ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 211/2024

14 Marzo 2024

Il ritorno della politica industriale e l’antitrust*

Andrea Pezzoli osserva che pandemia, guerre, problemi energetici e climatici hanno accentuato la domanda di politica industriale che, peraltro, non si è mai smesso di fare anche se non si poteva dire. Ma la ripresa di interesse per la politica industriale pone diversi quesiti, tra i quali: può la politica industriale convivere con la disciplina antitrust? Cosa occorre affinché anche la tutela della concorrenza contribuisca a una strategia industriale adeguata alle sfide odierne e non ripeta gli errori del passato?

Negli anni successivi alla crisi finanziaria del 2008 una molteplicità di altre crisi – la pandemia, le guerre, l’energia, il clima – hanno riportato al centro del dibattito economico la politica industriale, termine che soltanto fino a qualche anno fa era quantomeno sconveniente pronunciare o, comunque, considerato di per sé antitetico alla politica della concorrenza. Insieme a nuovi protagonisti – la transizione ecologica, la transizione digitale, la resilienza – riappaiono vecchie conoscenze come i campioni europei (ma anche nazionali, perché no? Una volta che ci siamo…), le politiche dell’offerta, le politiche verticali, orizzontali, selettive, per settori o per fattori, le discussioni sulla capacità dei Governi di scegliere i “vincenti” e i rischi legati al sostegno dei “perdenti”. E tornano alla mente le parole saggie di Franco Momigliano che amava ricordare come l’alternativa non è mai tra politiche “neutrali” e politiche “selettive” ma piuttosto tra politiche selettive inconsapevoli e politiche selettive consapevoli attuate con la strumentazione più appropriata (CER-IRS (1986), Le Leggi della Politica Industriale, Bologna, Il Mulino).

Per coloro che, come chi scrive, ritengono che il mercato sia “una costruzione umana e che l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio” (F. Caffè, 1974), nulla di sconvolgente, anche in ragione dei risultati contraddittori prodotti dal processo di globalizzazione sia in termini di equità che di sicurezza nazionale (F. Jenny, Economic Resilience, Globalisation and Market Governance: Facing the Covid Test, Covid Economics, n. 1, 2020). Impregiudicati gli effetti sulla povertà che la globalizzazione ha in qualche modo ridotto, non si possono tacere i rischi in termini di resilienza, legati ad esempio alla dipendenza da Taiwan per i semiconduttori, e in particolare per i microchips, cruciali per la difesa e l’Intelligenza Artificiale, oppure gli effetti in termini di disuguaglianza determinati dalla distribuzione asimmetrica dei costi e dei benefici della globalizzazione, e delle delocalizzazioni in particolare, su capitale e lavoro qualificato (mobile) e lavoro non qualificato (assai meno mobile e meno in grado di beneficiare delle opportunità offerte dalla globalizzazione).

Ma… c’è più di un ma che accompagna il ritorno della politica industriale e il suo rapporto con la disciplina della concorrenza (G. Amato, Bentornato Stato, ma…, Il Mulino 2022).

Più competitivi all’interno del Mercato Unico per essere più competitivi all’esterno, ma…Il primo mariguarda le origini della nuova domanda di politica industriale che precedono le crisi degli ultimi anni e che in Europa possono farsi risalire al 2019, quando la Commissione vietò la concentrazione Siemens/Alstom che avrebbe comportato la sostanziale monopolizzazione del mercato europeo della segnaletica ferroviaria. In quell’occasione il governo francese e quello tedesco esercitarono notevoli pressioni affinché l’operazione fosse autorizzata. A seguito del divieto le perplessità dei due governi furono esplicitate in un documento comune, noto come il “Manifesto franco-tedesco”, mirante a far prevalere le ragioni della politica industriale su quelle della concorrenza, a minare l’indipendenza delle decisioni della Commissione in materia di concentrazioni e, soprattutto, a legittimare la costituzione di un monopolio oggi per meglio (?!) difendere, grazie alla costituzione di campioni europei, la competitività del nostro sistema produttivo dalla concorrenza globale e dall’aggressività drogata della Cina, domani.

Una reazione che, ben prima della crisi energetica, della pandemia e delle guerre (che senza dubbio l’hanno esacerbata), metteva profondamente in discussione il ruolo della concorrenza nelle politiche per la competitività. Non più la concorrenza all’interno del Mercato Unico per essere competitivi a livello globale, non più la creazione di un level playing field ma una politica industriale che, con la creazione di monopoli europei, pretende per proteggersi dalla concorrenza globale (spesso “sleale”) che non si è in grado di fronteggiare, 

Di qui una implicita crescente legittimazione a livello europeo di iniziative che possono essere lette anche in chiave protezionistica. Una cifra che, con diversi gradi di intensità, si può rintracciare in più di una delle nuove regolazioni che interessano gli investimenti diretti dall’estero o le grandi piattaforme digitali. Di qui, il rinnovato interesse per i “campioni europei”, che va non di rado al di là della sana esigenza di crescita dimensionale e dalla ricerca di economie di scala.

La disciplina antitrust non penalizza il monopolio acquisito per “merito”, ma…Va detto, peraltro, che dietro la reazione franco-tedesca alla decisione Siemens/Alstom non c’è solo una discutibile concezione della politica industriale ma anche una concezione altrettanto discutibile della disciplina antitrust.

La disciplina antitrust, infatti, non penalizza il monopolio acquisito grazie all’innovazione o la grande dimensione in quanto tale. Guai se lo facesse, soprattutto nel nostro Paese dove alla radice della bassa produttività sta assai più spesso il nanismo delle nostre imprese che la grande dimensione. La disciplina antitrust, d’altro canto, non dovrebbe avere l’efficienza come finalità diretta ma la protezione del processo competitivo – attraverso il mantenimento di una struttura concorrenziale – che indirettamente ha come ricaduta l’efficienza in un’economia aperta e la sua trasformazione in beneficio collettivo. Quando salta questo schema – ed ecco un secondo ma – con la disciplina antitrust schiacciata sull’efficienza del passato, il rischio che il ritorno della politica industriale aumenti la tensione con la concorrenza cresce. In altri termini, cresce la tentazione di affidare al monopolio, protetto e non contendibile, la sfida della competitività e dell’innovazione laddove, invece, le posizioni di monopolio raggiunte grazie all’innovazione andrebbero senz’altro premiate ma con profitti erodibili in un mercato aperto e plurale. 

In quest’ultimo contesto ci può essere spazio per una politica industriale che non protegga dalla concorrenza ma che piuttosto faccia fronte ai fallimenti del mercato nella transizione ambientale, promuova la ricerca e l’innovazione, sostenga gli investimenti nelle infrastrutture a redditività differita, e garantisca la necessaria autonomia su prodotti “strategici”.

Fin qui consente di arrivare persino un paper certamente non eterodosso di alcuni economisti della DG Comp (J. Piechuka et al. “Industrial Policies, Competition and Efficiencies: The Need for State Aid Control”, Journal of Competition Law and Economics, Vol. 19, 2023).

Qualche passo in più, invece, lo si può fare in linea con un recente contributo di M. Mazzucato e D. Rodrik (Industrial Policy with Conditionalities: a Taxonomy and Sample Cases, Institute for Innovation and Public Purposes, Working Paper 2023/07) che offre un ampio range di elementi sulla base dei quali condizionare il sostegno alle iniziative più idonee a indirizzare la crescita economica verso soluzioni più “verdi”, inclusive e resilienti che, il mercato da solo, non è in grado di raggiungere. Iniziative che sembrano resistere alla tentazione del monopolio oggi per stare meglio domani!

Le politiche per la transizione, per promuovere la concorrenza e per fare a meno dei monopoli che proteggerebbero dai costi sociali della concorrenza. Va sottolineato, peraltro, che si tratta di strategie industriali che i governi possono attuare senza chiedere alla disciplina antitrust maggiore “indulgenza” e flessibilità o, al contrario, senza includere tra gli obiettivi espliciti delle autorità antitrust una pluralità di interessi generali che potrebbero minarne l’indipendenza, deresponsabilizzando al tempo stesso le istituzioni più appropriate per il loro perseguimento (J. Tirole, Socially Responsible Agencies, versione estesa dell’intervento del novembre 2022 alla Conferenza della DG Comp “Making Markets Work for the People”; A. Boitani, A. Pezzoli, “Antitrust e Lotta alle Disuguaglianze: Obiettivo Esplicito o Esternalità Consapevole?”, Mercato, Concorrenza, Regole, n.1/2 2023).

C’è dunque spazio per una politica industriale non necessariamente in conflitto con la disciplina antitrust. Soprattutto c’è spazio per un intervento pubblico consapevole del contributo prezioso che, indirettamente, anche la disciplina antitrust può offrire ad una crescita economica più sostenibile e inclusiva e a un sistema produttivo più resiliente. Più consapevole, altresì, che tale contributo si può manifestare a pieno solo se gli effetti di breve della concorrenza (in alcuni casi socialmente molto costosi) possano trovare compensazione grazie a politiche pubbliche che accompagnino la transizione, si facciano carico dei “perdenti” attraverso politiche di riqualificazione dei lavoratori e a adeguati ammortizzatori sociali. Lasciare ai monopoli, europei o locali che siano, il compito di ammortizzatori sociali impropri non sembra una grande idea (A. Pezzoli, A. Tonazzi, “La sfida della ‘normalità’. Concorrenza e intervento pubblico nel post-Covid. È possibile andare oltre l’intreccio tra monopolio e assistenzialismo?”, Analisi Giuridica dell’Economia, 2020).

Senza tali politiche (che forse non è corretto includere nelle politiche industriali tradizionalmente intese), in un contesto di crescenti nazionalismi, non appare affatto trascurabile il rischio di un ritorno della politica industriale che ripeta e intensifichi errori passati, accompagnato da una sempre più estesa impopolarità della concorrenza. Ed è questo, forse, il terzo e più preoccupante ma.


* Le opinioni espresse non coinvolgono necessariamente l’istituzione di appartenenza.

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