ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 202/2023

31 Ottobre 2023

Politiche economiche e realtà

Civil Servant ritiene che il dibattito sulle nuove regole fiscali europee sottovaluti gli effetti negativi del surplus di bilancio sul Pil, riconosciuti perfino dal FMI, e trascuri il fatto che per raggiungere gli obiettivi desiderati è necessario disporre di un adeguato numero di strumenti di politica economica, soprattutto quando manca un coordinamento tra i paesi come nel caso dell’Eurozona. Civil Servant sostiene che, pragmaticamente, bisogna tener conto dei trade-off tra i diversi obiettivi che una buona politica economica dovrebbe perseguire.

“In media, il consolidamento fiscale non riduce il rapporto tra debito e Pil”: lo scrive il Fondo Monetario Internazionale per sintetizzare il contenuto del grafico 3.3, nel cap. 3 del suo “World Economic Outlook” dello scorso aprile, interamente dedicato al debito pubblico. Il Fondo precisa che si tratta di un risultato valido anche sul lungo periodo e fondato su una vasta e consolidata letteratura empirica. In passato, anche la Commissione Europea aveva accennato timidamente a qualcosa di simile, ma mai così esplicitamente. Eppure non sembra esservi traccia di simili considerazioni nel dibattito sulla riforma delle regole fiscali scolpite nel Trattato di Maastricht una trentina di anni fa, riviste in senso restrittivo nel 2011 col Patto di Stabilità e Crescita e sospese da marzo del 2020 alla fine di quest’anno per far fronte agli effetti della pandemia.

Il Fondo riconosce che l’austerità fiscale porta ad una riduzione del rapporto tra debito e Pil solo sotto particolari condizioni, che tuttavia non sembrano essersi verificate dagli anni ottanta in poi, specialmente nelle economie avanzate. Il motivo di questo risultato (previsto dai keynesiani da quasi un secolo e ribadito anche da Mario Nuti qualche anno fa) è che una politica fiscale restrittiva riesce probabilmente a frenare il debito, ma taglia anche la crescita del Pil nominale. Il bilancio tra questi due effetti è generalmente sfavorevole e rischia di trascinare l’economia in un circolo vizioso in cui le politiche fiscali restrittive frenano la dinamica del Pil, che a sua volta erode le entrate tributarie, richiedendo quindi ulteriori tagli alla spesa per garantire un avanzo di bilancio. Con le sue analisi, il Fondo Monetario ha abbandonato la retorica della “austerità espansiva”, ammettendo che questa spirale recessiva non viene invertita da un eventuale aumento della spesa privata favorita dalla riduzione della pressione fiscale (anche in prospettiva), dalla liberazione di risorse per il finanziamento dei consumi delle famiglie e degli investimenti delle imprese, o dalla maggiore fiducia dei mercati.

Senza entrare nel dibattito teorico e nelle numerose verifiche empiriche del presunto “spiazzamento” della spesa privata ad opera di quella pubblica, anche i dati storici sul periodo che va dalla diffusione del Covid alla sua sostanziale remissione (2020-2023) sembrano smentire questa congettura. Tale periodo risulta infatti caratterizzato da disavanzi senza precedenti e, a sorpresa, da una riduzione del rapporto tra debito e Pil in quasi tutti i paesi, anche se si tiene conto che, a causa della pandemia, nel 2020 il Pil nominale ha subito ovunque un crollo mai registrato dal dopoguerra (-4,4% nella media dell’Eurozona) che ha determinato una impennata del debito relativo. Come si vede dalla tabella 1, nell’Unione il deficit cumulato tra il 2020 e il 2023 è stato in media del 18%, mentre il debito è migliorato di oltre 8 punti percentuali (riassorbendo buona parte dei 12,4 punti “guadagnati” nel solo 2020). 

Tabella 1: Deficit e debito a cavallo della pandemia

(medie 2020-2023)

Fonte: elaborazioni su database AMECO della Commissione Europea. 

Stime della Commissione per il 2023.

Nei tre paesi a più alto debito, a fronte di un deficit cumulato di oltre il 20% in media, il debito è sceso di quasi 30 punti, con un record di 46 punti in Grecia. Nei paesi “virtuosi”, tutti con un rapporto tra deficit e Pil inferiore al 70% prima della pandemia, un deficit cumulato di 14 punti di Pil ha fatto migliorare il debito di quasi 6 punti. Non si erano mai visti progressi simili negli anni in cui erano state applicate le regole del Patto di stabilità. Tra l’altro, il deficit è stato accumulato soprattutto per far fronte alla spesa sanitaria corrente, contrariamente alla narrativa sui benefici della sola spesa pubblica per investimenti.

L’aritmetica del debito e del deficit. Dietro questi risultati ci sono, prima di tutto, una convenzione statistica ed un elementare principio di aritmetica. Secondo le regole della contabilità nazionale, infatti, qualsiasi disavanzo nei conti determinato da consumi collettivi o investimenti pubblici si traduce in un equivalente aumento del Pil nominale. Non importa se questa variazione sia dovuta ad un aumento del volume fisico della domanda, oppure solo da un incremento dei prezzi (come è accaduto, in parte, nel caso dei bonus edilizi). E non importa neanche se il deficit ha effetti moltiplicativi sul Pil. 

A questo punto entra in gioco l’aritmetica: se il rapporto tra debito e Pil era già superiore al 100%, è facile verificare che un aumento nella stessa misura dello stock di debito e dell’ammontare del Pil, causato dal disavanzo, fa diminuire il rapporto invece di accrescerlo. Ad esempio, se inizialmente il debito ammonta a 1001 miliardi di euro (compresi gli interessi che dovranno essere pagati durante l’anno in corso) ed il Pil a 1000 miliardi, il rapporto è pari a 100,1%. Se aggiungiamo un miliardo di deficit sia al debito che (per motivi prettamente contabili) al Pil il rapporto diventa (1001+1)/(1000+1) = 100,0999%, che è inferiore, seppure di poco, a quello iniziale. 

A rigore, questo “miracolo” si verifica quando il rapporto supera leggermente il 100% perché occorre tener conto anche degli interessi sull’ulteriore debito accumulato, ma si tratta di pochi centesimi di punto perfino per un paese come il nostro che paga in media il 3% l’anno sul proprio debito. La stessa soglia si sposta al di sopra del 100% se si immagina che il deficit scoraggi in qualche misura la spesa privata. Ad esempio, non è difficile mostrare che il rapporto iniziale dovrebbe superare il 133,3% se lo “spiazzamento” di consumi e investimenti privati fosse pari ad un quarto del deficit, che è un valore elevatissimo a meno di ipotizzare forti strozzature sul lato dell’offerta (che rendono plausibile un razionamento della domanda privata a fronte di una spesa pubblica in deficit) e famiglie ed imprese talmente lungimiranti (ricardiane) da risparmiare in vista delle tasse future necessarie a finanziare l’ulteriore debito. 

Se invece il deficit ha un minimo effetto moltiplicativo sul Pil nominale (non necessariamente su quello reale), allora la soglia al di sopra della quale l’austerità diventa controproducente si abbassa. Per esempio, un moltiplicatore pari ad 1,2 (ossia con effetti nominali indotti dall’impulso fiscale dell’ordine di appena il 20%) abbasserebbe il rapporto critico all’83,3%. Al di sopra di queste soglie una politica fiscale restrittiva diventa semplicemente controproducente. Risultati simili sono noti da tempo con riferimento al valore dei moltiplicatori reali, ossia quelli calcolati tra spesa pubblica e Pil valutati al netto della variazione dei prezzi. Il Fondo Monetario si è limitato solo a considerare correttamente gli effetti del deficit sul Pil a prezzi correnti. 

Politiche economiche e fisica. A dispetto delle convenzioni statistiche, dell’aritmetica, e della teoria economica, le regole fiscali europee continuano a dare per scontato che l’austerità fiscale è l’unico modo per far scendere il debito sotto al 60% del Pil, perché un avanzo di bilancio riduce il debito ma non intacca il Pil. Anche ammettendo che questa congettura sia verosimile, vedremo tra breve che le regole europee sembrano andare anche contro le leggi della fisica.

Il vecchio Patto esigeva che i governi nazionali raggiungessero almeno due obiettivi (un deficit sotto il 3% del Pil, un debito sotto il 60%, seppure con molte e contorte eccezioni). utilizzando sostanzialmente un solo strumento, ossia il saldo di bilancio. Secondo le nuove regole, il 60% ed il 3% dovrebbero trasformarsi da obiettivi a soglie critiche oltre le quali le regole fiscali diventano più restrittive, come i limiti di velocità. E per evitare sanzioni è necessario impegnarsi a regolare la spesa pubblica, invece del saldo di bilancio. Tuttavia, il premio Nobel Jan Tinbergen,almeno mezzo secolo fa, aveva dimostrato che non è materialmente possibile raggiungere contemporaneamente tutti i traguardi desiderati se non si manovrano in modo coordinato almeno altrettanti strumenti di politica economica. In base a questo criterio, un sistema economico con molti obiettivi nazionali, politiche fiscali incoerenti (e potenzialmente in contrasto) tra loro e la leva monetaria nelle mani di una istituzione indipendente risulta sostanzialmente ingovernabile.

Le cose si fanno ancora più difficili se ai target di Maastricht aggiungiamo obiettivi altrettanto rilevanti che rientrano tipicamente tra le competenze dei governi nazionali, come il tasso di crescita, l’occupazione, l’equità sociale, adeguati livelli di welfare e l’equilibrio dei conti con l’estero. Molti di questi target sono in contrasto tra loro e con quelli di Maastricht e quasi tutti gli strumenti di politica economica hanno su di essi effetti opposti. Ad esempio, crescita e occupazione tendono a far aumentare i prezzi e a peggiorare la bilancia commerciale con l’estero; l’equità e il welfare richiedono un elevato ammontare di spesa pubblica, a prescindere dall’andamento delle entrate; una politica monetaria restrittiva frena l’inflazione ma anche la crescita; ecc.

E qui entra in gioco la fisica (disciplina nella quale Tinbergen era laureato), perché la sua regola non è altro che la trasposizione in economia della necessità di utilizzare almeno tante forze indipendenti quante sono le dimensioni lungo cui si vuole spostare a piacimento un corpo. Ad esempio, per manovrare una teleferica, che può andare solo avanti e indietro lungo un cavo, è necessario soltanto un regolatore di velocità. Un’automobile, invece, ha bisogno anche di uno sterzo che le consente di girare a destra e sinistra. Un aereo, che può cambiare altitudine, deve avere anche dei timoni di quota. In tutti i casi, freni, cambi di velocità e altro aiutano a guidare meglio; invece, le regole attuali sembrano richiedere ai governi nazionali di guidare auto senza volante ed aerei con i soli timoni di direzione, mentre la BCE muove liberamente altri comandi.

Un compromesso storico. Se non si hanno tutti gli strumenti necessari si deve accettare qualche compromesso tra i diversi obiettivi. Ad esempio, un pilota può certamente cambiare quota senza usare i timoni, regolando solo la velocità dell’aereo, ma così deve rinunciare a rispettare la tabella di volo (e rischia lo stallo). Sarebbe dunque più saggio accontentarsi di minimizzare gli scostamenti delle diverse grandezze rispetto ai corrispondenti target, senza pretendere di centrali tutti contemporaneamente. La revisione delle regole fiscali e la lotta ad una ondata inflazionistica molto diversa dalle precedenti potrebbero essere l’occasione per cambiare approccio. Basterebbe prendere sul serio proprio i modelli teorici su cui si basano le politiche attuali, che prevedono consumatori e imprenditori che massimizzano funzioni di utilità intertemporali mediando tra le diverse esigenze. Anche loro si prefiggono degli obiettivi ideali, ma sono disposti pragmaticamente a scendere a compromessi. Non si capisce perché i governi e le banche centrali dovrebbero restare gli unici soggetti intransigenti e irremovibili tra tanti agenti fluidi e flessibili. 

Senza stravolgere l’impianto dei Trattati, si potrebbe decidere, ad esempio, quanto Pil e quanta occupazione si è disposti a perdere in cambio di una riduzione di un punto del debito e dell’inflazione. Naturalmente questo trade-off tra target diversi sarebbe il frutto di una decisione politica, e non puramente tecnica. Infatti, i policy maker hanno differenti sensibilità verso i vari obiettivi di politica economica e le loro preferenze possono anche cambiare nel tempo, a differenza dei parametri di Maastricht fissati una volta per tutte. Gli attuali criteri resterebbero i punti di riferimento di lungo periodo, ma non ostacolerebbero l’avvicinamento a tutti gli altri obiettivi degni di essere perseguiti.

Oggi i rapporti di scambio tra i diversi obiettivi sono fissati a zero, ma si tratta di una scelta poco pragmatica, ispirata alla discutibile tesi che i fenomeni economici siano sostanzialmente indipendenti tra loro e quindi possano essere governati senza tener conto delle reciproche interazioni. Perfino la BCE, che è una istituzione prevalentemente tecnica e senza responsabilità su crescita, occupazione e altro, ha dimostrato maggiore elasticità, perché tollera da tempo una inflazione ben superiore al limite del 2% in cambio di un atterraggio morbido del livello di attività economica. Forse sarebbe ora che anche la Commissione Europea accettasse un compromesso (davvero storico) tra i diversi obiettivi di politica economica, invece di inseguire valori iscritti nel bronzo quando internet era agli albori e non c’erano ancora smartphone, crisi finanziarie globali, pandemie e guerre alle porte. Sempre per ricercare il migliore compromesso tra diverse esigenze, non sarebbe male riconsiderare il muro invalicabile costruito tra governi e Banca centrale (a parte le brecce aperte da Draghi), che sottrae preziosi strumenti alle politiche economiche nazionali ed europee. 

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