ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 201/2023

14 Ottobre 2023

Perché rafforzare il pubblico impiego* 

Enrico D’Elia e Stefania Gabriele sostengono che i piani di rilancio dell’economia e di riforma della Pubblica Amministrazione non possono avere successo se il personale pubblico non è qualificato, motivato e numericamente adeguato. Gli autori riportano numerose evidenze empiriche a questo riguardo, anche di livello internazionale e spiegano perché vi è motivo di ritenere che la spesa per le retribuzioni dei pubblici dipendenti possa anche produrre effetti favorevoli sul PIL, e quindi sul rapporto tra debito pubblico e PIL.

L’Europa, per affrontare l’emergenza sanitaria e superare la recessione causata dal Covid-19, ha rimosso temporaneamente i vincoli di bilancio su tutta la spesa pubblica ed ha lanciato il programma Next Generation EU (NGEU), che comprende sovvenzioni e prestiti agli Stati membri per circa 800 miliardi. Il Piano di ripresa e resilienza (PNRR) approvato per l’Italia include investimenti e riforme finanziati da sovvenzioni (68,9 miliardi) e prestiti (122,6 miliardi). Le spese previste sono quasi tutte in conto capitale, in base al convincimento che gli investimenti sarebbero l’unica forma di spesa pubblica in grado migliorare la capacità strutturale di crescita dell’economia. Senza mettere in discussione i pregi degli investimenti, si può osservare che mantenere regole che limitano le possibilità di espansione di altre voci di spesa può produrre squilibri che finiscono, per numerose ragioni, per ostacolare la crescita e lo sviluppo del Paese. In queste note sosterremo che questo è il caso per la spesa relativa ai dipendenti pubblici. 

La tecnologia per la produzione dei servizi pubblici è piuttosto rigida e richiede, oltre al capitale fisico, una adeguata dotazione di lavoratori. Ad esempio, secondo Eurostat, nel settore dell’amministrazione, previdenza e difesa il rapporto tra remunerazione del lavoro e valore dell’output complessivo nell’Eurozona è rimasto sostanzialmente costante dal 2015 al 2019 (al 51,3% in media) e lo stesso è avvenuto in Italia (con oscillazioni minime attorno al 49,3%) nonostante l’ impiego sempre più intensivo dell’informatica. 

Quei dati mostrano anche che nella PA la tecnologia in Italia è meno labour intensive che nel resto d’Europa. Secondo il Conto annuale della Ragioneria Generale dello Stato, il numero dei dipendenti pubblici è calato di poco meno di 300.000 unità in vent’anni, da circa 3,5 milioni nel 2001 a 3,2 nel 2021. Il personale della sanità è passato nello stesso periodo da più di 688.000 a quasi 671.000 unità, ma nel 2017 si era ridotto a circa 647.000; nel settore istruzione e ricerca si è scesi da 1,22 milioni nel 2001 a meno di 1,1 nel 2012, risalendo a 1,26 nel 2021. 

La riduzione dei dipendenti pubblici si è concentrata principalmente nel periodo della Grande Recessione e il blocco del turn-over è continuato dopo le misure adottate per far fronte alla crisi dei debiti sovrani. L’età media degli addetti è aumentata, per effetto del mancato rimpiazzo delle uscite e delle misure sull’età del pensionamento. Inoltre i redditi da lavoro dipendente sono stati tenuti sotto controllo fissando tetti massimi di spesa e con altre misure, tra cui la sospensione dei rinnovi contrattuali per il periodo 2010-2015. Dopo la tornata contrattuale 2016-18, quella relativa al passato triennio 2019-21 non è ancora conclusa, e gli accordi per il 2022-24 sono in attesa.

La Tabella 1 mostra che in Italia la quota del pubblico impiego sul totale degli occupati è inferiore non soltanto alla media OCSE (13,4% contro 18,1%, prima della pandemia) ma anche a quella di paesi con un welfare molto meno sviluppato, come gli USA (14,9%); in particolare, è pari a meno della metà di quella dei paesi scandinavi. Tra i grandi paesi europei, solo Germania e Olanda registrano percentuali minori, anche a causa di alcune disomogeneità nella classificazione delle amministrazioni pubbliche. La pandemia ha fatto crescere di oltre mezzo punto la quota dei dipendenti pubblici nella media OCSE, ma in Italia la variazione è stata tra le più basse (appena 2 decimi di punto).

Tabella 1 – Percentuale di dipendenti pubblici nei maggiori paesi OCSE

Fonte: OCSE, Government at a glance, 2023, https://stat.link/u0zaox.

La consistenza e qualificazione del pubblico impiego appaiono però decisive per il buon funzionamento delle Pubbliche Amministrazioni (PA). In particolare, le riforme previste dal PNRR difficilmente possono avere successo se il personale che dovrebbe applicarle subisce un ridimensionamento numerico e qualitativo e incorre in un invecchiamento come quelli verificatisi in Italia negli ultimi decenni.

Si può ricordare, ad esempio, il depauperamento delle strutture tecnico-amministrative degli enti territoriali, da cui conseguono difficoltà di realizzazione della spesa e l’affidamento a consulenti privati delle funzioni di progettazione e valutazione degli investimenti, soprattutto nel Mezzogiorno, come sottolineato dall’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb). L’Upb ricorda che le prospettive di successo degli interventi messi in atto  anche nell’ambito del PNRR, per rafforzare la capacità amministrativa del Sud e consentire il reclutamento di risorse tecniche e professionali, dipende tra l’altro dall’attrattività dell’impiego pubblico. Si osservi che il limitato incremento delle assunzioni volte a gestire il PNRR è probabilmente dipeso dalle caratteristiche delle posizioni offerte come tipologia di contratto (prevalentemente a tempo determinato), di inquadramento e di remunerazione, tanto che in seguito sono state introdotte nuove modalità di stabilizzazione.

La scuola, ad esempio, soffre della carenza di alcuni insegnanti, come quelli di matematica, che possono trovare facilmente occupazioni più remunerative. La situazione è talmente drammatica che alcune Regioni economicamente forti puntano sulla gestione in proprio dei ruoli del personale, per poter offrire retribuzioni appetibili. Inoltre, malgrado le assunzioni in ripresa nell’ultimo decennio, resta elevata la quota di personale precario, con effetti sulla discontinuità didattica. Si è avuto poi un progressivo screditamento della figura dell’insegnante riconducibile sia alle basse remunerazioni, sia a una messa in discussione forse troppo frettolosa dei metodi tradizionali di insegnamento ancora diffusi tra i docenti, come la lezione frontale, enfatizzando invece l’importanza degli strumenti di apprendimento digitale, di cui recenti evidenze mostrano i limiti: ad esempio, dall’indagine PIRLS sugli allievi al quarto anno della scuola primaria è emerso che i risultati in lettura sono migliori per gli studenti che non usano i dispositivi digitali per le attività scolastiche. 

Quanto alla sanità, solo a fine settembre 2023 è stato raggiunto l’accordo sul contratto 2019-21 dei medici del SSN, mentre il rinnovo 2022-24 è ancora lontano per tutto il personale. Si spiegano anche così le carenze di infermieri e di alcune categorie di medici, nonché l’abbandono del SSN in favore di altri paesi o di strutture private. Si stanno pure diffondendo nuovi rapporti di lavoro nel SSN che possono garantire remunerazioni più elevate (“medici a gettone”), utilizzati per sopperire al personale mancante e perché la corrispondente spesa, contabilizzata come acquisto di beni e servizi, non è soggetta al tetto sul personale. Le nuove strutture per la sanità territoriale che dovrebbero essere approntate con il PNRR richiederanno poi di essere gestite attraverso un potenziamento del personale, ancora finanziato solo in parte. 

La variazione della spesa per il personale può avere anche ricadute macroeconomiche. Il moltiplicatore fiscale (cioè il parametro che misura la variazione del PIL dovuta ad una modifica delle spese o delle entrate pubbliche) associato alle spese di investimento è generalmente ritenuto superiore a quello delle spese correnti. Tuttavia, come evidenziato sul Menabò anche da Civil Servant, la Commissione Europea a fine 2019 aveva riportato in un documento di lavoro livelli dei moltiplicatori intorno a 1,5 sia per gli investimenti, sia per i consumi pubblici (che comprendono i redditi da lavoro dipendente), con il secondo addirittura leggermente superiore al primo (resterebbero più bassi i moltiplicatori delle entrate e, in genere, delle spese per trasferimenti). Questi dati tuttavia vanno interpretati tenendo conto che la misura dei moltiplicatori dipende da molti fattori (tra cui i modelli utilizzati e la loro “chiusura”), e si ritiene che essi siano più elevati in fase di recessione e quando la politica monetaria è espansiva, come spiegato sul Menabò da Massimiliano Tancioni. I livelli sopra riportati corrispondevano ad una ipotesi di politica monetaria accomodante, mentre in seguito l’impostazione della BCE è divenuta restrittiva per contrastare gli elevati tassi di inflazione (anche se ormai si potrebbe cominciare a vedere almeno una stabilizzazione). Tuttavia, per quanto riguarda la fase del ciclo, oggi l’evoluzione del PIL appare in bilico, con la Germania in recessione e l’Italia che ha sperimentato una flessione del PIL nel secondo trimestre e ha difficoltà dal lato della domanda interna. Considerando anche altre valutazioni, come quella recentissima di Giovanna Ciaffi, Matteo Deleidi e Lorenzo Di Domenico, che indicano un moltiplicatore dei consumi pubblici medio in 14 paesi OCSE compreso tra 0,86 e 1,66, sembra fondato ritenere che un aumento della spesa per redditi da lavoro dipendente avrebbe effetti rilevanti sulla crescita del PIL. 

Il Grafico 1 suggerisce una associazione statistica positiva tra la quota di spesa per personale sulla spesa pubblica complessiva, da un lato, e la crescita del Pil, dall’altro, sia considerando la posizione di ciascun paese nella media del periodo 1995-2022, sia analizzando l’evoluzione nel tempo delle due variabili (con le ovvie eccezioni dell’inizio della Grande Recessione e della pandemia). Una regressione panel sui dati dei paesi europei dal 1995 al 2023 indica che ogni punto in più della quota di spesa per personale è associato a circa 0,3 punti di aumento del Pil reale. Anche se restano da individuare i meccanismi di causalità, queste evidenze sono interessanti. Si noti che l’Italia è tra i paesi meno performanti sia per crescita del Pil che per investimento nel capitale umano pubblico, mentre gli ottimi risultati dell’Irlanda e di vari paesi dell’Est sembrano supportati da una spesa per dipendenti pubblici superiore alla media europea. Per quanto riguarda la dinamica del Pil nel tempo, pur tenendo conto dei numerosi shock negativi verificatisi in questo periodo, la compressione della spesa per personale negli ultimi decenni pare associata a ritmi di crescita inferiori al passato.

Grafico 1: Spesa per dipendenti pubblici e crescita

Fonte: elaborazioni su dati CE-AMECO.

Non necessariamente, poi, l’incremento della spesa per i dipendenti pubblici peggiora il rapporto debito/PIL. Infatti, la spesa per il pubblico impiego per convenzione viene contabilizzata per intero nel prodotto (in quanto rappresenta la principale componente del valore aggiunto delle Pubbliche Amministrazioni). Dunque l’impatto immediato di un aumento di tale spesa, anche in deficit, corrisponde a una riduzione del rapporto debito/PIL (per l’effetto aritmetico di un identico incremento, in termini assoluti, del numeratore e del denominatore quando il rapporto è superiore ad uno).

Tenendo conto degli effetti indiretti, si dimostra che il livello soglia oltre il quale l’aumento della spesa riduce il rapporto, invece di accrescerlo, dipende dal valore del moltiplicatore (come mostrato da Ciccone e Nuti), e sostanzialmente corrisponde ad un moltiplicatore pari all’inverso del rapporto debito/PIL, ovvero attualmente a circa 0,7, un parametro non particolarmente elevato.

La critica che viene opposta a queste riflessioni è generalmente che questa impostazione, valida per il breve periodo, non regge nel tempo, quando l’aumento del deficit, in assenza di rientro, genera continui incrementi del debito cui non corrisponderebbe più un impulso sull’economia. In realtà. vi è ragione di credere che l’andamento ciclico abbia effetti persistenti sul PIL (isteresi). L’Upb, ad esempio, ha calcolato un effetto permanente delle fluttuazioni cicliche sul trend del Pil pari circa al 70% in Italia negli ultimi anni (e un aumento di tale parametro dopo le recessioni). 

Anche alcune evidenze empiriche sembrano insomma confermare che una manovra recessiva o espansiva, basata altresì sulla spesa corrente, potrebbe avere effetti di lungo periodo sulla crescita che controbilanciano quelli sul debito pubblico. Pertanto andrebbe considerata l’opportunità di prevedere, sia nell’ambito delle politiche di sviluppo sia di quelle di consolidamento fiscale, un mix bilanciato di misure su investimenti e su determinate spese correnti.


* Le opinioni espresse in questo articolo sono personali e non convolgono le amministrazioni di appartenenza degli autori. 

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