ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 206/2024

5 Gennaio 2024

Il Ministero Brodolini

Paolo Borioni riassumendo il suo libro dedicato a Giacomo Brodolini argomenta che il Ministero Brodolini fu visto come il perno d’una strategia volta a fare del PSI il referente al governo del protagonismo operaio, quale che fosse il partito votato dai singoli lavoratori, con lo scopo di far sì che ministero e istituzioni riequilibrassero i rapporti tra capitale e lavoro. Borioni sostiene che, con le sue peculiarità italiane, questo è un esempio di come il socialismo europeo abbia mirato a connettere conflitto sociale e riforma democratica.

Ripercorrere alcuni episodi cruciale della recente e meno recente storia politica e sociale del nostro paese può servire a meglio comprendere alcune delle grandi difficoltà in cui versa l’Italia e a delineare percorsi di possibile cambiamento caratterizzati da soluzioni innovative, anche radicalmente innovative, capaci di coagulare, al di là dei conflitti, un ampio consenso soprattutto da parte di chi più avverte sofferenza sociale. 

Uno di questi episodi risale alla fine degli anni ’60 ed è strettamente legato al nome di Giacomo Brodolini, all’epoca ministro socialista del lavoro nel primo governo presieduto da Mariano Rumor. A lui e al suo straordinario impegno per l’introduzione dello Statuto dei Lavoratori e la riforma delle pensioni è dedicato un mio recente lavoro (Il Ministero Brodolini. Poteri pubblici, welfare e statuto dei lavoratori, Biblion, Milano 2023) di cui qui sintetizzo alcuni contenuti.

E’ utile partire da quanto Luigi Bobbio scrive nella sua Storia di Lotta Continua (Feltrinelli, Milano, 1978-1988) a proposito dei giovani operaisti di LC che furono tratti in inganno dal fatto che nelle fabbriche i lavoratori fra 1969 e primi anni Settanta proclamassero “il sindacato siamo noi”. La gran parte dei lavoratori, contrariamente alla percezione dei gruppi “extraparlamentari”, non intendeva sconfessare CGIL, CISL e UIL, ma piuttosto sottolineare che la loro sensazione di potere meglio incidere come “base” era dovuta anche al rinnovamento del sindacato confederale. 

Uno degli obiettivi che mi sono posto con il  mio libro è proprio quello di documentare come Brodolini con lo “Statuto dei Lavoratori” abbia deliberatamente costruito uno strumento di promozione del sindacato nei luoghi di lavoro. Questa novità, infatti, riuscì a consolidare in diritti certi la forte ripresa sindacale determinatasi negli anni precedenti, il che (superando i gravi limiti delle Commissioni Interne) mirava anche a suscitare ed accogliere la spinta reale in atto nei luoghi di lavoro. 

Brodolini mirò anche a sancire che era possibile, nonostante la complicata situazione della sinistra storica italiana, costruire per la prima volta una rispondenza sistematica fra conflitto sociale e riforma politica governativa. Da tutto ciò la strategia socialista si attendeva un nuovo sbocco alla coalizione di Centro-sinistra, dopo gli anni insoddisfacenti dei governi Moro, cioè lo scarso seguito che ebbero le grandi riforme del 1962-63 e la mai attuata programmazione economica. 

A quest’ultimo riguardo è utile ricordare come Brodolini ed Enzo Bartocci indicassero, verso il 1965, nella programmazione un’opportunità concessa al sindacato per incidere sugli equilibri economici “ex ante”, ovvero non solo “a valle”, compensando scelte subite precedentemente. Su questo terreno, come è noto, la sconfitta fu evidente, ma da moltissimi documenti affiora che, comunque, il riferimento alla legge di programmazione del 1967 è servito nel dibattito politico (specie internamente al governo) per legittimare una serie di scelte o prospettive. Le carte lo dimostrano puntualmente quando Brodolini argomentando in favore dello Statuto, allarga la fruizione dell’assistenza medica per i lavoratori disoccupati e, soprattutto, quando attua la riforma pensionistica, oppure sostiene con il Presidente del Consiglio Rumor la necessità di addivenire ad una sanità pubblica universale. 

Il Ministero Brodolini, detto ciò, è stato il momento in cui il disegno di riforma del Paese che il PSI aveva portato nel centro-sinistra si è maggiormente dedicato al rapporto con i movimenti sociali in atto, mentre in precedenza era prevalsa la tendenza al mutamento mediante processi di nazionalizzazione e riforma legislativa. Quest’ultima scelta era stata più legata alla risorsa maggiore che l’assetto istituzionale e la struttura economica del Paese ponevano in mano ai socialisti: il proprio potere coalizionale e il ruolo centrale che l’intervento pubblico in economia aveva anche per la DC. 

Nel 1968-1970, con sforzo innovativo e molti ostacoli da superare, si puntò invece sulla risorsa “di massa” per rafforzare “dal basso” e “dall’esterno” il PSI e i suoi più stretti alleati dentro la coalizione. E, ciò, può essere meglio apprezzato attraverso la comparazione (che è approfondita nel libro) con le altre forze del socialismo europeo, che sul movimento operaio organizzato potevano contare grazie al fatto che esso non era diviso (fra partiti e sindacati diversi, o fra governo e opposizione) quanto lo era in Italia. Tutto ciò permette di apprezzare quali siano state la dinamica e la dialettica di fondamentali riforme (specie, appunto, Statuto e Pensioni) sia quali risorse di cultura politica e tecnica vi fossero alle spalle. 

Brodolini si avvalse – grazie alla collaborazione con Gino Giugni e Enzo Bartocci , in particolare, ma anche di Francesco Forte – di competenze e saperi formati e orientati in modo analogo a quelli delle grandi forze della riforma socialista. C’è stato un periodo, fra gli anni 1930 e 1980, in cui studiosi (sociologi, giuristi, economisti ed altro) formatisi in modo accademicamente avanzato e volto alla riforma del presente si sono interfacciati con la politica in modo paritario, cioè proponendo soluzioni scientificamente fondate (non ideologie) e tuttavia sposando i fini di trasformazione dalla politica democraticamente indicati. Precedentemente invece gli “esperti” erano stati sostanzialmente degli ideologi (Bernstein, Kautsky, Snowden ecc.). In seguito, crescentemente dal 1990 in poi, sono diventati al contrario “transnational financial experts” portatori di logiche predefinite a cui uniformare la democrazia e la politica, come ha sostenuto S. L. Mudge (Leftism Reinvented: Western Parties from Socialism to Neoliberalism, Harvard University Press, 2018) e come, con riferimento al ruolo degli ‘esperti’ nella fase attuale, dal recente libro di M. Mazuccato e R. Collington (Il grande imbroglio, Laterza, 2023).

Anche questa fondamentale convergenza fra saperi e finalità politica, ritengo, produsse il successo di un ministero assai breve e non certo accolto da unanime consenso. 

Il progetto a cui la “squadra Brodolini” si dedica è quello di una modernizzazione che espellesse con gradualità ma decisione i margini di competitività legati allo sfruttamento, e dunque anche alla repressione nei luoghi di lavoro. A questo punto la “spinta” dal basso al cambiamento, più compiutamente democratica peraltro, si sarebbe sommata al riformismo “dall’alto” legato agli aspetti di programmazione comunque possibili mediante il cospicuo intervento pubblico. 

Con quali ostacoli si scontra questo modo di procedere? Lo vediamo sia sullo Statuto sia sulla riforma pensionistica del 1969. Nel caso dello Statuto vi sono le differenze con la scuola giuslavoristica vicina al PCI, mirante soprattutto ad affermare i diritti costituzionali in fabbrica per evitare le discriminazioni verso lavoratrici e lavoratori sgraditi al padronato, e anche la liceità dell’intervento politico comunista nei luoghi di lavoro. 

La CISL pre-Carniti invece avversava ogni intervento legislativo in materia di lavoro: tutto doveva avvenire nel contratto. Senza contare l’opposizione di Confindustria. Questi ostacoli sono stati, alla fine, superati e nel libro, di dà conto, sulla base di molti documenti, di come questo sia potuto avvenire (in particolare, l’alleanza con Carniti, Treu, le Acli e Forze Nuove fu determinante). Insuperabile, invece, fu l’opposizione di Rumor riguardo alla salvaguardia del limite dei 15 addetti per l’applicazione dello Statuto: una questione di consenso vitale per la DC. Attraverso cui, però, si sarebbe perpetuata la riserva di informalità e sfruttamento, mai chiusa, a disposizione del nostro capitalismo. 

La riforma pensionistica va collocata all’interno della storia del nostro welfare e l’obiettivo principale di Brodolini e dei suoi esperti era quello di allontanarsi il più possibile dalle disuguaglianze categoriali ereditate, sostituendovi il principio di “sicurezza sociale”. In parte considerevole gli obbiettivi vennero conseguiti con la riforma del 1969, specie considerando la pensione sociale universalistica e il generale incremento in spesa pensionistica che i documenti provano essere stato ottenuto dal PSI nelle trattative con la DC. 

Quest’ultima, come ebbe poi modo di riflettere Enzo Bartocci, oppose dapprima una notevole resistenza, ma poi cedette alle richieste sindacali andando ben oltre quanto aveva previsto lo stesso Brodolini. Il democristiano Emilio Colombo fu al centro dell’operazione, evidentemente volendo evitare che il suo partito perdesse altri consensi in politica sociale in quella fase di intense riforme. E una perdita di consensi fu evitata del resto anche sul piano fiscale, giacché Colombo avrebbe predisposto coperture soprattutto mediante aumento del debito e tassazione indiretta (accise sulla benzina, ad esempio). La DC insomma si comportò in quel frangente in modo assai rispondente alla propria composizione socio-politico-ideologica: accettare l’espansione del welfare senza tuttavia (come mostrato da dati comparati sulla pressione fiscale presenti nel volume) fondarlo su un corrispondente spostamento redistributivo di risorse mediante il fisco. Il principio di “sicurezza sociale” si attuerà quindi con discontinuità evidenti. 

Come si vede, alcuni caratteri fondamentali della struttura sociale italiana (a partire dalle premesse fiscali e giuslavoristiche della piccola impresa diffusa a scarsa innovatività) permasero nonostante i notevoli progressi realizzati dal ministero Brodolini come momento particolarmente efficace di un periodo di notevolissime riforme progressive. In sostanza: la grande impresa pubblica rimaneva a bilanciare questi dati, con il suo cospicuo ruolo di innovazione mediante investimento e accettazione di “profitto differito”. 

Ma alla base dell’edificio sociale non poté essere del tutto realizzato un equilibrio di classe basato sulla definitiva marginalizzazione dello sfruttamento come metodo competitivo. L’importanza di Brodolini non è sfuggita a osservatori coevi quali G. Amato e L. Cafagna (Duello a sinistra, Mulino, 1982) i quali rilevano come, con la sua scomparsa (precoce, l’11 luglio 1969) il PSI “perse … la capacità di interloquire con il mondo del lavoro”, così che questo partito con la guida di De Martino “si ridusse, introducendo la formula degli ‘equilibri più avanzati’, a proporre una strategia sostanzialmente abdicatoria”, ovvero uscire dal governo per “aprire la strada” al PCI. Tale giudizio è eccessivamente sferzante, anche se rimane vero che con la morte di Brodolini divenne più arduo riscuotere il proprio dividendo di consenso nel protagonismo delle masse con le quali il ministero Brodolini aveva così efficacemente interagito. 

Ma ciò che più caratterizza la critica di Amato e Cafagna è la denuncia della mancata capacità di ricondurre ad un “ordine” (per quanto socialista e riformatore anch’esso) le “aperture” alle istanze delle classi e dei movimenti. Essi così rivelano sia l’origine “giolittiana” (il piano economico come ordinatore e sbocco, che mancò, delle “rotture” sociali “in avanti”) sia sensibilità internazionale: la crisi di “governabilità” dell’Occidente denunciata dal celebre rapporto alla Commissione ”trilateral”. Ancora più di ciò Amato e Cafagna prefigurano lo sbocco politico offerto da Craxi: il nuovo centro-sinistra caratterizzato da un diverso protagonismo del PSI, meno concentrato sulla riforma socialista del Paese e soprattutto volto a risolvere il problema di governabilità apertosi negli anni 1970, che il “compromesso storico” aveva invano affrontato.

Com’è noto, gli anni 1980 perpetuarono il nostro dualismo fra grande impresa pubblica spesso innovativa e PMI in grandissima prevalenza a bassissimo valore aggiunto, senza riuscire ad espellere marginalità e sfruttamento dal sistema. Cioè senza compiere quella modernizzazione che avrebbe imboccato definitivamente la strada dell’innovazione socio-economica sistematica, portando all’unica vera stabilizzazione compatibile con una democrazia avanzata: non negare il conflitto, ma risolverlo con soluzioni più avanzate. Come è noto, nei decenni seguenti, governi di ogni colore si sono allontanati ben più nettamente da questa strada, innescando invece un vero regresso sociale elitista a bassa innovazione. 

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