ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 202/2023

31 Ottobre 2023

La differenza, le differenze

Jacques Derrida, partendo dalla constatazione che “il politico”, nell’attuale mondo al maschile, si fonda sulla distinzione fra amico e nemico e sulla priorità del nemico, evoca un mondo diverso, declinato anche al femminile. Danilo Di Matteo sostiene che il Pci e le donne comuniste negli anni ‘80, in pieno riflusso, mostrarono coraggio e lungimiranza nell’adottare una prospettiva complessa come quella della differenza sessuale, che prelude alla valorizzazione anche delle altre differenze come condizione per perseguire l’uguaglianza.

Dinanzi alla tragedia dei femminicidi e degli stupri, si riapre il grande tema della differenza sessuale. Una questione, a me sembra, che si estende al genere e, più in generale, alle differenze, al plurale, fra gli umani. Proviamo a comprendere meglio.

Fra le madri e i padri del pensiero della differenza vi è senza dubbio Jacques Derrida, autore avvincente e, insieme, assai complesso. Lo studio del suo capolavoro Politiche dell’amicizia, tra l’altro, ci pone dinanzi proprio a una delle radici della riflessione al femminile. Il politico(inteso come la dimensione politica della storia e della cronaca), quello, in particolare, di cui si occupa il giurista e filosofo Carl Schmitt, si nutre dell’idea del “nemico pubblico, politico”, appunto, l’hostis dei latini, ben distinto dall’inimicus, il “nemico privato”, il rivale. È a partire da tale “nemico collettivo” che si definisce “l’amico”, il campo degli “amici”. Da qui una sorta di priorità del “nemico”, rispetto all’ “amico”. E un attributo di tale “nemico” sarebbe la “possibilità reale” della sua eliminazione fisica (e dunque della guerra). Ecco, nella riflessione schmittiana non compaiono mai “la nemica” o “l’amica”. 

Da qui l’idea di Derrida che la priorità dell’hostis caratterizzi un mondo al maschile. E se l’irruzione nella storia, nella “grande storia”, delle donne mutasse un quadro del genere?, egli si chiede. Come porsi al cospetto dell’attuale idea del politico tutta al maschile? Due sono le risposte possibili: o prendere atto che non “si può combattere questa struttura che portandosi al di là del politico, del nome ‘politica’, e forgiando altri concetti”, “per una diversa mobilitazione”, oppure “conservare il ‘vecchio nome’, analizzare altrimenti la logica e la topica del concetto, e impegnarsi in altre forme di lotta”. Ma subito dopo il filosofo franco-algerino individua una terza eventualità, e la sente sua: “la decisione consisterebbe, una volta ancora, nel rilanciare senza escludere, nell’inventare altri nomi e altri concetti, nel portarsi al di là di questo politico senza smettere di intervenirvi per trasformarlo”.

Più in generale, è nota la disputa medievale sugli universali: i “generi” e le “specie” sono solo suoni emessi dalle nostre bocche, nomi convenzionali o esistono realmente? Varie le soluzioni proposte, dalle più moderate alle radicali. Ecco, analogamente, possiamo chiederci, vi è solo un universale volto a indicare tutti gli umani, oppure gli universali sono due, il maschile e il femminile?

Un pensiero complesso, dicevamo. Come complesso è il pensiero della differenza delle grandi autrici, quali Luce Irigaray, nutrita di filosofia, psicoanalisi, linguistica, politologia, teologia e altro ancora. Ecco – qui si situa un merito formidabile del Pci –, tali idee hanno rappresentato l’humus per le elaborazioni culturali e politiche delle donne comuniste, per giunta nel pieno del riflusso degli anni Ottanta. Quando “l’edonismo reaganiano” e il rifugio nel “particulare” sembravano tanto forti da soffocare o spazzar via ogni anelito di cambiamento e di liberazione. Credo che ancora non ci si soffermi abbastanza sul merito storico delle donne legate al Pci nel tradurre un pensiero “difficile” in fenomeno di massa, tale da coinvolgere milioni di persone. 

Per analogia, e dunque con tutte le profonde differenze del caso, ciò ricorda quel che annotava Antonio Gramsci a proposito del Rinascimento e della Riforma di Lutero e Calvino. In Italia, per tanti versi culla del Rinascimento, tale fenomeno durò poco (il celebre “Rinascimento strozzato”) e riguardò per lo più le élite. Altrove, grazie soprattutto, appunto, alla Riforma, divenne “di massa”. 

Non è difficile intuire, qui giunti, il valore del volumetto di Livia Turco Compagne. Una storia al femminile del Partito comunista italiano. Anche grazie a quella storia, la storia, quella di tutti, non si è arenata nelle secche dell’impotenza e della resa dei principi di libertà, giustizia, riconoscimento e valorizzazione delle differenze.

Liberazione, dunque, accanto all’emancipazione. Come dire: parità e riconoscimento della differenza, superamento di vecchi stereotipi e inclusione piena. Inclusione sì; che non significhi, tuttavia, sottomissione all’universo maschile, alle pratiche e all’immaginario patriarcale plurisecolare. Bensì evento di libertà, liberazione per milioni di donne e di uomini da vincoli e limiti millenari. È proprio al crocevia tra parità e differenza che le donne comuniste e, negli anni Ottanta, l’intero Pci pongono la questione femminile. Un Pci in declino, prossimo alla resa, getta i semi per quella “rivoluzione pacifica fra i sessi”, come direbbe Irigaray, tuttora aperta. A riprova che non è mai troppo tardi per lottare e per provare a superare l’esistente.

Già, il tema della differenza come espressione di una tensione critica con l’esistente. Lungo il solco di ciò che scrissero Marx ed Engels ne L’ideologia tedesca definendo comunista quel movimento che si pone contro lo stato di cose presente: non un approdo, bensì un processo di cambiamento, rivoluzionario. Non la favola della notte di Natale, ma, al contrario, ciò che incide sulla realtà e sulle condizioni materiali di vita di milioni di persone. Si tratta poi di una concezione così distante dal “movimento è tutto, il fine è nulla” del socialdemocratico Eduard Bernstein, dall’idea, cioè, che quel che conta è il quotidiano processo di cambiamento e di riforme, assai più di un progetto a tavolino della società perfetta?

E in tale movimento si pongono l’azione e il pensiero radicalmente riformatori delle donne, di milioni e miliardi di donne (e di uomini che lottano accanto a loro) su questo nostro globo. Come situare, tuttavia, in tale contesto il gender, l’idea, variamente declinata, che i generi – maschile e femminile – siano fluidi, non assegnati alla nascita, mutevoli, fino a sembrare interscambiabili? Provvisoriamente potremmo dire che l’affermazione per la quale sesso e genere siano irrelati corrisponde ad affermare, di notte, che tutte le vacche sono nere (o che, nere o bianche che siano, non fa differenza). Siamo così, di nuovo, alla sostanziale negazione della differenza. D’altro canto, il sesso non può, non deve essere concepito e vissuto come una gabbia o una prigione. Pur nella consapevolezza dei vincoli biologici, vi sono margini di libertà e di fluttuazione; ci è dato ritagliarli o conquistarli. Non nella sola biologia consiste la nostra esistenza. 

Generi a parte, è opportuno parlare di differenza, al singolare, o di differenze? Sicuramente la differenza sessuale funge da apripista per il riconoscimento e la valorizzazione di una pluralità di differenze. Se ci battessimo solo per l’eguaglianza, la genetica, ad esempio, starebbe lì, pronta a mortificare e vanificare la nostra lotta. E più le condizioni sociali di partenza si fanno eque ed equilibrate, più sono pronte a far capolino le “ingiustizie” genetiche. Ma il punto di forza dell’evoluzione delle specie consiste proprio nella varietà. Nelle differenze, dunque. 

E qui il “darwinismo”, nell’accezione più alta, sembra congiungersi con il sogno marxiano di una cosa, di un mondo di liberi e di uguali, nel quale davvero il libero sviluppo di ciascuno sia condizione per il libero sviluppo di tutti (la “corrente calda” del pensiero marxista, direbbe Salvatore Veca). Libero sviluppo in grado di promuovere uguaglianza nella valorizzazione delle differenze.

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