ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 202/2023

31 Ottobre 2023

Stefano Sacchi, Andrea Ciarini, Giovanni Gallo, Rosangela Lodigiani, Franca Maino, Michele Raitano,

Dal Reddito di Cittadinanza all’Assegno di Inclusione: un contributo alla riflessione*

Stefano Sacchi, Andrea Ciarini, Giovanni Gallo, Rosangela Lodigiani, Franca Maino e Michele Raitano hanno recentemente curato il volume Sostegno ai poveri: quale riforma?, in cui, anche alla luce della loro esperienza come membri del Comitato Scientifico dell’Alleanza contro la povertà in Italia, riflettono su potenzialità e limiti del Reddito di Cittadinanza e sulle caratteristiche che avrebbe dovuto avere una riforma – basata sul principio dell’universalismo selettivo – diretta effettivamente a superare tali limiti.

Poche prestazioni sociali in Italia sono state e sono tuttora oggetto di aspri scontri, anche ideologici, quanto il Reddito di Cittadinanza (RdC), misura bandiera del Movimento 5 Stelle. Dalla sua introduzione nel 2019 sino alla riforma di maggio 2023 promossa dal governo Meloni, che ha sostituito il RdC con due nuovi strumenti, l’Assegno di Inclusione (ADI) e il Supporto per la Formazione e il Lavoro (SFL), il dibattito è stato fortemente polarizzato. Da un lato, chi riteneva di poter abolire la povertà per decreto, presentando peraltro all’opinione pubblica uno schema di reddito minimo in primo luogo come una misura contro la disoccupazione. Dall’altro, pur a fronte del forte aumento delle disuguaglianze di mercato e del rischio di povertà nell’ultimo decennio, chi si opponeva a interventi generalizzati temendo che questi potessero generare effetti negativi sul comportamento dei beneficiari, e in particolare sulla loro propensione ad attivarsi e cercare un’occupazione regolare. Alla retorica del RdC come panacea contro tutti i mali del welfare italiano si è contrapposta quella di una misura che incentiva l’ozio, facile preda dei furbetti quando non delle organizzazioni criminali. Tutto ciò non ha favorito un dibattito razionale, basato su evidenze empiriche. 

Il volume, la cui introduzione qui sintetizziamo, mostra che uno schema universalistico di reddito minimo come il RdC, che non segmenta la popolazione tra categorie di appartenenza (basate, per esempio, sulle caratteristiche dei componenti del nucleo familiare o sul loro status occupazionale), costituisce un tassello importante del sistema di protezione sociale italiano. Uno schema di questo genere, ispirato al principio dell’universalismo selettivo (cioè rivolto a tutti quanti si trovino in condizioni di bisogno per l’insufficienza delle risorse economiche, indipendentemente da altre caratteristiche individuali o della famiglia) contribuisce ad assolvere una funzione fondamentale in un moderno e compiuto sistema di welfare: il contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, anche attraverso l’attivazione e la capacitazione dei suoi beneficiari, così tutelando anche gli individui e le famiglie non raggiunti dagli schemi di assicurazione sociale (come le pensioni o le indennità di disoccupazione). Allo stesso tempo, così come era disegnato, il RdC mostrava limiti in termini di equità ed efficienza, e doveva certamente essere modificato lungo molte direzioni, inclusa quella dei meccanismi della governance e dell’implementazione nei territori.

La domanda che a questo punto si pone è: la riforma introdotta dal governo Meloni va nella direzione di superare i limiti e correggere gli errori di disegno e attuazione del RdC? La nuova misura di contrasto alla povertà, l’ADI, assieme all’indennità di partecipazione a misure di politica attiva, il SFL, funzionerà oppure la riforma creerà semplicemente nuovi e forse più gravi problemi?

Per formulare un giudizio sulla riforma Meloni, valutandone i pro e i contro e la sua probabile efficacia, occorre partire da un’analisi sistematica delle caratteristiche e dei limiti principali del RdC. Questo è lo scopo del volume, che affronta i diversi nodi critici emersi nel corso della pur breve implementazione del RdC, nel quadro delle esperienze pregresse e dei tentativi, già a partire dalla fine del secolo scorso, di introdurre in Italia uno schema di reddito minimo garantito legato a percorsi di inclusione sociale e lavorativa, sulla scorta delle omologhe esperienze europee.

Dietro l’impulso di varie commissioni di esperti, negli ultimi 25 anni sono state infatti introdotte alcune sperimentazioni che però spesso fissavano requisiti ulteriori rispetto al solo bisogno economico (tipicamente, la presenza di figli minori). Il primo esempio di schema non categoriale di contrasto alla povertà, il Reddito Minimo di Inserimento, fu sperimentato in alcuni comuni a partire dalla fine degli anni Novanta, senza essere mai esteso a tutto il territorio nazionale. Solo a luglio del 2018 si affermò in modo definitivo uno schema universalistico e non categoriale con l’eliminazione dei vincoli categoriali di accesso al Reddito di Inclusione (REI), introdotto nel semestre precedente. Per la prima volta nella sua storia l’Italia si dotò di uno schema di reddito minimo ispirato al criterio dell’universalismo selettivo.

Prima di allora l’Italia era l’unico paese in Europa a non essersi ancora dotato di una politica nazionale di contrasto alla povertà malgrado il forte deterioramento delle condizioni economiche e di esclusione sociale, esacerbate dalla crisi del 2008, non solo per le fasce tradizionalmente più svantaggiate, ma anche per segmenti consistenti di lavoratori a basso reddito e precari. L’importanza del REI, alla cui impostazione e al cui disegno aveva attivamente contribuito l’Alleanza contro la povertà in Italia con un’articolata proposta denominata Reddito di Inclusione Sociale (Gori et al. 2016, Il reddito di inclusione sociale – REIS, Il Mulino), consisteva nella stretta connessione tra la componente monetaria e quella di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa. Le risorse finanziarie destinate al REI – benché incomparabilmente più elevate rispetto al passato e nonostante la previsione di una loro crescita graduale negli anni successivi – non avrebbero comunque superato lo 0,15% del PIL; un ammontare sufficiente a coprire solo la fascia di popolazione più esposta alla povertà più estrema, e con un di importo molto modesto (variabile tra circa 190 e 540 euro, a seconda della composizione del nucleo familiare).

Il RdC ha rappresentato una rottura rispetto al passato, mobilitando un investimento di finanza pubblica comparabile a quello degli altri paesi europei, tra lo 0,3 e lo 0,4% del PIL, rivolgendosi a una platea molto più ampia e prevedendo un sussidio di tutt’altro importo rispetto al REI. Al contempo, l’impostazione, il disegno e l’implementazione del RdC scontano molti limiti, che una riforma vocata all’introduzione di uno schema di reddito minimo equo, efficiente ed efficace avrebbe dovuto superare. I capitoli del volume prendono in considerazione tali limiti, per identificare gli interventi correttivi che sarebbero stati necessari, e che costituiscono anche le basi per la valutazione della riforma del governo Meloni.

Il Capitolo 2 descrive l’architettura del RdC e gli elementi che lo caratterizzano rispetto ad altri omologhi dispositivi precedentemente introdotti. Su questa scorta il Capitolo 3 presenta una serie di elaborazioni che mettono in evidenza le caratteristiche della platea degli eleggibili, valutando possibili scenari di riforma che avrebbero consentito di migliorare l’impianto dello schema. Tali scenari sono utili a valutare se la riforma del governo Meloni consentirà di superare le criticità del RdC, ed in particolare quelle su cui si concentra il capitolo: la non eleggibilità per il RdC delle famiglie povere di reddito ma con un patrimonio lievemente superiore alla soglia di eleggibilità, i requisiti di residenza particolarmente stringenti che penalizzavano i cittadini extracomunitari e, infine, la scala di equivalenza che, come è noto, sfavoriva i nuclei familiari più numerosi. 

Il Capitolo 4 ricostruisce le diverse fasi di implementazione del RdC, dalla presentazione delle domande alla realizzazione dei percorsi di inserimento e di inclusione. Qui il focus è sulle criticità del disegno istituzionale e sui fattori di contesto, quali le differenze territoriali relative alla disponibilità di servizi, alle opportunità di lavoro e alle diverse culture politico-amministrative locali. Nelle conclusioni, il capitolo individua le aree su cui intervenire per strutturare in modo efficace la connessione tra la componente di trasferimento economico e quella di attivazione, fornendo un elemento di valutazione per la recente riforma.

Il Capitolo 5 affronta il nodo del raccordo del sussidio monetario con l’occupazione, in particolare rispetto al ruolo giocato dai meccanismi di cumulo con i redditi da lavoro, discutendo anche il funzionamento dei cosiddetti in-work benefit. Il disegno del RdC prevedeva però meccanismi sfavorevoli sia all’accesso alla misura per cittadini e cittadine a basso reddito, sia alla combinazione tra sussidio e reddito da lavoro per chi trova una nuova occupazione, dando così luogo a rischi di trappola della povertà. Alla luce di questa analisi, il capitolo elabora degli scenari per il disegno di uno schema di reddito minimo in Italia, utili per valutare quanto fatto dal governo Meloni. 

Il Capitolo 6, che conclude il volume, descrive la riforma introdotta dal governo Meloni e fornisce chiavi interpretative alla luce delle lezioni apprese analizzando il RdC. Il capitolo si sofferma sia sull’ADI sia sul SFL. Da un lato, l’ADI, in quanto sostegno al reddito di ultima istanza di tipo categoriale, è uno schema di reddito minimo “atipico” nel panorama europeo, dove vige ovunque il principio dell’universalismo selettivo. Dall’altro, il SFL è una misura di attivazione lavorativa, sempre categoriale, che conta su un trasferimento economico temporaneo e, quindi, non può essere considerata uno schema di reddito minimo. Il capitolo stima accesso e costi delle misure introdotte e il loro impatto su diseguaglianza e povertà, mettendone in luce i miglioramenti rispetto al RdC così come i punti deboli, relativi sia alla componente monetaria, sia a quella di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa, e più in generale all’intera struttura della riforma.

Questo volume si inserisce nel dibattito sulla riforma delle misure di contrasto alla povertà in Italia, ancorandosi ad analisi basate sull’evidenza empirica, così offrendo elementi di valutazione scientifici. Inoltre, mettendo in luce i limiti, così come i meriti, del RdC esso identifica gli elementi chiave di uno schema di reddito minimo, consentendo una valutazione iniziale dei potenziali punti di criticità e di forza della riforma introdotta dal governo Meloni nonché l’individuazione di auspicabili interventi correttivi. Per questi motivi, il volume si rivolge a quanti sono interessati alle questioni economiche e sociali del nostro paese, così come al mondo dell’accademia o di chi si occupa professionalmente di politiche sociali. Ma anche ai policy-maker e ai decision-maker con l’implicito invito a formare i propri giudizi e basare le proprie azioni su analisi empiricamente fondate e orientate a migliorare il disegno e i meccanismi di implementazione di politiche pubbliche cruciali per il benessere sociale. 

Da ultimo, una doverosa nota sulle posizioni che ispirano questo volume. Affrontare in modo scientifico e prestando massima attenzione all’evidenza empirica un tema politicamente saliente non significa però essere neutrali rispetto al modo in cui il tema viene affrontato dai decisori politici, e alle soluzioni di politica pubblica proposte o attuate. Sono i valori e le visioni del mondo degli studiosi e delle studiose a guidare la loro ricerca. Naturalmente, non devono condizionarne i risultati. Questo è ciò che abbiamo cercato di fare. Come esperti/e di politiche sociali ed economiche e come cittadine/i abbiamo idee e sensibilità differenti circa vari aspetti dei complessi schemi di contrasto alla povertà, che abbiamo ripetutamente sottoposto a controllo reciproco nei loro effetti. Condividiamo però convintamente e radicalmente la preferenza per schemi di contrasto alla povertà universalistici e non categoriali. Questo era per noi un approdo verso cui tendere sin dai tempi in cui la prima Commissione di indagine sui temi della povertà, costituita dal Presidente del Consiglio dei Ministri Craxi nel 1984 e presieduta da Ermanno Gorrieri, rilevò la necessità di introdurre in Italia il «diritto a una prestazione derivante non da uno status anagrafico (essere anziano, avere figli) oppure fisico (inabilità) oppure professionale (non avere occupazione) e così via. Il diritto sorge semplicemente dall’insufficienza del reddito». 

Assistere prima all’introduzione, per quanto costellata da svariate inadeguatezze, di questo diritto e poi alla sua revoca non ci lascia indifferenti. Come studiose/i e come cittadini/e riteniamo di avere il dovere di richiamare l’attenzione sulle conseguenze di tale scelta di politica pubblica, e di impegnarci per convincere la comunità politica e i decisori pubblici a modificare le misure di sostegno ai poveri in Italia muovendo decisamente nella direzione dell’universalismo selettivo e rifuggendo dall’eterno ritorno della categorialità.


* Questo articolo è una sintesi dell’introduzione del volume “Sostegno ai poveri: quale riforma? Dal Reddito di Cittadinanza all’Assegno di Inclusione: analisi dell’Alleanza contro la povertà in Italia”, pubblicato di recente in open access da EGEA e liberamente scaricabile dal sito dell’editore (https://www.egeaeditore.it/ita/prodotti/economia/sostegno-ai-poveri-quale-riforma.aspx).

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