ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 203/2023

14 Novembre 2023

Oltre la She-recession, una politica industriale per il settore della cura

Linnea Nelli e Maria Enrica Virgillito si chiedono se il fenomeno della She-recession, cioè del prevalente impatto della crisi pandemica sull’occupazione femminile, sia occasionale o abbia cause più profonde radicate nella struttura occupazionale del mercato del lavoro italiano. A tal fine le due autrici propongono un'analisi empirica macro-strutturale che permette di indagare la natura della She-recession in Italia e che fornisce indicazioni sui più opportuni interventi di politica economica.

La nozione di “She-recession” nasce dalla comparazione tra la crisi pandemica e le precedenti recessioni, in primis la Grande Recessione del 2007-2009 negli Stati Uniti. La definizione scaturisce dalle differenze di genere nel mercato del lavoro che si accentuano a causa delle crisi economiche. Ne discutiamo in un nostro recente lavoro di cui qui sintetizziamo le principali evidenze.

La letteratura ha definito le crisi del passato come “Man-recession”, a causa del loro prevalente impatto sull’occupazione maschile, che predomina nei settori più esposti a shock da domanda e a oscillazioni cicliche, come la manifattura e le costruzioni.
La crisi da Covid-19 è invece conseguenza di interazioni tra shocks da domanda e da offerta e, anche per effetto delle misure di contenimento adottate (come le chiusure obbligatorie e il distanziamento sociale), il settore dei servizi, dove spesso prevale l’occupazione femminile, è stato particolarmente colpito. Allo stesso tempo, la chiusura delle scuole ha comportato un aumento del lavoro di cura che è principalmente a carico delle donne. L’asimmetria nella divisione del lavoro non retribuito all’interno del nucleo familiare ha obbligato le donne ad aumentare il tempo allocato alla cura familiare. L’interazione tra le caratteristiche della crisi pandemica e le misure di contenimento ha pertanto dato luogo al fenomeno della cosiddetta “She-recession”.

Tuttavia, considerare l’impatto della pandemia senza guardare alle pre-esistenti asimmetrie di genere può portare a sottostimare le cause di lungo periodo della She-recession. Alle radici della She-recession vi è, infatti, un mercato del lavoro attraversato da un processo di “femminilizazione” (feminization), ossia il combinarsi della segregazione occupazionale femminile con una divisione asimmetrica dei ruoli all’interno del nucleo familiare. Con riferimento al primo fattore, l’incremento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro, si è accompagnato, nonostante il loro più elevato livellop di istruzione, a una progressiva segregazione occupazionale in professioni con contratti precari, concentrate largamente in segmenti dei servizi a bassa remunerazione o part-time. A ciò si aggiunge la silenziosa ma persistente riproduzione di norme di genere che definiscono una divisione impari del lavoro di cura non retribuito sulle donne, riflettendosi in un alto tasso di inattività femminile, una bassa partecipazione al mercato del lavoro e discontinuità occupazionale che ostacola la mobilità professionale e salariale. Tale tendenza è particolarmente evidente nel Sud, dove disoccupazione strutturale e inattività femminile sono almeno il doppio rispetto alle altre regioni italiane (Figura 1).

Figura 1: disoccupazione strutturale e inattività femminile per regione nel 2020.

Fonte Dati: RFL, ISTAT

Allo scopo di misurare le asimmetrie di genere degli effetti della pandemia sul mercato del lavoro, cogliendo il ruolo chiave dei fattori strutturali preesistenti, abbiamo adottato un indicatore costruito sulla metodologia di Fazzari e Needler (2021), basato su una funzione di perdita capace di misurare le deviazioni di una variabile dai valori precrisi e la persistenza di tali deviazioni durante il periodo di recessione, considerando la severità, la durata e la diffusione della crisi stessa. Il periodo di recessione identificato è tra l’ultimo trimestre del 2019 e l’ultimo trimestre del 2020. I dati utilizzati sono quelli della Rilevazione Forza Lavoro ISTAT. Maggiori dettagli sulla costruzione dei dati e sulla metodologia sono disponibili alle Sezioni 3 e 4 dell’articolo.
Dall’analisi si riscontra un impatto sproporzionato della crisi da Covid sull’occupazione femminile: le donne infatti hanno perso il proprio posto di lavoro con incidenza largamente maggiore rispetto agli uomini. Si riscontra inoltre una maggiore esposizione alla perdita dell’occupazione per le lavoratrici con basso livello di istruzione, del Sud e impiegate nei servizi. Tra le donne occupate nei servizi, coloro che lavorano nei settori “trasporto e magazzinaggio” e “alloggio e ristorazione”, sono state le più esposte alla perdita di occupazione. Tali evidenze si accostano ai risultati di una ampia letteratura internazionale; l’impianto teorico e di analisi utilizzato consente, però, di mettere in luce la sottostante isteresi nella She-recession, cioè quel fenomeno che si manifesta quando lo stato attuale di una variabile è fortemente influenzato e dipendente dallo stato precedente del sistema da cui essa origina. L’incidenza della She-recession, in mancanza della pre-esistente segregazione occupazionale delle donne in lavori a bassa qualifica nei servizi e con contratti temporanei, non sarebbe stata tale. Si ricordi infatti che il blocco dei licenziamenti non tutelava i contratti a tempo determinato, che una volta scaduti non sono stati rinnovati.

In generale, i risultati della nostra analisi indicano una vulnerabilità strutturale del segmento femminile del mercato del lavoro per la forte esposizione ai rischi occupazionali, reddituali e sanitari (come già discusso sul Menabò). Tale vulnerabilità si propaga dentro e fuori le mura domestiche e si manifesta in varie dimensioni: rispetto all’accesso e alle condizioni di lavoro, nell’accesso alla cura dei figli in termini di asili nidi e welfare per l’infanzia, così come nel diritto alla salute. Da ultimo, individuiamo la necessità di un’azione di politica economica volta a rovesciare la condizione e le determinanti di ciò che abbiamo definito “femminilizzazione” di lungo periodo, riconoscendo che oltre alla mera rappresentazione della disuguaglianza di genere e del divario salariale – spesso visti come risultato di scelte individuali, non da ultimo da Claudia Goldin, premio Nobel per l’economia 2023 – fattori istituzionali, culturali e norme sociali sono talmente radicati nel nostro sistema socio-economico da riprodurre persistenti asimmetrie di genere e forme di subordinazione. Lungi dall’essere semplici malfunzionamenti del mercato del lavoro, tali forme di subordinazione sono di fatto incorporate in e istituzionalizzate da un capitalismo patriarcale (Folbre, 2021).

Il Care Manifesto e la nozione di care economy (economia della cura) si muovono a cavallo tra il dibattito accademico e di policy – che ha invece focalizzato l’attenzione su avanzamenti di carriera, formazione STEM, imprenditorialità femminile e quote rosa – evidenziando la necessità di rovesciare le cristallizzazioni di genere e classe, e le conseguenti asimmetrie di potere delle società contemporanee. Che il lavoro di cura venga rivalutato e remunerato è una premessa necessaria ad affrontare le tendenze a venire delle società contemporanee, in cui, rispondere ai bisogni materiali e immateriali della cura, sia umana che dell’ambiente, diventerà sempre più urgente. Una politica industriale per il settore della cura volta a rivalutarne i salari e le opportunità lavorative insieme a un accesso gratuito e equo a diritti di base garantiti dal Pubblico, quali istruzione e sanità, sarebbe un primo passo in questa direzione.

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