ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 210/2024

28 Febbraio 2024

Il conflitto nucleare minacciato (prima parte)

Paolo Giovannini, nella prima delle due parti del suo articolo, si chiede se le teorie sul conflitto bellico non siano da riformulare di fronte alla minaccia nucleare, avanzata sia nella guerra tra Russia e Ucraina sia in quella più recente tra Israele e Palestina. La sua risposta è che il confronto conflittuale in età nucleare - a differenza di quello tradizionale - abbia funzioni e conseguenze reali e misurabili quando minacciato, mentre non potrebbe averne se realizzato. Questa tesi sarà sviluppata nella seconda parte dell’articolo.

Il conflitto tra Russia e Ucraina continua ad alimentare un dibattito serrato, a volte contraddittorio, sulle ragioni che l’hanno generato, sulle logiche che vi sottostanno e sulla processualità che lo va caratterizzando. Il dibattito ha ovviamente coinvolto analisti di varie appartenenze disciplinari, però nell’ambito di logiche comunicative (televisioni, social network, Internet, eccetera) e molto spesso emotive, poco adatte ad affrontare una realtà così complessa e così caparbiamente presente nella storia dell’umanità come è il conflitto bellico.

Ma anche se ci si distacca da questa drammatica contemporaneità rimane la sensazione che studiosi e ricercatori delle scienze sociali abbiano raramente prodotto ricerche e costruzioni teoriche all’altezza della straordinaria rilevanza del problema. Si è trattato, forse, di un processo di rimozione collettiva, a seguito della lunga e vincente influenza tra gli scienziati sociali (e non solo) di uno spirito di derivazione illuministica che guarda alla guerra come anormalità, considerandola quasi un incidente tecnico sulla strada di un progresso che non può non essere pacifico.

L’era nucleare, per la prima volta nella storia, pone concretamente il genere umano di fronte alla possibilità della sua totale distruzione: una possibilità che penetra fino nei territori più intimi dell’uomo, fino alle estreme regioni critiche del suo istinto di base, quello dell’autoconservazione della specie, minando di colpo lo stato della discussione scientifica. Teorie e ipotesi diventano improvvisamente inadeguate di fronte alla minaccia nucleare, mentre altre si impongono, dalla necessità di mutamenti profondi degli stessi valori individuali come di nuovi comportamenti etici nelle relazioni internazionali.

Il conflitto bellico tradizionale. Proverò allora a ripercorrere rapidamente quelle risultanze disciplinari che, pur maturate a partire da riflessioni sui conflitti e sulle guerre tradizionali (Simmel, Der Streit, 1908; Coser, Le funzioni del conflitto sociale, 1956; Bouthoul, Traité de polemologie, Sociologie des guerres, 1970), conservano ancora capacità interpretativa di realtà dove le parti sono potenzialmente in grado di far uso di armamenti nucleari. 

Il conflitto:

– può essere realistico, quando le parti perseguono interessi specifici con una valutazione dei vantaggi e dei costi relativi, e non realistico, che origina dal bisogno di rafforzare il senso di identità e di appartenenza scaricando le proprie tensioni verso un gruppo ritenuto ostile (gli ebrei, i neri, gli immigrati, ecc.,) o inventando un nemico esterno per rafforzare la propria unità di fronte alla minaccia vera o presunta di un pericolo interno. I conflitti non hanno dunque solo effetti disgregativi e dissociativi, ma anche aspetti integrativi e associativi, in quanto stabiliscono e mantengono le identità delle parti e definiscono i “confini” delle rispettive appartenenze, preservandone anche violentemente la diversità e la separatezza nei confronti dell’ambiente circostante; 

– mira a mobilitare appieno le energie dei propri membri e ad accrescere la consapevolezza dei legami che li uniscono; allo scopo, vengono elaborati sogni e fedi, spiegazioni fantasiose della situazione, mobilitati i più nascosti impulsi (spesso i peggiori) verso il nemico;

– porta quasi di necessità a una centralizzazione del potere, che però non si fa necessariamente dispotico, a meno che la solidarietà interna della società di fronte alla minaccia esterna sia inadeguata, insufficiente cioè a mobilitare naturalmente, senza interventi costrittivi, le energie del gruppo in conflitto; 

– quando in un paese il conflitto con l’esterno dura a lungo, cresce il livello di intolleranza al suo interno. I gruppi più direttamente coinvolti (i militari o i politici, ad es.) pretendono la totale accettazione di tutti gli aspetti della vita sociale, ed esigono il completo asservimento della personalità dei suoi membri. Il metro di giudizio del comportamento individuale e sociale è dato dal nemico, che funziona come modello di riferimento negativo per la valutazione – per opposizione – della condotta dei propri membri;

– il rapporto col nemico stabilisce una relazione con esso, e tende a produrre norme per regolare condizioni e modalità del conflitto;

– poiché il conflitto è sostanzialmente un confronto e una prova di forza tra avversari, un accordo è possibile solo se entrambe le parti sono o vengono a conoscenza del rapporto reale tra le rispettive forze. Ma a questo risultato si può giungere veramente solo attraverso la prova del conflitto, per cui solide e realistiche possibilità di accordo sembrano raggiungibili solo dopo un confronto conflittuale tra le parti;

– il conflitto bellico non appare però il metodo primo di risoluzione dei conflitti con la stessa facilità con la quale appariva nelle fasi precedenti: ne sia prova il fatto che negli Stati moderni i ceti preposti all’uso legittimo della violenza (come i militari) non sono politicamente egemoni, ma più spesso affiancati dalle aristocrazie del denaro o della politica;

– progressivamente però negli Stati contemporanei si è assistito a una concentrazione del potere militare in un corpo specializzato (l’esercito professionale), che monopolizza legittimamente l’uso della violenza, ma che in qualche misura vanifica la situazione di potere sociale diffuso (in un certo senso democratico) dei secoli precedenti, quando ogni uomo poteva significare un fucile, e quindi un efficace punto di resistenza dal basso. Sono dunque sempre più ristrette élites militari e politiche che condizionano le scelte strategiche e lo stesso uso della strumentazione bellica, un potere dispositivo assai poco e poco efficacemente sottoposto al controllo pubblico;

– a questo processo di centralizzazione e monopolizzazione del potere corrisponde un altro fondamentale cambiamento, il prevalere delle masse rispetto alle più strutturate aggregazioni tradizionali delle classi, dei ceti e dei partiti. È una condizione che facilita la comparsa e la diffusione di correnti di irrazionalismo, facendo leva sulle quali ristrette élites e capi più o meno carismatici esercitano un grande potere di manipolazione del consenso. Che, come vedremo più avanti, viene enormemente accentuato dalla rivoluzione tecnologica in atto.

Ipotesi sul conflitto nucleare. La prima considerazione riguarda l’impossibilità di estendere meccanicamente le logiche funzionali valide per ogni tipo di conflitto alla categoria del conflitto nucleare. In termini sociologici la possibile scomparsa dell'”oggetto” (la società) svuota il conflitto di ogni valenza causale o funzionale. Per i vincitori non ci sono premi, né mercati da conquistare né popolazioni da sfruttare. L’approccio conflittualista classico risulta dunque per larga parte inapplicabile al conflitto nucleare, o comunque svuotato di alcuni importanti elementi di positività. 

Conserva invece una sua possibilità di applicazione se ci si limita a considerare la minaccia del conflitto nucleare, cioè se si adattano le categorie sociologiche conflittualiste al conflitto minacciato e non a quello realizzato. Sulla scena del conflitto in età nucleare si recita una curiosa rappresentazione, che ha funzioni e conseguenze reali e misurabili in termini sociologici quando minacciato, mentre non potrebbe averne la realizzazione della messa in scena. 

Se è la situazione di minaccia a costituire l’unica realtà sociologicamente possibile, è difficile parlare del conflitto nucleare minacciato come di un conflitto realistico, mancando la possibilità di soddisfare esigenze e interessi specifici, di conseguire vantaggi, di calcolare costi. Ma è anche vero che la semplice minaccia, come indica per analogia tutta la letteratura sul panico, è capace di connotare realisticamente un conflitto, che può produrre tutta una serie di effetti importanti anche in mancanza della sua concretizzazione. Altri vengono invece irrimediabilmente invalidati o indeboliti. L’identità e la coesione dei paesi in conflitto possono essere ad esempio manipolativamente rafforzate dalla minaccia, ma appare debole la capacità di mobilitazione delle energie individuali e la crescita della partecipazione collettiva, per l’ininfluenza che esse presentano rispetto al carattere della guerra nucleare (tipicamente, una guerra senza partecipazione).

Quanto ai processi di centralizzazione del potere, essi risultano rafforzati dalla minaccia nucleare. Il processo decisionale viene di necessità concentrato ai massimi livelli del potere, e svolto in condizioni di ignoranza e disinformazione di gran parte della popolazione.

Questo però non sembra comportare una crescita di autoritarismo e dispotismo nelle rispettive società, essendo l’esigenza della mobilitazione meno forte che nei conflitti tradizionali. Si fa così compatibile una situazione di minacciosa confrontation nucleare con un diffuso ripiegamento individualistico, narcisistico o di evasione. 

Il conflitto nucleare minacciato può paradossalmente esaltare le valenze associative e integrative tra le parti confliggenti perché tra di esse si stabilisce una relazione di intensità tutta speciale anche se instabile. Prigionieri l’uno dell’altro per le sempre più fitte e frequenti relazioni politiche ed internazionali, i contendenti finiscono per dar vita a una nuova struttura sociale e relazionale (Elias, La società degli individui, 1987) di tipo diadico – come è stata quella tra gli Stati Uniti di Reagan e l’URSS di Gorbaciov – o di tipo triadico e più, all’aumentare del numero di Stati in possesso di armamenti nucleari. Ne risulta una produzione di regole del gioco in misura assolutamente superiore al passato, per l'”impossibilità” del conflitto di farsi realtà e perché in gioco è la specie, la comuneesistenza umana, al di là e al di sopra di ogni differenza sociale, nazionale, razziale o religiosa. Per la prima volta nella storia, c’è un importante, innegabile e oggettivo valore in comune tra le parti confliggenti, che rende la guerra nucleare radicalmente diversa dalle guerre precedenti, anche dalle più disastrose, anche da quelle che si sono concluse con un genocidio: perché a scomparire non sarebbe una società, una cultura o una razza, ma la stessa specie umana. 

Una prima provvisoria conclusione, in un certo senso rassicurante. Come si è detto, nel conflitto bellico tradizionale è quasi inevitabile che, prima di arrivare ad accordi, ci sia una prova di forza tra le parti che consenta di “misurarsi” reciprocamente. Prova che non è logicamente necessaria nell’era nucleare, non solo perché sarebbe una prova senza appello, ma perché la misurabilità delle rispettive forze in campo, con le tecnologie e le competenze a disposizione, non presenta problemi, essendo liberata dalla necessità di calcolare l’incalcolabile peso delle componenti umane, mai esattamente valutabile a priori. 

L’irrilevanza della partecipazione diretta al conflitto da parte della popolazione rende inoltre irrilevanti le differenze ideali, di carattere nazionale, di tradizione patriottica, di spirito guerriero tra i diversi “nemici”, differenze che tanto peso hanno avuto nel decidere gli esiti delle guerre passate. Nell’età contemporanea, il dominio assoluto ed esclusivo della scienza e della tecnica nel confronto nucleare possibile, la sua totale espropriazione degli individui reali, rende comparabili anche le più diverse organizzazioni sociali e nazionali, e i più lontani gruppi in conflitto, sulla base di quell’unica concreta definita misurabile variabile che è la potenza nucleare. 

Nei termini della teoria sociologica, il conflitto nucleare minacciato risulterebbe allora una specie anomala di conflitto: la sua istituzionalizzazione, la creazione di regole del gioco, non è conseguenza né è riferita all’esercizio reale del conflitto, ma allo svolgimento e alle modalità della minaccia. Nella cornice di una tacita conventio ad excludendum della soluzione nucleare, ciò che si sviluppa è una normativa del confronto – di fatto, legami associativi e integrativi (“accordi”) che si ricercano e si sviluppano non dopo ma prima del conflitto. Questo è il tema che verrà sviluppato nella seconda parte dell’articolo che comparirà sul prossimo numero del Menabò. 

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