ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 177/2022

31 Luglio 2022

Le occasioni politiche mancate nella lotta alla povertà

Enrica Morlicchio esamina il dibattito italiano sulla povertà negli ultimi 70 anni attraverso tre momenti chiave: l’inchiesta sulla miseria del 1952, l’istituzione della Commissione povertà nel 1984 e la sua soppressione nel 2012. Questi tre eventi permettono di capire perché, nel dibattito attuale, abbiano valore rappresentazioni stereotipate dei poveri che alimentano posizioni di radicale avversione a una misura di sostegno al reddito come il Reddito di Cittadinanza che quasi tutti i paesi europei hanno introdotto ben prima dell’Italia.

Questo contributo va alla ricerca delle ragioni storiche della mediocrità del dibattito politico italiano sulla povertà focalizzandosi su tre momenti chiave: l’inchiesta sulla miseria del 1952, l’istituzione della Commissione povertà nel 1984 e, infine, la sua soppressione nel 2012. Questi tre eventi sono importanti per capire come si sia potuto dare legittimità politica (non essendovi alcuna fondatezza empirica) a stereotipi negativi sui poveri da parte di forze politiche del campo riformista e progressista e a ritenere che possa avere una possibilità di successo la recente iniziativa di Matteo Renzi che mira ad abolire attraverso una consultazione referendaria una misura di sostegno al reddito non categoriale che quasi tutti i paesi europei avevano introdotto ben prima dell’Italia.

Un tale snaturamento non è una novità per l’Italia. Nell’età liberale, ad esempio, la lotta alla povertà era di competenza dei prefetti: i poveri interessavano solo e soltanto in quanto possibile causa di problemi di ordine pubblico. Durante il ventennio fascista, nonostante la nascita di istituzioni esplicitamente rivolte ai poveri (si pensi agli Enti comunali di assistenza), l’orientamento del regime fu di ridimensionare la portata del fenomeno della povertà e di non farne una questione di dibattito politico.

Soltanto con l’Indagine parlamentare sulla miseria realizzata in Italia all’inizio degli anni Cinquanta, la povertà e i “mezzi per combatterla” divennero occasioni di confronto di prospettive diverse e di dibattito pubblico su cosa fosse importante sapere per rilevare il tenore di vita delle famiglie e migliorarlo. E tuttavia l’orientamento riformista e lo sforzo empirico che avevano animato la Commissione di indagine non riuscirono a scalfire del tutto lo stereotipo di un destino ineluttabile riservato ai poveri, con motivazioni para-antropologiche o addirittura da determinismo geografico. Nelle diverse centinaia di pagine del Rapporto finale non mancarono i giudizi morali, che portavano a individuare le cause della miseria nell’“ozio, ignoranza, malattia, inabilità fisica o psichica, temporanea o permanente” e a vedere nei poveri persone afflitte da “accattonaggio, sudiciume, ignoranza” (P. Braghin, Inchiesta sulla miseria in Italia (1951-52), Einaudi, 1978).

Come andò in seguito è storia nota. L’”offensiva contro la miseria” che la Commissione avrebbe voluto lanciare rimase lettera morta. L’obiettivo primario dell’inchiesta, la riforma dell’assistenza sociale, dovrà aspettare addirittura mezzo secolo per essere attuata, con la legge 328/2000. In breve tempo l’attenzione si spostò sulle condizioni della classe operaia e sulle sue implicazioni sociopolitiche nel quadro della società italiana, mentre il discorso sulla povertà rimase sullo sfondo. La presenza di sindacati e di un Partito Comunista forti rese di fatto la conquista del consenso della classe operaia una questione di competizione politica, soprattutto dopo la suddivisione dei sindacati lungo linee ideologiche, con la Cgil prossima al Partito Comunista e la Cisl alla Democrazia Cristiana.

I poveri, ai quali spesso si faceva riferimento con termini ottocenteschi come “gli umili” o “la plebe” non erano un gruppo sociale chiaramente identificato o identificabile per il cui consenso valesse la pena lottare. Al massimo essi erano oggetto di forme di carità improntate al paternalismo. La lenta rimozione si esprimeva nel considerare i poveri come casi eccezionali da trattare con misure specifiche che non andassero a svantaggio del benessere dei ceti medi o della classe operaia. La povertà tutto sommato era considerata una questione di ‘retroguardia’, un fenomeno tipico di società arretrate, come il Mezzogiorno di Italia. Non si comprendeva come essa fosse il prodotto esattamente delle trasformazioni economiche e sociali che stavano avendo luogo.

Occorse ben un trentennio perché la politica “scoprisse” di nuovo il problema, con l’istituzione della Commissione di indagine sulla povertà nel 1984, ad opera dell’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi. Ma proprio quest’ultimo, quando dovette confrontarsi con le stime della povertà prodotte dal lavoro degli studiosi che ne facevano parte, sollevò dubbi sulla fondatezza delle rilevazioni dal momento che, a suo dire, le località di vacanza e i ristoranti erano affollati (tema che in seguito ritornerà più volte nella discussione politica). Nel 1998, esauritasi rapidamente la fase nella quale la povertà sembrava ritornare come fenomeno post-materialistico, espressione della solitudine degli anziani nelle grandi città, la Commissione presieduta da Pierre Carniti richiamò l’attenzione sull’aumento dei working poor evidenziando un problema di bassi salari e protezione insufficiente delle famiglie dei lavoratori che mal si conciliava sia con la naturalizzazione della povertà sia con i successi rivendicati dalle organizzazioni politiche e sindacali che guardavano ai lavoratori dipendenti come principale base elettorale. Ciò generò quello che Brandolini definisce un “contrasto strisciante” con l’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi (cfr. Il dibattito sulla povertà in Italia tra statistica e politica, Banca d’Italia Occasional Papers, 2021), dando inizio ad un progressivo depotenziamento della commissione, continuato con il governo D’Alema. Alla fine nel 2012 il governo Monti ne decretò lo scioglimento, nel quadro della spending review, ma con scarsa lungimiranza politica perché proprio in quell’anno cominciavano a manifestarsi in tutta la loro portata gli effetti delle due crisi: la crisi finanziaria del 2007-2008 e quella della zona euro del 2011.

I tre momenti chiave richiamati – l’inchiesta del 1952 e il mancato accoglimento dei suoi risultati, l’insediamento della Commissione povertà e contestualmente la sua delegittimazione, infine il suo scioglimento – sono stati gravidi di conseguenze per l’oggi. In primo luogo si è impoverito il vocabolario del dibattito pubblico relativo alla rappresentazione dei poveri, dando luogo ad una sorta di marketing politico che ha rimpiazzato i soggetti con gli stereotipi. Ne è dimostrazione la lettera che Chiara Saraceno ha deciso di pubblicare sul Menabò nella quale in sostanza una giovane donna esprimeva gratitudine per le parole pronunciate dalla studiosa durante una trasmissione televisiva perché, per la prima volta, si è sentita “vista” per quello che realmente è: una persona che ha difficoltà a sbarcare il lunario.

In secondo luogo non si è consolidato un luogo istituzionale di dibattito (al di fuori cioè dell’accademia e degli istituti di ricerca) su che cosa debba considerarsi un livello accettabile di vita tenuto conto delle aspettative crescenti di benessere della popolazione italiana. Il processo di costruzione statistica del dato non è mai un atto neutrale, ma meno che mai lo è nel caso della povertà. Nell’idea dei bisogni che devono essere soddisfatti per non essere considerati poveri rientrano infatti non solo quelli legati alla sopravvivenza fisica – come essere ben nutrito o non soffrire il freddo – ma anche quelli di natura sociale, come la possibilità di partecipare alla vita della comunità, grazie ad esempio ad una buona istruzione, e di mantenere le basi del rispetto di sé, anche attraverso la possibilità di svolgere un lavoro dignitoso. Ciò era ben chiaro a chi per primo, come ad esempio Seebohm Rowntree all’inizio del Novecento, provò a comporre un elenco di ciò che era assolutamente necessario includendovi anche la possibilità di comprare bambole, biglie e dolciumi ai bambini o consumare una pinta di birra al pub dopo una dura giornata di lavoro. Da allora in poi cosa debba rientrare a far parte di questo paniere di beni essenziali è il risultato di una pluralità di voci (compresa quella dei poveri), che portano conoscenze e prospettive diverse e si combinano in quella convenzione statistica che chiamiamo soglia di povertà. Queste voci in Italia sono ridotte al silenzio o inascoltate.

Come ultimo punto va detto che, a seguito degli eventi citati, si è andata rafforzando l’idea che essere poveri sia una questione privata, frutto di sfortuna o anche di inettitudine, che non ha nulla a che fare con il nostro peculiare modello di sviluppo economico e di organizzazione della società e del modo in cui esso costruisce alcuni gruppi sociali o configurazioni familiari come svantaggiati (Saraceno, Benassi, Morlicchio, La povertà in Italia, Bologna, il Mulino, 2022).

Questa visione dei poveri come oziosi, diffusa per cinismo politico o per ignoranza dei fenomeni sociali, è all’origine della impronta di workfare data alla misura del Reddito di Cittadinanza. Sono stati gli stessi proponenti a ritenere di doversi difendere dall’accusa di dare soldi a chi non li merita introducendo le “norme antidivano”. Ma sono stati anche lasciati soli a difendere il provvedimento. Qui non è in discussione ciò che i giuristi definisco la “curvatura lavoristica” del Reddito di Cittadinanza, ma la visione irrealistica del mercato del lavoro e dell’agibilità delle Agenzie del lavoro che le norme antidivano riflettevano. Karl Polanyi, ad esempio, considerava un “nome improprio” (misnomer) il termine Poor Laws ricordando come di esse facevano parte lo Statute of artificers che riguardava i lavoratori agricoli e gli artigiani e norme sulla mobilità della manodopera come l’Act of settlement. Oliver Twist, che Dickens nel suo noto romanzo qualifica come parish boy, ovvero un povero assistito in uno ospizio, viene mandato a lavorare presso un fabbricatore di bare, a dimostrazione dell’intreccio strettissimo tra l’essere povero ed essere un apprendista.

E venendo ai nostri giorni personalmente ricordo molto bene come una delle motivazioni che spinse inizialmente molti giovani e disoccupati adulti meridionali a fare richiesta del Reddito di Cittadinanza fu proprio la speranza che, attraverso questo provvedimento, sarebbero stati in qualche modo avviati al lavoro. Perché da sempre l’aspirazione di chi è povero non è quella di trascorrere la vita su un morbido divano che neanche entra nella sua piccola o sopraffollata casa, ma di trovare un lavoro dignitoso o almeno di non finire reclutato dalle mafie come manovalanza sottopagata. È di qualche settimana fa la notizia di una intercettazione telefonica nella quale la mafia lamentava di non trovare più “picciriddi” a causa del Reddito di Cittadinanza. Se fosse confermata sarebbe un buon punto di partenza per una revisione migliorativa, non abrogativa, della misura.

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