ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 211/2024

14 Marzo 2024

Il conflitto nucleare minacciato (seconda parte)

Paolo Giovannini, nella seconda parte del suo articolo, tenta una verifica dell’ipotesi avanzata nella prima parte pubblicata sullo scorso numero del Menabò, guardando al nuovo contesto internazionale di guerre tradizionali in corso, da una parte, e multipolarità nel possesso di armi nucleari, dall’altra. Sotto molti aspetti, la minaccia nucleare si è mondializzata, perdendo così di “efficacia” e crescendo in pericolosità. Il rischio reale di un annientamento dell’umanità impone una maggiore responsabilità etica nelle relazioni internazionali.

Nella prima parte di questo articolo, apparsa nel precedente numero del Menabò, ho avanzato alcune ipotesi sulla guerra in corso in Ucraina. In questa seconda parte mi chiederò se esse risultino, almeno parzialmente, verificate. La risposta, almeno in apparenza, è negativa, trattandosi di un conflitto tra una superpotenza (nucleare) come la Russia e uno Stato, come l’Ucraina, sicuramente dotato di buona capacità bellica (come sta dimostrando in vari modi, anche in virtù di consistenti aiuti in armamenti da parte dei paesi occidentali, USA e Regno Unito in testa) ma di potenza militare neppure lontanamente paragonabile all’avversario. Persino l’ipotesi poco fondata, avanzata dalla Russia, che l’Ucraina stia dotandosi di armamento nucleare non fa di questo conflitto un credibile terreno di verifica empirica. Ma, come è chiaro, la ripetuta minaccia di Putin, direttamente o per bocca di Medvedev, di un possibile ricorso alle armi nucleari è diretta principalmente all’interlocutore oltre Atlantico, alla Nato e, in subordine, all’Europa. Su questo piano non c’è stata finora una risposta altrettanto minacciosa da parte degli Usa, ma certo la determinazione a rispondere con armi nucleari di fronte a un attacco nucleare (minimal deterrence) è data per sicura. Anzi si può pensare che la guerra in Ucraina abbia portato a una definizione più ampia della strategia americana in età nucleare, come si può vedere dal documento dell’ottobre scorso sulla Nuclear Posture Review (NPR 2023), dove analisi e valutazione sono estese anche alla Cina.

Limitarsi però a considerare la relazione antagonistica bipolare tra Russia e Stati Uniti nasconde una realtà più complessa. E non solo perché ormai da alcuni decenni si sono consolidate altre superpotenze nel panorama mondiale (Cina e India prima di tutto); non solo perché sono anche cresciuti in numero e disponibilità di armamenti nucleari numerosi altri Stati (Regno Unito, Francia, Corea del Nord, Israele, Pakistan… altri?), ma perché sotto l’aspetto che qui ci interessa il sistema si è oggettivamente mondializzato, interdipendenza e comune esposizione al pericolo sono la nuova realtà. Nella terminologia di Elias, da una figurazione a due si è transitati a una figurazione multipolare, che comprende con maggiore o minore intensità e con diversi rapporti di potere, tra loro e verso il resto del mondo, gli Stati in possesso di armi nucleari. La minaccia di un conflitto a questo livello, anche se diretta prevalentemente a un avversario, è dunque avvertita come tale a livello globale, e soprattutto chiama in causa tutti gli Stati o le alleanze che dispongono di armamento nucleare, che possono a loro volta minacciare un conflitto di questo tipo o comunque sono in grado di rispondere a un attacco, sia pure a differenti livelli di potenza. 

Su questo punto si possono avanzare alcune considerazioni. 

Primo. Quando altri soggetti si aggiungono alla relazione duale tra USA e Russia, la situazione si complica e diminuisce l’efficacia “in positivo” del conflitto minacciato. O meglio, essa persiste solo in quanto la minaccia rimanga tecnicamente credibile. Con la disastrosa conseguenza che Paesi anche relativamente poveri investano enormi quantità di risorse in armamenti per mantenere alta la capacità di deterrenza. Evidentemente le ragioni della fine dell’Impero sovietico (una rovinosa corsa agli armamenti persa dall’URSS) non sono state ben comprese… (Lapidus et al., in Bulletin of the Atomic Scientists, 1989).

Secondo. Il processo di globalizzazione è andato così avanti in questi ultimi decenni, si è fatta così stretta l’interdipendenza tra le regioni del mondo che – come stanno dimostrando gli effetti pur non così incisivi delle sanzioni in atto e anche di quelle annunciate da una parte e dall’altra – cresce l’interesse comune per arrivare ad un accordo, perché l’economia globale e quelle dei singoli Stati non possono attendere i tempi lunghi di guerre che in un passato non troppo lontano economie relativamente povere e tendenzialmente autarchiche erano in grado di sopportare. La stessa minaccia, per mantenersi credibile, non può ovviamente ripetersi all’infinito.

Terzo. Negli ultimi tempi – complice la nuova guerra in Palestina – l’attenzione sul conflitto in Ucraina si è fatta più debole e la necessità di un accordo sembra essere politicamente meno urgente. La minaccia nucleare, espressa o tacita, a sua volta si è per così dire mondializzata, con il curioso effetto di perdere efficacia mentre cresce in pericolosità. Detto tra parentesi, non è escluso che la Russia approfitti di questa nuova situazione internazionale per condurre con più calma e sotto una più distratta attenzione pubblica un processo di logoramento dell’Ucraina che finirebbe per doversi sedere a un tavolo di trattative in una posizione di estrema debolezza – tanto più se si indebolisce o viene meno il sostegno dell’Occidente.

Quarto. Anche su un altro piano, quello mediatico, dell’informazione e dei social, si sono avvertite le conseguenze della nuova situazione che si è creata in Medio Oriente. In quell’enorme palcoscenico che è diventato il mondo vengono rappresentati in tempo reale, in modalità audio e video, notizie, dichiarazioni, servizi, esibizioni, testimonianze, serie e meno serie, vere o false, che un pubblico immenso riversa quasi istantaneamente e interattivamente nella rete, azzerando i tempi della comunicazione. Ciò che è successo con la guerra in Ucraina si ripresenta regolarmente con la guerra in Palestina. Almeno nella prima fase, la guerra viene avvertita come lunghissima, piena di colpi di scena, di tragedie, di eroismi veri o presunti, di miserie, di minacce. È una accelerazione straordinaria degli eventi, e come tale vissuta dalla gente: che chiede una conclusione rapida, un accordo, una soluzione comunque, purché si trovi – che appaia giusta o ingiusta alla fine sembra importare poco. 

Quinto. In questo quadro comunicativo, con la minaccia nucleare periodicamente ripetuta sia nella vecchia che nella nuova guerra, si ripropone il fattore leadership, e in particolare la qualità del capo. Il conflitto bellico, e ancor più quello nucleare, richiede la centralizzazione del comando, e fa la differenza se il leader è ed è riconosciuto specialmente dal suo popolo come dotato di carisma o no. Su questo terreno, la competizione tra Russia e Ucraina ha visto a lungo Zelensky in vantaggio. È un fatto casuale? Direi di no, perché un sistema rigido e burocratico come quello russo difficilmente è in grado di esprimere in tempi brevi una personalità carismatica, tanto più se – come Putin – è logorata da ventitré anni di esercizio del potere. Al contrario, in un sistema più o meno democratico come quello ucraino, in un paese populista e nazionalista, ma soprattutto in un momento di crisi così drammatica (tipico terreno di coltura di personalità carismatiche) può accadere ed è accaduto che emerga un leader come Zelensky, che stabilisce un rapporto simbiotico con il suo popolo – come dimostra la ancora forte resistenza ucraina all’invasione russa – che usa abilmente i palcoscenici mondiali, imprimendo consapevolmente una drammatica carica emozionale agli eventi.

Sesto. Le condizioni interne ai singoli paesi sono difficilmente valutabili, ma anche in questo caso gli elementi di diversità rispetto al passato sono non pochi. Forse qualcuno sospetta che Putin abbia iniziato questa operazione militare per creare un diversivo dai problemi interni, o comunque per depotenziare qualche nascente speranza democratica. Normalmente, in un regime dittatoriale, poco si sa su questo punto. Ma anche qui quello che fino a ieri poteva essere occultato e represso nel silenzio generale, oggi si palesa davanti al mondo con le manifestazioni di Mosca, San Pietroburgo e altre città russe, con notizie, commenti e immagini che immediatamente si riversano nei cellulari di tutto il mondo, come è stato per la dura confrontation tra Putin e la contro-élite nera di Prigozyn. Se la guerra di Putin aveva tra le sue motivazioni quella di indebolire le nascenti istanze di rinnovamento, queste sembrano in realtà prendere visibilità e forza nelle proteste contro la guerra. Anche sotto questo rispetto, della situazione interna, lo scoppio del conflitto in Palestina ha distolto l’attenzione dai problemi di democrazia interna della Russia, consentendo a Putin maggiore margine di libertà nella conduzione del conflitto, mentre il baricentro della minaccia nucleare si veniva spostando nella regione medio-orientale.

Per concludere. La minaccia nucleare è una sorta di convitato di pietra che tutti sanno esistere e di cui tutti sono costretti a tener conto in ogni processo decisionale. L’insistente richiesta di Zelensky fin dall’inizio della guerra di una no fly zone è bloccata dalla prospettiva di una escalation militare che allontanerebbe ogni possibilità di accordo. Il confronto deve mantenersi sul terreno della minaccia, una minaccia credibile peraltro, che almeno nei propositi non espressi dei confliggenti deve rimanere tale. Se pochi decenni fa la divisione bipolare del mondo tra USA e URSS favoriva un controllo reciproco tra grandi potenze attraverso la deterrenza nucleare, oggi un mondo multipolare richiede necessariamente – su questa pericolosissima arena – una maggiore assunzione di responsabilità degli Stati o dei blocchi di Stati, che non solo nessuno si faccia tentare dall’uso militare delle armi nucleari, ma che si cessi anche l’uso politico della minaccia nucleare caratteristico della Guerra Fredda che – se aveva una sua logica in un mondo bipolare – in una realtà multipolare può avere paradossalmente l’effetto opposto, di aumentare cioè il livello del rischio nucleare.

        Anche quella consolidata dicotomia tra “etica della convinzione” e “etica della responsabilità”, di derivazione weberiana, che a lungo ha fornito ai governanti un solido punto di riferimento ideale e morale, perde gran parte del proprio senso in età nucleare, quando l’annientamento dell’umanità diventa la conseguenza possibile di un processo decisionale. Non a caso quella distinzione etica sorge nel secolo in cui si affermano gli Stati-nazione europei. Ma di fronte a una società mondiale o, meglio, a una società mondialmente minacciata dalla guerra nucleare, tende a diventare dominante, in ultima analisi, l’orientamento ispirato all’etica della convinzione, anche se ciò significa l’abbandono di un’etica della responsabilità rispetto allo stesso interesse o valore del decisore. Ciò che oggi si richiede è l’assunzione di una responsabilità più alta di fronte alla storia e all’umanità, una responsabilità etica verso valori di tipo universalistico e verso istituzioni che possano rappresentarli e difenderli (Cavalli, in Quaderni di sociologia, 2022). 

Rimane un punto che non è semplice affrontare, al quale però occorre almeno far cenno. Cosa cambia nelle prospettive ancora incerte e comunque poco conosciute di un utilizzo dell’Intelligenza Artificiale in campo militare? Di cui come sappiamo si fa già larghissimo uso, ma che pone nuovi e inquietanti problemi se pensato in un contesto di disordine internazionale e di pluralismo nucleare quale quello attuale. Per richiamare il punto centrale di questo intervento, molti degli elementi che sorreggono la reciproca credibilità della minaccia, la stessa valutazione dei rischi di un conflitto nucleare come delle sue possibili conseguenze, potrebbero in gran parte diventare di fatto competenze di settori dell’Intelligenza Artificiale. Con il risultato che i complessi processi decisionali che stanno attualmente dietro l’uso strategico e politico della minaccia nucleare rischierebbero di essere progressivamente sottratti alla possibilità di un controllo umano. I decisori pubblici finirebbero così per trovarsi confinati in una «gabbia d’acciaio» dalla quale sarebbe fuggito ogni residuo principio di eticità nella regolazione delle relazioni internazionali.

Schede e storico autori