ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 211/2024

14 Marzo 2024

Dobbiamo ridurre la dipendenza dalla Cina? (prima parte)

Sergio Paba, nella prima delle due parti del suo articolo, esplora le dinamiche e le strategie adottate dagli Stati Uniti e dall'Europa con l’obiettivo di ridurre la dipendenza economica e tecnologica dalla Cina, ed in particolare il "de-coupling" e il "de-risking". Paba considera i potenziali rischi e benefici di queste strategie, sottolineando i complessi problemi che pone la rilocalizzazione della produzione e indicando le sfide da affrontare per diversificare le catene di fornitura in un contesto globale interconnesso.

The world economy is like a big ocean that cannot be cut into isolated lakes” 

Wang Yi al Symposium on the International Situation and China’s Foreign Relations, Pechino, 9 gennaio 2024

1. “Dobbiamo proteggere i nostri confini dalle devastazioni di altri Paesi che fabbricano i nostri prodotti, rubano le nostre aziende e distruggono i nostri posti di lavoro. La protezione porterà a grande prosperità e forza”. Così Donald Trump nel discorso inaugurale del gennaio 2017, dopo aver giurato come 45esimo Presidente degli Stati Uniti. Queste parole segnano una svolta rispetto all’atteggiamento prevalente delle precedenti amministrazioni americane nei confronti della globalizzazione e in particolare della Cina, il paese che più ha beneficiato dell’integrazione economica internazionale. Da campione del libero commercio, dell’apertura, del multilateralismo, l’America di Trump si rifugia nel protezionismo e nella chiusura verso l’esterno. 

Proprio durante la sua presidenza, si comincia a parlare di de-coupling. Il termine si riferisce al processo di “disaccoppiamento” o, in misura meno radicale, alla riduzione dell’interdipendenza economica e tecnologica tra gli Usa e la Cina, da realizzare principalmente attraverso la protezione commerciale, l’embargo tecnologico, il rientro in patria delle attività produttive delocalizzate all’estero (re-shoring). La guerra tariffaria scatenata dal governo americano tra il 2018 e il 2019 contro le importazioni cinesi è la conseguenza più evidente di questa impostazione. 

L’amministrazione Biden, in realtà, non cambia molto le cose. Abbandona l’idea protezionistica di American First e la versione più radicale del de-coupling, ma conserva la maggior parte delle tariffe e prosegue la politica di embargo tecnologico decise dal precedente governo. Un aspetto chiave della strategia di disaccoppiamento è la costruzione di supply chain più sicure e resilienti, capaci cioè di riprendersi rapidamente da eventi imprevisti (pandemia, conflitti, ecc.), considerate essenziali per la sicurezza nazionale ed economica e per la leadership tecnologica degli Stati Uniti. Si propone la “costruzione di partnership commerciali e di investimento con nazioni che condividono i nostri valori, come la dignità umana, i diritti dei lavoratori, la protezione dell’ambiente e la democrazia”. Questa indicazione si traduce nel concetto di friend-shoring, proposto dalla Segretaria al Tesoro Janet Yellen: “diversificare i paesi fornitori per non dipendere da paesi con cui esistono tensioni geopolitiche e che non possono garantire forniture continue e affidabili”, la cooperazione internazionale va perseguita con paesi amici o trusted countries. Si enfatizza il tema della sicurezza nazionale, anche a scapito del vantaggio comparato: “non possiamo permettere che alcuni paesi sfruttino la loro posizione dominante nel mercato delle materie prime, delle tecnologie o dei prodotti chiave per danneggiare la nostra economia o perseguire obiettivi geopolitici indesiderati”. In sostanza, viene enfatizzata la differenza tra democrazie e sistemi autocratici, di cui occorre tener conto nei rapporti economici internazionali. 

Infine, in un passaggio illuminante contenuto in un documento della Casa Bianca del 2021, si afferma la necessità di “plasmare la globalizzazione” affinché sia utile per gli americani “come lavoratori e come famiglie, non solo come consumatori”. In altre parole, occorre dedicare meno attenzione agli effetti positivi della globalizzazione sui prezzi e sull’efficienza economica, e dare maggiore importanza al potenziale impatto negativo sul lavoro, sulla produzione, sulla capacità innovativa. Rinunciare ai beni cinesi, è il messaggio, può portare benefici più profondi e duraturi all’economia e alla società americana. 

L’Europa, a sua volta, non sta a guardare. In un documento della Commissione Europea del marzo 2019, la Cina, viene definita “concorrente economico nella ricerca della leadership tecnologica” e “rivale sistemico che promuove modelli alternativi di governance”. Fino ad allora era considerata un partner strategico e un grande mercato per le imprese europee. La presidente della Commissione Von Der Leyen precisa meglio la strategia europea: in un discorso del marzo 2023 dedicato alle relazioni tra Cina ed Europa, viene accantonata l’idea del de-coupling, giudicato irrealistico e controproducente, e si propone in alternativa una politica di riduzione del rischio (de-risking). 

Un primo aspetto di questa politica riguarda la sicurezza economica, e prevede la diversificazione delle supply chain per garantire maggiore resilienza alle catene di approvvigionamento, che interessano ad esempio input energetici, minerali critici, componenti e prodotti strategici. Il secondo aspetto è relativo alla sicurezza dell’Europa e del suo sistema democratico, alla difesa e alla sicurezza militare. Questo vale in particolare per gli scambi e gli investimenti che riguardano settori e componenti tecnologicamente avanzati, come il 5G o le telecomunicazioni, la microelettronica, l’informatica quantistica, l’intelligenza artificiale e la biotecnologia. I controlli e le restrizioni si invocano soprattutto nel caso di prodotti e tecnologie che si prestano ad un doppio utilizzo civile o militare (dual-use), o che riguardano infrastrutture strategiche e critiche, o negli scambi di beni per la cui produzione si sospetta una violazione dei diritti umani. Tutti questi temi vengono riproposti nel documento della Commissione del giugno 2023 sulla sicurezza europea(European Economic Security Strategy).

Infine, nell’incontro annuale tra i paesi del G7, che si è tenuto ad Hiroshima nel maggio del 2023, definito non a caso come uno dei più importanti nella storia del gruppo, la strategia europea del de-risking viene fatta propria da tutti i principali paesi avanzati con l’intento, neanche tanto sottinteso, di ridurre la dipendenza dalla Cina e limitarne l’espansione economica e le ambizioni geo-politiche.

In conclusione, la Cina è stata per lungo tempo considerata un paese pacifico e amico, un partner economico fondamentale e una grande opportunità per le nostre economie. E’ davvero auspicabile una politica di disaccoppiamento e quali potrebbero essere le conseguenze? E’ davvero nell’interesse dell’Europa? 

2. Cominciamo a parlare del de-risking, nella sua versione “buona”: garantire la sicurezza economica. Quest’idea è suggerita dall’esperienza della pandemia, che ha bloccato gli scambi internazionali e interrotto le catene di fornitura, e dalle conseguenze economiche del conflitto in Ucraina, che ha posto drammaticamente il problema di trovare in tempi rapidi fonti alternative di approvvigionamento di input energetici. Altre tensioni e conflitti caratterizzano in questo periodo l’area medio-orientale e il Mar Rosso, con potenziali ricadute economiche, oltre che ovviamente umanitarie.

In questi tempi incerti, garantire la sicurezza economica è certamente un’idea sensata. Cosa vuol dire in sostanza? Significa diventare “resilienti”. Prendiamo i componenti critici o strategici e ce li produciamo da soli o li facciamo produrre a chi è vicino a noi o a da chi ci fidiamo (friend-shoring). Certo, abbiamo costruito nei decenni della globalizzazione un formidabile sistema produttivo globale basato su vantaggi comparati, specializzazione produttiva, trasferimento tecnologico, economia di scala e integrazione, ma ora ci sentiamo più sicuri se li produciamo a casa nostra o vicino a noi. E’ davvero una buona idea?

Prendiamo i semiconduttori (chip), il componente critico per eccellenza, di cui abbiamo bisogno come il pane. Facciamoli in Usa o in Europa, invece che in Asia, dati i problemi con la Cina e l’incertezza su un eventuale conflitto a Taiwan. Non è solo una proposta. Biden, con il Chips and Science Act del 2022, ha stanziato ben 280 miliardi di dollari per la ricerca e la produzione in casa di questo componente, di cui 53 miliardi per costruire la filiera produttiva. L’Unione Europea non è stata a guardare e, sempre nel 2022 con l’European Chips Act, ha stanziato 43 miliardi di euro per la creazione di una filiera europea per lo sviluppo e la produzione di chip. Già questo è un problema, per la verità, perché questi piani sono basati su sussidi per attrarre talenti e imprese, e il fatto che sia gli Usa che l’Europa vogliano fare le cose ciascuno a casa propria potrebbe scatenare una “subsidy race”, una corsa ad accaparrarsi prima degli altri le competenze e le risorse produttive e imprenditoriali necessarie e migliori, dunque scarse.

Ma il problema principale è un altro. A cosa servono i chip? Dove vanno a finire? Finiscono per essere incorporati negli smartphone, nei laptop, nelle gaming console, nei beni elettronici di consumo, nelle automobili, nelle tecnologie per la produzione di energia pulita, e tanti altri prodotti. Dove vengono prodotti o assemblati questi beni? In buona parte, purtroppo, proprio in Cina. In Cina non da soli, peraltro, ma servendosi di parti e componenti che provengono più o meno da tutta l’Asia, se non oltre.

Se le cose stanno così, sorge un problema. Con il de-risking, i chip dovranno arrivare in Cina e in Asia partendo da Usa ed Europa, invece che dall’Asia. Dovranno ad esempio arrivare negli impianti della Foxcomm a Taiwan e in Cina, per produrre gli i-Phone, o in quelli della Compal Electronics in Cina, Vietnam e Tailandia, dove si producono gli i-pad e gli Apple watch. Dov’è la resilienza? Abbiamo risolto il problema della sicurezza economica? Naturalmente qualcuno potrebbe proporre di riportare nei paesi avanzati anche la filiera produttiva per la produzione dei beni di consumo che incorporano i chip. Si possono ad esempio utilizzare i robot o la stampa a tre dimensioni per fare tutto bene e con costi accettabili. Magari ci si riuscirà, ed è una prospettiva fantastica, ma non è certamente all’orizzonte per i prossimi anni. Per adesso, è la Cina che sta investendo più massicciamente nei robot. 

Nel frattempo ci si accontenta di cercare di differenziare le catene di fornitura, un’altra delle forti raccomandazioni che provengono dall’America e da Bruxelles. Più precisamente, la strategia invocata è la “China+1”: si continua a commerciare con la Cina, allentando nel tempo la dipendenza da questo paese, e si investe in misura crescente nei paesi a basso costo “amici”: Vietnam, India, Messico, altri. L’idea è ottima, ma molto difficile da realizzare e che rischia di essere molto costosa. Per capirlo, occorre scendere nel concreto. Non si tratta semplicemente di prendere una fabbrica e spostarla da un’altra parte. I livelli di sofisticazione raggiunti dai prodotti sopracitati, che i consumatori occidentali tanto desiderano, richiedono un sistema produttivo altrettanto sofisticato, preciso, complesso. Questo vuol dire un sacco di cose. Ci vogliono i tecnici, gli ingegneri, gli operai specializzati per produrre in maniera efficiente e garantire la qualità della produzione. Ci vuole un eco-sistema locale fatto di altre imprese specializzate che forniscono ciò di cui c’è bisogno. Ci vogliono infrastrutture logistiche adeguate per movimentare le merci in entrata e in uscita e farle raggiungere i mercati di destinazione. Ci vuole un sistema istituzionale che supporti efficacemente il sistema produttivo. Certo, si può creare tutto questo da altre parti, e ha certamente senso ed è giusto farlo, perché così si aiutano altri paesi a basso reddito a crescere e migliorare la propria economia. La Cina stessa sta investendo in questi paesi. Ma quanto tempo ci vuole? Con quali costi? Vorremmo che il nuovo sistema produttivo raggiunga gli stessi livelli di efficienza e affidabilità di quello cinese, ma non è facile come sembra. Alcune esperienze disponibili raccontano una storia più complicata: l’impianto che da poco produce alcuni modelli di iPhone in India, ad esempio, mostra livelli di efficienza minimamente non paragonabili a quelli della Foxcomm in Cina.

Più in generale, abbiamo impiegato decenni per far della Cina la fabbrica del mondo, dunque in qualche misura la “nostra” fabbrica, con investimenti dedicati e trasferimento tecnologico. I livelli di efficienza sono elevati, anche perché basati sull’esperienza e sull’apprendimento, e avere come mercato il mondo significa realizzare grandi economie di scala. Ora, con il China+1, invece di avere un sistema altamente specializzato che produce per tutti, lo spezzettiamo in due, in tre, in quattro. E’ conveniente farlo? Abbiamo un’idea di quali siano davvero i costi?

Ultimo punto. Se pensiamo di ridurre la dipendenza dalla Cina differenziando le forniture in altri paesi dell’Asean vuol dire che non abbiamo capito come funziona davvero la “Fabbrica Asia”. Non stiamo tenendo in considerazione il fatto che la Cina è il principale partner commerciale di molti di questi paesi, che le imprese cinesi hanno a loro volta creato una fitta rete di relazioni commerciali e produttive con altre imprese che operano in questa parte del mondo. Se importiamo più laptop dal Vietnam, il Vietnam importa più parti e componenti dalla Cina. Solo apparentemente abbiamo ridotto la dipendenza dalla Cina, l’abbiamo semplicemente trasformata in una dipendenza indiretta.

Ma le questioni poste in queste note sollecitano anche altre considerazioni, che saranno al centro della seconda parte di questo articolo, sul prossimo Menabò.

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