ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 203/2023

14 Novembre 2023

Il populismo e le sue insidie 

Eugenio Levi si chiede se il populismo sia ancora presente nello scenario politico italiano e indica gli argomenti che portano a una risposta decisamente positiva. Quindi si concentra su alcuni recenti lavori allo scopo di illustrare le conseguenze negative del populismo per la qualità della democrazia. Secondo Levi, l’implicazione di questi risultati è che per contrastare il fenomeno è necessario che i partiti non populisti affrontino le cause strutturali del diffondersi del populismo.

Nel dibattito politico degli ultimi anni, il populismo è stato un ospite scomodo. Trasversale agli orientamenti politici e spesso ripudiato come epiteto dagli attori che lo mettevano in pratica. Eppure, sarebbe utile che i partiti un dibattito sul populismo e sulle sue cause lo affrontassero, in particolare alla vigilia di una discussione parlamentare sulle riforme costituzionali che sembra per il momento concentrarsi solo sul problema della governabilità. In questo articolo, in primo luogo cercheremo di capire quanto siano ancora presenti tratti populistici nei partiti politici italiani odierni. Una volta appurato che sono ancora molto presenti, riassumeremo i risultati di alcune recenti ricerche sulle implicazioni del populismo per la qualità delle democrazie da cui quel dibattito potrebbe prendere spunto.

Negli ultimi anni, il primo punto di disaccordo sul populismo nel dibattito politico ha riguardato l’estensione del fenomeno. Per capire qual è l’effettivo stato dell’arte, si può partire da una definizione minimale di populismo. Per gli scienziati politici il populismo è quell’ideologia o quello stile comunicativo che divide la società in due, da una parte una élite corrotta e dall’altra un popolo omogeneo espressione della volontà generale. Chiunque non faccia parte di questo popolo, è un potenziale nemico, o perché direttamente parte dell’élite o in quanto fiancheggiatore. In questa ultima categoria rientrano, ad esempio, per un populismo di destra in cui il popolo ha forti connotazioni etniche o territoriali, gli immigrati. Risulta facile, alla luce di questa definizione, identificare le dichiarazioni politiche populiste e associare al corrispettivo partito l’etichetta di populista. Ci affidiamo a tal proposito alla PopuList stilata da un gruppo di esperti di populismo che comprende i maggiori studiosi europei del fenomeno. Secondo questa lista, in Italia abbiamo due partiti chiaramente populisti nell’estrema destra, Fratelli d’Italia e la Lega, uno a destra che in un recente passato aveva venature populiste ma che ormai sembra sempre più orientato ad abbandonarle, Forza Italia, e uno difficilmente classificabile in base all’orientamento politico ma chiaramente populista, il Movimento 5 Stelle. Il populismo in Italia sarebbe, insomma, rappresentato da almeno tre partiti il cui consenso elettorale alle elezioni politiche del 2022 sommerebbe al 50.2% dell’elettorato.

Il dibattito politico italiano sembra muoversi su binari piuttosto diversi. Ormai, dopo le elezioni politiche del 2023, secondo molti politici e commentatori saremmo usciti dalla stagione populista. Saremmo tornati al bipolarismo di inizio anni 2000, in cui si scontrano alle elezioni due coalizioni di governo, e tale bipolarismo sarebbe perfino migliorato rispetto a quello di inizio anni 2000 per la sostituzione di una figura polarizzante come Silvio Berlusconi con quella più rassicurante di Giorgia Meloni. Giusto qualche giorno fa, al riguardo Elly Schlein avrebbe dichiarato : “Io e Meloni avversarie leali. L’obiettivo è il 2027.” 

Non solo questo dibattito fra partiti in Italia è poco conforme al giudizio degli scienziati politici, ma sembra confliggere in larga misura con la realtà. Infatti, si fa fatica a sfuggire all’impressione, ad esempio, che FdI abbia vinto non tanto in quanto partito conservatore di centrodestra ma principalmente in quanto ennesima incarnazione del “nuovo” contro le élite, ovvero unico partito con un leader ancora non sperimentato capace di riprodurre credibilmente un messaggio di rinnovamento completo e di integrità assoluta (“Io non sono corruttibile”), con la credibilità maturata opponendosi al governo Draghi. Se rileggiamo il discorso d’insediamento di Giorgia Meloni alla luce degli stilemi del populismo, non resta che dare ragione agli scienziati politici. I “potentati” da scontentare, il “coraggio (…) non ci difetta”, i “circoli esclusivi”, “i mezzi d’informazione schierati”, le “linee guida scritte da qualche burocrate”: non sono pochi i passaggi in cui, in modo più o meno mascherato, il richiamo populista si fa sentire. Anche Giuseppe Conte, leader che molti associano con la fuoriuscita del Movimento 5 Stelle dal novero dei partiti populisti, ultimamente, nel difendere la proposta di salario minimo, è ricorso in Parlamento ad argomenti squisitamente populisti piuttosto che a considerazioni sull’uguaglianza o sulla giustizia sociale, accusando la destra di dire “no al salario minimo e sì agli stipendi massimi per i politici”.

Una volta riconosciuto che siamo ancora immersi in un ciclo populista, vi è un secondo aspetto su cui sarebbe pure utile ragionare apertamente. Ed è l’interpretazione da dare a questo ciclo. Il fenomeno è transitorio oppure è ormai connaturato alle moderne democrazie? E ancora, è un epifenomeno della crisi delle democrazie moderne, possibilmente portatore di ulteriori conseguenze negative, oppure è una manifestazione democratica come un’altra, anzi da valutare positivamente come espressione non violenta e formalmente rispettosa della Costituzione di uno scontento diffuso? Riporteremo a tal proposito qualche risultato da recenti studi di economia e scienze politiche che suggeriscono come l’impatto del populismo sia prevalentemente negativo.

Alcuni studi recenti, fra i quali quello di Massimo Morelli, Antonio Nicolò e Paolo Roberti (2022), hanno evidenziato come una caratteristica del populismo di questi ultimi anni, che qualifica ulteriormente la definizione minimale adottata all’inizio di questo articolo, sia la tendenza dei leader populisti a proporre all’elettorato delle politiche molto puntuali su cui assumere un “impegno vincolante”. In Italia gli esempi abbondano. Probabilmente molti, eccetto forse i più giovani, ricorderanno il misto di stupore e sgomento degli italiani di fronte alla solenne e inaspettata promessa di Silvio Berlusconi di abolire l’IMU sulla prima casa in diretta televisiva durante il confronto pre-elettorale con Romano Prodi nel 2006. Ricordiamo poi il Reddito di Cittadinanza per il Movimento 5 Stelle, l’immigrazione, quota 100 e la flat tax per la Lega, e, da ultimo, l’impegno sulla famiglia e sulla natalità di Fratelli d’Italia. Le conseguenze negative di tale caratteristica del populismo sono piuttosto evidenti. Impegni vincolanti portano spesso ad una semplificazione eccessiva del discorso pubblico e, in un contesto di scelte collettive, impongono dei vincoli discutibili alla piena libertà del mandato parlamentare. Inoltre, per ovvie ragioni elettoralistiche, si tende ad assumere impegni vincolanti soprattutto su politiche che favoriscano interessi particolari che generali. Da ultimo, se l’impegno preso con gli elettori diventa insostenibile per ragioni politiche o di finanza pubblica, il partito populista non può comunque rinunciarvi pena la sua scomparsa. Nel caso il leader populista non riesca a rispettare l’impegno, deve quantomeno dimostrare, attraverso conquiste simboliche, di stare procedendo in quella direzione, e attribuire sempre la responsabilità del mancato raggiungimento degli obbiettivi a qualche ragione esterna alla sua volontà per mascherare il proprio fallimento, e ciò produce ulteriore scontento.

Un altro problema da non sottovalutare è la performance economica dei governi populisti. Una ricerca recente degli economisti Manuel Funke, Moritz Schularick e Cristoph Trebesch su 51 leader populisti a livello mondiale fra il 1900 e il 2020, che verrà pubblicata a breve sull’American Economic Review, spiega come ad un governo populista venga associata una performance economica mediamente più debole. Addirittura, secondo le stime presentate in questo studio la perdita di PIL si aggira sul 10% in15 anni di governo. Questo problema si ricollega al ben noto puzzle sulla competenza dei leader populisti, ovvero del perché gli elettori tendano ad affidarsi a politici riconosciuti unanimemente come meno competenti. Alcuni spiegano questo puzzle con una avversione degli elettori al tradimento delle promesse elettorali di quei politici giudicati come più competenti da una vasta maggioranza della popolazione (vedi Di Tella e Rotemberg, 2018). In effetti, anche se gli elettori possono in generale preferire politici più competenti, l’essere da loro delusi spinge verso un politico incompetente, anche perché verso un tale politico si nutrono aspettative più basse e quindi la delusione sarà minore in caso di ‘tradimento’. 

Estendendo questa teoria, sembra di intravedere un circolo vizioso francamente piuttosto preoccupante e dal quale potrebbe essere difficile uscire. Il circolo funzionerebbe approssimativamente così: una prima delusione spinge a votare politici verso cui nutrire aspettative più basse; se queste aspettative sono poi sufficientemente basse da risultare attese, allora il politico viene confermato, se invece quelle aspettative vengono tradite il voto andrebbe a politici verso cui nutrire aspettative ancora più basse, e così via. Il risultato sarebbe una progressiva riduzione nella competenza dei politici, alimentata da aspettative sempre più basse.

Un’ultima considerazione è relativa agli effetti di lungo periodo delle cause che hanno originato il populismo e alle quali il populismo, per ovvie ragioni di consenso, non ha nessun interesse a mettere mano strutturalmente in una logica che non sia puramente emergenziale o assistenzialista. Non vogliamo in questa sede approfondire il tema delle cause del populismo; l’avevamo in parte già fatto in un precedente articolo sul Menabò. Vogliamo piuttosto mettere in evidenza una possibile conseguenza del non affrontare quelle cause. Infatti, non possiamo considerare la persistente bassa sfiducia nei confronti dei partiti politici semplicemente come un ospite ingombrante che non se ne vuole andare ma che, tutto sommato, non fa molti danni nella misura in cui si riesce a tenerlo fermo seduto su una sedia. 

In un lavoro appena pubblicato su Economic Inquiry assieme a Steven Stillman e Isabelle Sin, studiando le conseguenze della crisi economica e migratoria che la Nuova Zelanda ha vissuto a cavallo fra gli anni ‘80 e ‘90, abbiamo trovato che essa ha causato nel tempo uno slittamento a destra nelle preferenze politiche delle persone che permane ancora oggi. Da studi di psicologia politica è ben noto, d’altra parte, che dei traumi nella vita sociale e politica di un paese portano a preferire messaggi che enfatizzano un senso di sicurezza piuttosto che di cambiamento. Tenendo conto di ciò, ci sembra che l’evoluzione italiana (ed europea) del populismo da partiti che propongono messaggi “rivoluzionari”, come era il 5 Stelle prima maniera, a partiti che sposano ideologie conservatrici, come è oggi Fratelli d’Italia, non sia in contraddizione con quanto è successo in Nuova Zelanda. Non è neanche in contraddizione con la posizione di Dani Rodrik, il quale suggerisce che il populismo, se resta al governo per lunghi periodi, non può che portare verso democrazie illiberali, dove permane il diritto di voto, ma i diritti delle minoranze sono costantemente messi in discussione e il bilanciamento dei poteri slitta pericolosamente verso l’esecutivo.

In conclusione, pensiamo che riconoscere la pervasività del populismo nella politica odierna e le sue conseguenze negative sulla qualità della democrazia in Europa dovrebbe spingere i partiti che ancora non hanno ceduto completamente al fascino discreto del populismo a riflettere sulle cause del populismo stesso. Bisognerebbe, quindi, tornare a discutere di come affrontare alcune questioni strutturali delle nostre società, quali la bassa crescita economica e della produttività, l’aggravarsi delle disuguaglianze e la bassa mobilità sociale. E di come rimettere in piedi partiti politici che producano cultura politica, partecipazione e classe dirigente competente. Forse, però, ci vorrebbe prima di tutto una politica che aspiri a recuperare il senso della sua funzione anche oltre i momenti elettorali e aldilà delle necessità di sopravvivenza dei singoli leader.

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