Anche per quest’anno è stato confermato il cosiddetto “bonus cervelli”. Si tratta di un’agevolazione fiscale che abbatte del 90% l’imponibile ai fini dell’imposta sui redditi di ricercatori e docenti universitari italiani residenti all’estero che decidono di tornare a lavorare in Italia, per un periodo complessivo che può andare da 6 a 11 anni a seconda dei casi. È una politica che l’Italia ha confermato tra le sue priorità anche nel PNNR, dove vengono stanziati 800 milioni di euro per questo bonus insieme a quello analogo esteso agli altri lavoratori esteri (impatriati). La ratio di questa politica viene solitamente riassunta citando un dato molto significativo: tra i principali paesi europei l’Italia è l’unico con un saldo netto negativo, e molto elevato, tra laureati in entrata e in uscita; nel gergo giornalistico si tratta della fuga dei cervelli.
In assenza di una valutazione dei costi e dei benefici di questa politica si può affermare che i suoi benefici sono stati limitati e che essa ha al più arginato un fenomeno che è continuato a crescere: secondo l’Osservatorio sui Conti Pubblici dell’Università di Milano negli ultimi 10 anni il saldo tra giovani laureati in uscita e in entrata è costantemente peggiorato. Infatti, il rapporto è passato da poco meno di 4 a 1 a poco meno di 5 a 1.
Focalizzandoci sui ricercatori, l’Italia rimane il paese con il più alto numero di ricercatori in uscita. Nel caso dei giovani laureati la questione chiama in causa soprattutto la struttura della domanda di lavoro delle imprese italiane troppo sbilanciata sulle basse professionalità e che prevede condizioni salariali e contrattuali ben poco favorevoli alle carriere dei giovani laureati. Invece, nel caso dei ricercatori degli enti di ricerca e delle università, il privato c’entra poco e quindi un’analisi del lato della domanda non può che riferirsi alle politiche pubbliche di reclutamento dei giovani nelle università e negli istituti di ricerca.
Il primo aspetto da sottolineare è meramente quantitativo. Nonostante le assunzioni siano aumentate in seguito al varo del piano straordinario, il rapporto tra nuove posizioni da ricercatore e nuovi Ph.D. è di circa 1 a 10. Il secondo aspetto riguarda invece la dinamica temporale delle assunzioni, che ha seguito un andamento a singhiozzo con periodi di blocco quasi totale delle assunzioni seguiti da improvvisi sblocchi. Ciò rende difficile programmare i percorsi di carriera e determina l’alternarsi di fasi in cui innumerevoli candidati si contendono pochissimi posti e fasi in cui in cui l’offerta è razionata: pochi candidati, minore scelta e quindi mediamente minore qualità. Oltre al famoso concorsone del 1980, ne è un esempio il recente moltiplicarsi, in connessione con il PNRR, di posizioni di ricercatore a tempo determinato di tipo A. Questa moltiplicazione è avvenuta in modo sbilanciato tra settori e campi specifici e, non essendo prevista, non ha permesso ai giovani ricercatori di acquisire una formazione adeguata. Peraltro, si tratta di posizioni precarie senza tenure track, quindi pensati in un orizzonte di programmazione di breve periodo con effetti in tema di innovazione e capitale umano assai deboli.
La politica del rientro di cervelli si può , quindi, considerare un modo per cercare di porre rimedio ex post, via incentivi fiscali, ad un problema che risiede altrove; anche per questo può essere considerata una politica di second best che in quanto tale non affronta il problema alla radice e sconta inefficienze.
L’inefficienza di quest’approccio diventa ancora più evidente se si prendono in considerazione i meccanismi dell’offerta di giovani ricercatori e la domanda concorrente.
La Porta e Zapperi in un recente articolo su Nature Italy sottolineano che le Università americane negli ultimi 10 anni hanno assunto circa 900 ricercatori italiani, formati in Italia. Ciò, nonostante che le Università italiane occupino posti assai bassi nelle varie classifiche degli atenei mondiali, e il reclutamento all’interno degli Stati Uniti sia molto esclusivo, con la gran parte delle Università che assumono soprattutto ricercatori formati nelle Università di Élite. Si tratta di un ottavo del totale di ricercatori assunti in Italia nello stesso periodo, concentrati soprattutto nelle materie STEM e prevalentemente nelle università più prestigiose (Columbia, Harvard, ecc.).
L’apparente contraddizione potrebbe provocare afflati di orgoglio nazionale, stimolando l’immaginario di un sistema istituzionale disfunzionale e poco finanziato, salvato da favorevoli condizioni genetiche e culturali. D’altronde i tempi sono buoni per una certa retorica italica, quella che mostriamo a qualsiasi turista in visita nella Capitale che, transitando per l’Aeroporto di Fiumicino, si trova di fronte all’immagine di un colle con un Colosseo quadrato che reca la scritta: “Popolo di Poeti, di Artisti, di Eroi, di Santi, di Pensatori, di Scienziati, di Navigatori, di Trasmigratori”.
E’ bene, però, non stare al passo con questi tempi e tentare una lettura meno autocompiaciuta. Potremmo innanzitutto notare che le capacità e competenze richieste nel campo della ricerca sono specifiche. Di conseguenza formare laureati in generale e formare ricercatori non è la stessa cosa, e quindi i limiti delle metodologie e delle prassi didattiche del sistema italiano rispetto all’obiettivo di rendere occupabili i laureati possono rivelarsi utili per formare eccellenti ricercatori. Per lo stesso motivo, le riforme che hanno l’obiettivo di migliorare l’occupabilità dei laureati possono ridurre la qualità della formazione per le Élite intellettuali e scientifiche (si pensi per esempio all’annoso dibattito sui Licei Classici).
In secondo luogo, possiamo ricordare una caratteristica specifica, seppur non unica del nostro sistema: i costi relativamente bassi, specialmente se considerati lungo tutto l’arco della formazione dalla scuola inferiore al Ph.D. Nel caso specifico dei talenti, della cosiddetta coda alta della distribuzione delle capacità dei laureati i minori costi sono ancora più sbilanciati rispetto ad altri sistemi perché alle tasse di iscrizione più basse e ad un seppur parziale sistema di agevolazioni per il diritto allo studio si unisce il sistema pubblico e concorsuale delle Borse di Dottorato e della sostanziale gratuità dell’iscrizione al Dottorato per i Borsisti.
Possiamo allora fornire una spiegazione dell’apparente contraddizione tra condizione dei laureati e degli Atenei in Italia e quantità dei talenti offerti oltre oceano o oltremanica meno compiacente per l’orgoglio nazionale e basata su un po’ di teoria economica.
Come noto nella modellistica economica, dagli anni 70 in poi (Becker), un maggiore accesso all’istruzione, risolvendo un’imperfezione di mercato, aumenta l’efficienza proprio perché migliora il sistema di selezione dei talenti, incentivando i talentuosi con pochi mezzi e disincentivando i meno talentuosi con tanti mezzi. Se poi si aggiungono i risultati del decennio successivo sui talenti (Rosen –The Economics of Supersar), le caratteristiche dei mercati in cui la qualità è rilevante, come nel caso dei “cervelli”, sono tali per cui una piccola differenza in termini di qualità media disponibile si trasforma in una grande differenza in termini di qualità effettivamente selezionate. In altri termini nel caso dell’accesso all’Istruzione il trade off tra equità (delle opportunità) ed efficienza si ribalta nettamente.
Tuttavia, In un contesto di economia aperta, questo effetto positivo sull’offerta di ricercatori di qualità ha come contropartita una forte concorrenza della domanda estera, soprattutto di quei paesi dove sistemi di accesso all’istruzione fino al Ph.D. – molto più costosi e ristretti, per gli stessi motivi teorici citati ma in senso opposto – peggiorano la loro offerta di cervelli e per un semplice effetto di mercato, creano premi salariali per i ricercatori molto più alti proprio perché adeguati a ripagare gli alti costi affrontati . Non è un caso, infatti, che sono proprio questi paesi quelli verso cui si rivolge il grosso dell’emigrazione di ricercatori italiani.
Proviamo per un momento a metterci nei panni del figlio di un impiegato americano che si laurea in una media Università americana che deve ripagare un prestito di 200.000 dollari per il suo percorso dalla high school in poi e si trova a concorrere col figlio di un impiegato italiano che per laurearsi alla Sapienza con il premio Nobel Parisi ha speso circa 3000 euro.
Nel caso che corrisponderebbe al talento americano, inoltre, è molto probabile che il proprio debito corrisponda al diritto del creditore di una quota del suo stipendio, una tipologia di finanziamento che sempre più si sta diffondendo. Tale debito andrebbe ripagato anche qualora il giovane americano decidesse di venire a lavorare con Parisi in Italia. Volendo fare una provocazione, bisogna allora notare che da un punto di vista teorico, di “optimal taxation”, la politica ottimale di contrasto al brain drain, quella di first best, alternativa alla fiscalità di vantaggio per i rientri sarebbe proprio la stessa praticata nel privato in USA: far firmare un contratto a chi si forma in Italia di compartecipazione ai redditi futuri di chi ha finanziato il percorso formativo, cioè lo Stato. In ogni caso la fiscalità di vantaggio per i rientri non è l’ottimo ma una politica di second best, in quanto tale creatrice di nuove inefficienze potenziali. Ne cito solo una: se il talento è inosservabile ex ante ma remunerato efficientemente ex-post, un incentivo non collegato al reddito percepito all’estero attrae soprattutto gli espatriati che si sono rivelati meno talentuosi. Se poi la migrazione di ritorno ha un costo, materiale e non, il meccanismo di selezione avversa (dei peggiori) diventa molto rilevante.
Considerando, poi, che una quota non trascurabile dei ricercatori espatriati – soprattutto la quota maggioritaria di coloro che sfruttano l’incentivo fiscale e tornano – si rivolgono a paesi dell’UE è utile fare riferimento non all’economia del capitale umano ma all’economia internazionale.Nell’ Europa della libera circolazione di persone e capitali non ha avuto luogo la convergenza delle politiche pubbliche. In particolare, ogni paese si impegna nella sua “fiscal competition”: l’Olanda e il Lussemburgo per attrarre le imprese; il Portogallo, la Bulgaria e la Spagna per attrarre i pensionati; l’Italia per attrarre i laureati, e quant’altro. Le politiche beggar-thy-nighborhood sono tutte inefficienti sotto diversi aspetti e creano effetti distributivi perversi. Benché non impresso nel fregio di un’opera d’arte razionalista, questo è pur sempre il primo risultato condiviso su cui a partire dal ‘700 e da Adam Smith si è costruita la storia del pensiero economico.