingegneristiche di sequestro del carbonio in atmosfera o, più di recente, di co-combustione del carbonio con l’ammoniaca, sulle quali mi limito a osservare che suscitano numerose e molteplici perplessità. In questa strategia rientra anche la richiesta di accrescere la responsabilità ambientale delle imprese, imponendo il rispetto di specifici indicatori (i cosiddetti ESG) o, anche, richiedendo a chi inquina di finanziare, in una logica compensativa per gli equilibri ambientali, la riforestazione. L’efficacia di queste proposte è stata, credo in modo convincente, posta in discussione. Le possibilità di ‘aggiramento’ soprattutto con il ricorso alle pratiche di greenwashing sono assai consistenti (si veda ad es. K. Pistor, Good Governance is a bad idea, in «Project Syndicate», 9 agosto 2023).

Utilizzando categorie familiari a chi si occupa di lobbying sembra di poter affermare che le Big Oil abbiano rinunciato al lobbying indiretto, cioè al tentativo di influenzare l’opinione pubblica e quindi i processi di decisione collettiva sugli obiettivi climatici e si siano concentrate sul lobbying diretto, quello mirato sui policy makers e sui burocrati da cui dipendono più direttamente le politiche che incidono sulle emissioni inquinanti. Sembra, dunque, che abbiano concluso di non avere il potere di influenzare il processo di decisione politica collettiva e di sfidare la scienza ufficiale ma di avere il potere di incidere sulle politiche concretamente attuate.

Tutto ciò si può esprimere con un’affermazione che ha, significativamente, ricevuto, già nel 2016, il consenso di Alan Jeffers, allora portavoce della Exxon: si è rinunciato “a lavorare contro la scienza” per “lavorare contro le politiche volte a fermare il cambiamento climatico”. Se quest’ultimo lavoro ha avuto, almeno parzialmente, successo (e si può senz’altro sostenerlo) il nesso menzionato in apertura di questo articolo ne risulta rafforzato.

In conclusione. Schumpeter notoriamente ha usato l’espressione ‘distruzione creatrice’ per denotare gli effetti delle innovazioni sul vecchio e sul nuovo. La distruzione include la perdita di valore di investimenti già effettuati, resa inevitabile dall’affermarsi del nuovo. Con i necessari adattamenti si può interpretare il fenomeno delle stranded assets alla luce della nozione di distruzione creatrice: il nuovo – derivante non da una innovazione ma dalla percezione che il vecchio stia conducendo verso rischi catastrofici e che è veicolato da processi politici – implica perdite per chi ha investito nel vecchio, come accade con l’ingresso degli innovatori nel mercato.  Ma se il mercato, premiando l’innovatore, non lascia speranze al vecchio i processi di attuazione delle nuove politiche sono esposti alla forza e al potere del vecchio. E questa forza sarà, per vari motivi, tanto maggiore quanto più concentrate e elevate sono le perdite del vecchio, il che rimanda a un’altra manifestazione del potere, quello che in passato ha consentito di accumulare l’immenso capitale che ora rischia di perdere valore.

Tutto ciò, osservato da un altro punto di vista, significa che se l’interesse generale è per il nuovo (e dire questo non vuol dire che l’interesse generale è sempre coincidente con il bene collettivo) mentre l’interesse particolare è per il vecchio, la prevalenza di quest’ultimo è di serio disturbo per la democrazia, è una manifestazione di quella unequal voice di cui hanno scritto K.L. Schlozman, H.E. Brady e S. Verba (Unequal and Unrepresented: Political Inequality and the People’s Voice in the New Gilded Age, Princeton University Press, 2018) e che può anche essere silenziosa, rivolta – cioè – solo ai decisori.

Ciò naturalmente non vuol dire che le politiche di contrasto del cambiamento climatico non abbiano anche altri avversari, ma si tratta di avversari certamente assai meno influenti, non dotati di potere. Basti pensare a tutti i lavoratori in vari modi danneggiati, in assenza di interventi compensativi, dalla transizione ecologica. Ma lo sono, appunto, in assenza di interventi compensativi (sui redditi e soprattutto sulla formazione delle nuove competenze) che possono essere visti come una sorta di indennizzo per la perdita di valore dei loro piccoli o grandi ‘capitali umani’ – altra manifestazione della distruzione creatrice.  

La sostanziale inerzia nell’attivare queste politiche compensative aggiunge ostacoli al successo delle politiche di contrasto al cambiamento climatico e a spiegarla è anche l’avversione generale a politiche di carattere redistributivo che almeno in parte dipendono dal potere – il potere di difendere le disuguaglianze vantaggiose, che probabilmente comprende anche quello di salvaguardare i vecchi investimenti.

Si può qui ricordare quanto sostengono Semieniuk et al. (cit.) sulle perdite derivanti dalla non valorizzazione delle stranded assets per corrispondere agli obiettivi di Parigi. Quelle perdite sarebbero quasi interamente a carico di chi rientra nel 10% più ricco della popolazione, e molti di essi, si può aggiungere, si sono arricchiti grazie anche ai generosissimi sussidi elargiti negli scorsi anni al fossile. In breve, quelle perdite sarebbero compatibili con criteri di equità, diversamente da quelle dei lavoratori che svolgono mansioni che inquinano.

Dunque, concludendo, molto resta da comprendere nel complesso rapporto tra potere e cambiamento climatico e se si volesse cercare di farlo si dovrebbe tenere presente che il potere del ‘vecchio’ è connesso in più di un modo alla disuguaglianza, oltre che alla debolezza della democrazia.


* Questo articolo ritorna su temi trattati in M. Franzini, “Il «fallimento climatico» e le sue ragioni”, Meridiana 108, 2023.

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