ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 202/2023

31 Ottobre 2023

Le lezioni dell’inflazione per la politica economica

Francesco Saraceno mette in discussione il luogo comune secondo cui l'inflazione può e deve essere contrastata solo con la politica monetaria e sostiene che, soprattutto quando l'inflazione ha radici in squilibri dal lato dell'offerta, come è accaduto con (e dopo) il Covid e con la guerra in Ucraina, bisogna andare "oltre le banche centrali", come recita il titolo del suo ultimo libro. Ciò che occorre, in questi casi, è un insieme ben disegnato di strumenti di politica economica, tra loro coordinati.

Dopo la crisi finanziaria globale, quella del credito sovrano e la pandemia, quest’epoca turbolenta ci ha portato in dote l’inflazione dell’ultimo biennio, un fenomeno che le generazioni nate dopo il 1970 non avevano mai sperimentato; anzi, gli anni Duemila Dieci sono stati caratterizzati da una difficile lotta delle banche centrali contro la tendenza deflazionistica dell’economia.

Un’inflazione strutturale. L’inflazione ha iniziato ad aumentare nell’estate del 2021. Dopo i lockdown si è assistito ad una ripresa robusta di consumi e investimenti mentre in molti settori l’offerta, disarticolata dalla pandemia, stentava a ripartire. A complicare le cose, la composizione settoriale della domanda è stata fortemente alterata (a oggi non è chiaro in che misura questa ricomposizione sia permanente). Alcuni settori si sono dunque trovati a sperimentare eccessi di domanda e altri eccessi di offerta. L’aumento dei prezzi dell’energia è poi stato amplificato da fattori geopolitici, in primis l’invasione dell’Ucraina.

L’episodio inflazionistico recente è un fenomeno multiforme, insomma, causato da una combinazione di trasformazioni nella struttura dell’economia, shock economici e geopolitici; è un’inflazione insidiosa, quindi, e difficile da afferrare. Forse anche per questo la discussione su come affrontarla ha girato al largo dalle cause strutturali per aderire ad un’interpretazione molto più semplice e in qualche modo rassicurante: richiamando una vecchia massima del monetarista premio Nobel Milton Friedman, commentatori ed economisti hanno affermato che l’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario. Ma se l’inflazione è esclusivamente “troppa moneta a caccia di troppi pochi beni”, ne consegue che essa non può che essere affrontata dalla politica monetaria, che deve riuscire a drenare la liquidità in eccesso. Non è questa la sede per affrontare in dettaglio le ragioni e i limiti di questa narrazione (lo faccio in Oltre le banche centraliappena uscito per Luiss University Press). Qui basti dire che, coerentemente con l’interpretazione monetarista, dopo una encomiabile iniziale prudenza, le banche centrali si sono lanciate nella primavera del 2022 in una corsa alla restrizione che da noi in Europa ha portato i tassi di interesse ai massimi storici.

Il ritorno di un paradigma malconcio. La virata delle banche centrali (e di molti commentatori ed economisti) è in qualche modo sorprendente. La crisi finanziaria globale del 2007-2008 ha infatti mostrato i limiti della visione, di cui l’enfasi sul carattere monetario dell’inflazione è uno degli elementi chiave, per cui i mercati sono il motore della convergenza verso l’equilibrio detto “naturale” e per cui lo strumento principale della politica economica sono le riforme strutturali volte ad eliminare gli ostacoli al funzionamento dei mercati stessi. Dopo la crisi, economisti e decisori politici hanno iniziato ad interrogarsi sulla solidità delle fondamenta teoriche del consenso. Dopo oltre trent’anni di enfasi sulla supremazia dei mercati nel garantire l’allocazione delle risorse, la crescita e l’innovazione, si è avviato un dibattito a tutto campo sulla necessità di rivalutare il ruolo della mano pubblica nel regolare il ciclo economico, nel regolamentare i mercati e nel correggerne le inefficienze. Il dibattito non risparmia nessun dogma del consenso, dalla politica industriale alla distribuzione del reddito, dalla tassazione al ruolo e alla natura delle riforme “strutturali”.

Gli ultimi tre lustri hanno insomma segnato il “Ritorno dello Stato”, in particolare delle politiche di bilancio. Questo ritorno si articola in tre fasi: all’inizio, in reazione alla crisi finanziaria, politiche di stabilizzazione keynesiane. Poi l’attenzione si sposta sulla necessità di rinnovare uno stock di capitale deteriorato dopo tre decenni di investimenti pubblici sottotono. Infine, con la pandemia emerge in modo lampante l’insufficienza di beni pubblici globali (sanità e istruzione ad esempio) per i quali non si può contare sui soli mercati. È quindi in qualche modo sorprendente la rapidità con cui questo dibattito è stato messo da parte per tornare, in Europa come negli Stati Uniti, a predicare da un lato la restrizione monetaria per combattere l’inflazione; dall’altro, la riduzione del debito pubblico che, come nel consenso precedente al 2007, è visto come un ostacolo all’operare di mercati supposti efficienti.

E se non fosse la politica monetaria lo strumento adatto a combattere l’inflazione? Nell’autunno scorso l’inflazione ha iniziato a calare, spingendo alcuni a esultare e a lodare le banche centrali finalmente rinsavite. In realtà il calo dell’inflazione è stato esclusivamente dovuto al venir meno dei fattori strutturali: i colli di bottiglia si sono riassorbiti, i prezzi dell’energia sono calati, le catene del valore si sono riorganizzate. La politica monetaria non ha giocato alcun ruolo. La letteratura empirica è infatti concorde nello stimare i ritardi di trasmissione (il tempo che deve trascorrere perché variazioni dei tassi inizino a farsi sentire su inflazione e crescita) in 12-18 mesi almeno. Detto altrimenti, le politiche monetarie restrittive iniziano a mordere solo ora. Non è un caso che le previsioni di crescita per molte economie avanzate siano nelle settimane scorse state riviste al ribasso.

Chi difende la stretta monetaria argomenta che, indipendentemente dalla natura dell’inflazione e dai ritardi di trasmissione, lasciar correre i prezzi può innescare aspettative di inflazione futura e una spirale prezzi-salari. Questo argomento non ha molto fondamento: infatti, non siamo negli anni Settanta, e i salari non si adeguano rapidamente all’inflazione. Inoltre, i mercati, mostrando di essere molto più lungimiranti di molti economisti, non hanno mai pensato che l’inflazione potesse persistere una volta venuti meno i fattori contingenti che l’avevano causata; anche quando si era ai massimi, nell’autunno 2022, le aspettative di inflazione a medio termine non sono aumentate significativamente.

Ben più robusto è il secondo argomento in favore della restrizione: l’aumento dei tassi raffredda la domanda e quindi riporta comunque l’inflazione sotto controllo, indipendentemente dalla sua natura. Questo è certamente vero. Ora che l’aumento dei tassi inizia a mordere si vede l’impatto negativo sulla domanda che, inevitabilmente, eserciterà una pressione al ribasso sui prezzi. Tuttavia, il rischio (la quasi certezza, in realtà) è che il costo della restrizione monetaria in termini di crescita si riveli eccessivo. È come se si usasse una clava per schiacciare un moscerino. Certo, l’insetto finirebbe male, ma sicuramente verrebbe rovinata anche la parete su cui era poggiato. Molti commentatori, come è logico, si concentrano sui rischi di recessione dei prossimi mesi. Pochi sottolineano i costi, ben maggiori, che rischiano di materializzarsi nel lungo periodo.

Non danneggiare l’investimento nella congiuntura attuale. L’aumento dei tassi, infatti, riduce l’investimento che non è solo domanda corrente di beni e servizi, ma anche costruzione della capacità produttiva futura. Minori investimenti oggi, insomma, significano minore accumulazione e minore capacità di produrre domani.

Dopo la crisi del 2008 l’investimento è rimasto stagnante per più di un decennio, per ripartire con vigore solo dopo la pandemia. È fondamentale che questo rimbalzo non sia soffocato, perché per ricostituire uno stock di capitale (pubblico e privato) eroso da anni di insufficiente accumulazione serve un lungo periodo di investimenti sostenuti. Inoltre, se si considerano i bisogni legati alla transizione ecologica, non ci si potrà limitare a ricostituire lo stock di capitale passato. Non solo perché le nuove tecnologie hanno un’alta intensità di capitale; ma anche perché molte delle energie rinnovabili hanno altissimi costi di installazione e bassi costi di funzionamento, per cui i bisogni di finanziamento saranno particolarmente elevati nel breve-medio periodo.

Infine, un investimento insufficiente potrebbe ostacolare la ricomposizione settoriale della produzione. Il cambiamento delle abitudini di consumo causato dalla pandemia e i cambiamenti strutturali legati alle transizioni ecologica e digitale, necessitano un’importante riallocazione del capitale tra settori. Il capitale non è fungibile e la riallocazione implicherà distruzione di capacità produttiva in alcuni settori e costruzione in altri. Per favorire questa ricomposizione, dunque, saranno necessari investimenti importanti. 

Nel 2013 l’economista di Harvard Dani Rodrik criticò la scelta di imporre alla Grecia riforme e austerità simultaneamente: in condizioni normali, sosteneva Rodrik, le riforme rendono più facile la distruzione di risorse in settori meno produttivi e la creazione in settori ad alto valore aggiunto. In un contesto di crescita stagnante la domanda per i settori più dinamici potrebbe non essere sufficiente ad indurre le imprese a investire, per cui le risorse distrutte nei settori meno produttivi potrebbero non essere ricreate altrove e gli effetti positivi delle riforme sulla produttività potrebbero non materializzarsi. In questo frangente siamo in un caso analogo: comprimendo la domanda globale in un momento in cui per motivi contingenti (la riorganizzazione post pandemica) e strutturali (la transizione ecologica) il bisogno per l’economia di riallocazioni settoriali è particolarmente acuto, le banche centrali rischiano di ostacolare le trasformazioni strutturali necessarie per una crescita robusta e sostenibile.

Meno inflazione oggi per più inflazione domani? Non si tratta di considerazioni astratte. Due economisti della Federal Reserve di San Francisco hanno recentemente studiato decine di episodi di restrizione monetaria nei paesi avanzati, trovando un impatto negativo e significativo sulla crescita potenziale ancora dieci anni dopo l’aumento dei tassi. Un effetto, peraltro, non simmetrico: la restrizione danneggia la crescita potenziale ma politiche espansive non la stimolano. Un altro lavoro, presentato al simposio annuale dei banchieri centrali di Jackson Hole nell’agosto scorso, mostra che l’aumento dei tassi riduce la domanda aggregata, e la profittabilità degli investimenti; per questa via, questo influenza negativamente la spesa per Ricerca e Sviluppo, l’investimento in venture capital, e quindi la crescita potenziale

Insomma, una restrizione monetaria eccessiva rischia non soltanto di rallentare la crescita nel breve periodo, ma anche di comprimere la capacità produttiva nel lungo periodo e di ostacolare la riorganizzazione settoriale, perpetuando i colli di bottiglia. Inoltre, ostacolando la transizione verso le rinnovabili, l’aumento dei tassi rischia di tenere alti i prezzi a causa del mancato abbandono delle energie fossili. È insomma reale il rischio che la lotta all’inflazione di oggi sia pagata con un’inflazione più elevata domani.

Sfide multiformi richiedono una pluralità di strumenti. Cosa andrebbe fatto, allora? Come notato sopra, il tasso di inflazione aggregato nasconde molteplici situazioni di eccesso di domanda e di offerta a livello settoriale che hanno radici diverse e richiedono misure di contrasto diverse. Parafrasando Milton Friedman si potrebbe affermare che ‘l’inflazione non è quasi mai un fenomeno monetario’. Alla clava della politica monetaria, che con i tassi di interesse impatta tutti i settori allo stesso modo, si dovrebbe preferire il fioretto della politica di bilancio che può operare in maniera più mirata (e non necessariamente aumentando il deficit): controlli di prezzo temporanei nei settori meno concorrenziali e in cui ci sono rendite di posizione, incentivi dove i colli di bottiglia sono dovuti a capacità produttiva insufficiente, politiche attive del lavoro quando il problema è l’offerta di manodopera, sostegno ai redditi per coloro più colpiti dall’inflazione, e via di seguito. 

La lezione di questi ultimi quindici anni sembra insomma evidente. Per fronteggiare problemi multiformi e con cause diverse si deve abbandonare il vecchio principio per cui ad ogni obiettivo deve associare uno strumento e optare invece per un policy mix più complesso ma più efficace.

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