ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 210/2024

28 Febbraio 2024

Dopo i trattori, guardando al futuro dell’agricoltura in Europa

Fabrizio De Filippis analizza la protesta degli agricoltori, le sue ragioni di fondo e la sua relazione con la ricerca di consenso nell’elettorato agricolo in vista delle elezioni europee. Le implicazioni della protesta sono ricollegate alla Politica Agricola Comune dell’UE e a come essa declina la dialettica tra agricoltura e ambiente. La conclusione è che la transizione ecologica dell’agricoltura, diversamente da quanto è finora accaduto, debba essere un percorso condiviso, in cui gli agricoltori si sentano protagonisti più che vittime.

Una protesta disordinata ma fondata. Nelle scorse settimane la protesta degli agricoltori ha fatto irruzione nelle strade e nel dibattito politico europeo e nazionale, ottenendo un’attenzione mediatica di tutto rilievo. Non è la prima volta che esplode la protesta di un settore importante sul terreno economico-sociale e ambientale, considerato strategico da cittadini e policy maker, ma caratterizzato da una serie di debolezze strutturali a cui le pur generose politiche che ad esso si indirizzano non danno risposte adeguate. 

Il malessere degli agricoltori ha le sue buone ragioni, riconducibili all’incertezza e alla scarsa redditività dell’attività agricola, stretta tra costi troppo alti e prezzi volatili e poco remunerativi, aggravata dai tanti vincoli da rispettare e dalla pesante burocrazia che ostacola l’accesso al sostegno pubblico. Ma come spesso accade in questi casi, le proteste sono apparse confuse e ambigue, tra i tanti comitati di lotta e i tanti “capi” autoproclamatisi e in polemica tra loro, nei molteplici temi evocati (i costi, i prezzi, il clima, l’accesso al credito, la burocrazia, i vincoli ambientali, la fiscalità), nei tanti interlocutori a cui si sono rivolte, con approccio più o meno ostile (il governo nazionale, l’UE, gli ambientalisti, le multinazionali, i consumatori, la grande distribuzione). Confusione e ambiguità accentuate dal fatto che le principali organizzazioni di rappresentanza degli agricoltori non hanno saputo o voluto incanalare la protesta su piattaforme e percorsi coerenti e in molti casi sono state esse stesse messe sotto accusa. 

In questo disordine si ritrovano molti temi classici delle rivendicazioni degli agricoltori, ma la questione più nuova, più rilevante e anche più controversa, riguarda la dialettica tra agricoltura e ambiente: più in particolare, la fase di transizione che interessa l’agricoltura e le relative politiche, chiamate a condizionare sempre più i propri obiettivi economico-sociali con i vincoli di natura ambientale. Ma prima di dire qualcosa su come questa questione impatta sulla politica agricola comune (Pac) dell’UE, è utile procedere con ordine, ricordando i principali snodi delle recenti vicende agricole.

L’innesco e le cause di fondo della protesta. La miccia che ha fatto esplodere la protesta si è accesa in Germania, dove gli agricoltori sono stati duramente colpiti dall’abolizione delle esenzioni fiscali sui carburanti, conseguente alla necessità di trovare risorse per finanziare gli aiuti all’Ucraina. La protesta degli agricoltori tedeschi è presto dilagata in Francia – dove pure la principale questione riguardava il livello di tassazione dei carburanti e, più in generale, la fiscalità in campo agricolo – per poi propagarsi in Spagna, in Italia e in altri Paesi.

Se questo è stato l’innesco, le cause di fondo della protesta rimandano, come si è detto, alla strutturale vulnerabilità dell’agricoltura, dovuta al cosiddetto cost-price squeeze che, specie nei periodi di inflazione, schiaccia il settore con fattori operanti a monte e a valle: a monte, il fatto di acquistare i propri input (sementi, fertilizzanti, antiparassitari, carburanti) a prezzi del tutto esogeni, imposti da soggetti dotati di enorme potere di mercato o addirittura governati da fattori geopolitici; a valle, il non avere la forza contrattuale per trasferire sui propri prezzi di vendita gli incrementi di costo e dunque essere – insieme ai consumatori – l’anello più debole della filiera dal campo alla tavola, nel cui ambito la quota di valore che resta agli agricoltori risulta sistematicamente compressa. 

Queste debolezze strutturali dell’agricoltura sul mercato e la sua esposizione a shock di natura economica, climatica o geopolitica sono emerse con particolare evidenza negli ultimi anni, caratterizzati da pandemia, crisi energetiche, eventi climatici estremi, guerre regionali e conflitti locali: ultimo della serie, il crollo dei transiti marittimi nel Canale di Suez a causa degli attacchi alle navi mercantili da parte degli Houti, con il conseguente aumento esponenziale dei costi di trasporto e con l’allungamento dei tempi di percorrenza delle rotte commerciali che impattano in modo considerevole sulle esportazioni italiane verso l’Asia. 

Insomma, la crisi dell’agricoltura ha radici profonde, aggravate dalle “tempeste perfette” degli ultimi anni, per cui l’attuale situazione di malessere del settore va presa sul serio.

Il brodo di coltura politico-elettorale. Al di là dell’innesco e delle sue cause di fondo, il principale carburante che ha alimentato la protesta degli agricoltori (e che probabilmente continuerà ad alimentarla a fasi alterne nei prossimi mesi) è l’avvicinarsi delle elezioni europee e il posizionamento delle forze politiche e dei governi per la ricerca di consenso nell’elettorato agricolo; un elettorato importante sia per gli equilibri politici interni in molti stati membri, sia per le maggioranze a livello europeo che all’indomani delle elezioni determineranno l’orientamento e la composizione delle istituzioni dell’UE. Su questo fronte il boccone grosso è la Commissione, dove Ursula von der Leyen, l’attuale presidente votata nel 2019 da popolari, socialisti e liberali, (la cosiddetta “maggioranza Ursula”) potrebbe essere confermata anche da una possibile alleanza più spostata a destra, con dentro i conservatori ma senza le frange più estreme della destra sovranista. 

In Italia questa partita politica è particolarmente importante, giacché l’elettorato agricolo appare contendibile, specie all’interno dell’attuale maggioranza di governo: da un lato, infatti, la Lega ha sempre considerato fondamentale la ricerca di consenso in agricoltura; dall’altro, il governo Meloni sul mondo agricolo ha investito e sta investendo, ribattezzando e presidiando il Ministero per la politica e la sovranità alimentare e delle foreste con una presenza politica di peso e coltivando buoni rapporti con la Coldiretti, la principale organizzazione di rappresentanza degli interessi degli agricoltori.

La dialettica tra agricoltura e ambiente. In questo quadro, rifacendomi a quanto scritto in una recente nota (L’Informatore Agrario, 7, 2024) mi sembra utile sottolineare l’importanza di una questione che anche nelle proteste degli agricoltori è apparsa molto rilevante e controversa: l’esigenza di coniugare la sostenibilità ambientale con quella economica e sociale, ricomponendo una dialettica che spesso – anche per i posizionamenti di bassa cucina elettorale cui si è accennato – scade in una contrapposizione distorta e fuorviante, tra l’estremismo delle componenti più ideologiche dell’ambientalismo e la chiusura “negazionista” di una parte del mondo agricolo. 

Questa dialettica caratterizza anche la Pac attualmente in vigore, relativa al periodo 2023-27, che sull’onda del forte impegno ambientalista della Commissione Von der Leyen scandito dal Green Deal e dalla strategia Farm to fork, è diventata meno “agricola”, più “ambientale” e più selettiva in relazione allo status e ai comportamenti dei beneficiari. Tale “inverdimento” della Pac è tuttavia avvenuto in modo maldestro e contraddittorio, risultando particolarmente indigesto per gli agricoltori, che percepiscono la Pac come una politica meno generosa, molto più complessa e quasi “nemica”, proprio sul fronte dei vincoli ambientali. 

A questo si aggiungono le lamentele – quelle sì, del tutto comprensibili – circa il duplice effetto negativo di una normativa ambientale molto più rigorosa rispetto al resto del mondo, applicata in assenza di reciprocità: da un lato, c’è l’aumento dei vincoli e dei costi e la conseguente riduzione della competitività dell’agricoltura europea; dall’altro, il paradosso del cosiddetto carbon leakage, ossia l’aumento delle emissioni a livello globale, dovuto alla sostituzione di parte delle produzioni europee, rese meno competitive dai vincoli ambientali, con quelle di Paesi dove la regolamentazione ambientale è più lasca e che, quindi, inquinano di più. Si tratta di un tema rilevante, che giustifica la richiesta d’inserire negli accordi commerciali le cosiddette “clausole a specchio”: ossia clausole volte a garantire che i prodotti importati dall’UE soddisfino requisiti ambientali sanitari, di benessere animale o fitosanitari analoghi a quelli imposti ai produttori europei.

La Pac e la transizione ecologica dell’agricoltura. Venendo alla Pac, non è la prima volta che essa deve (suo malgrado) trasformarsi, per adattarsi ai tempi e rispondere ai nuovi “patti sociali” che l’agricoltura è chiamata a rispettare: accadde con Agenda 2000, a fine anni ’90, quando da politica agricola, strettamente settoriale, la Pac diventò politica per l’agricoltura e le aree rurali, che inglobava e “metabolizzava” la dimensione territoriale con la nascita del cosiddetto II pilastro, dedicato alla politica di sviluppo rurale. All’interno del mondo agricolo molti la considerarono una contaminazione pericolosa, perché con “i soldi dell’agricoltura” si finanziavano interventi a favore di soggetti non agricoli. Ma fu un compromesso lungimirante per gli interessi agricoli, giacché scongiurò il ridimensionamento della Pac e il trasferimento delle risorse finanziarie per lo sviluppo rurale alle allora nascenti politiche di coesione; ma lo fu anche per le politiche di sviluppo rurale, che vennero affidate a una competenza amministrativa collaudata come quella agricola, senza essere disperse nel mare magnum e nei ritardi di quella che sarebbe stata la tormentata evoluzione dei fondi strutturali europei.

Mutatis mutandis, un problema simile si pone oggi con l’ambiente e con la cosiddetta transizione ecologica dell’agricoltura: questione ben più complessa e controversa, giacché le maggiori criticità della attuale Pac 2023-27 si avvertono proprio sul fronte ambientale; ma da gestire anch’essa in positivo da parte del variegato insieme di istanze e interessi che popolano il mondo agricolo, inglobando nella Pac le tematiche ambientali più che mobilitandosi contro di esse. 

Sull’onda delle proteste degli agricoltori qualche ritocco della Pac c’è stato e ci sarà, ma nello scenario attuale non c’è il tempo e lo spazio politico, nemmeno la necessaria serenità, per avviare una vera e propria revisione di medio termine che molti invocano. E’ però tempo di iniziare a riflettere sulla Pac successiva al 2027 e su come far convivere la sostenibilità economica di un pezzo strategico dell’economia e della società come l’agricoltura, con le aspettative dei cittadini europei sul fronte ambientale. La partita è molto delicata e rende necessario un confronto dialettico tra le rappresentanze degli interessi agricoli e le istanze ambientaliste. E’ infatti evidente che per un settore a forte radicamento sociale e a grande carica inerziale quale quello agricolo la transizione ecologica non può essere gestita come un dictat, quale quello che la Commissione europea ha tentato di imporre con un Green deal partorito in isolamento dal Commissario per l’ambiente, “sopra la testa degli agricoltori”; piuttosto, deve indicare un percorso, in cui gli agricoltori devono sentirsi protagonisti, non imputati e men che meno vittime.

Ovviamente la Pac dopo 2027 dipenderà anche da questioni molto più generali e in larga misura estranee al dibattito sulla transizione ecologica dell’agricoltura: tra queste, il prevalere di un approccio intergovernativo o sovranazionale nell’UE, influenzato anche alla maggioranza che governerà le istituzioni europee dopo le elezioni; le modalità e i tempi dell’entrata dell’Ucraina, con le sue conseguenze sul fronte politico oltre che economico e sociale; l’evolversi del contesto geopolitico globale verso scenari di protezionismo o di cooperazione internazionale. 

Il primo round sarà scandito dalle elezioni europee, ma qualunque sia l’orientamento della Commissione europea che verrà insediata a fine 2024, l’Italia dovrà provare a dire la sua nella nomina di un commissario all’agricoltura autorevole e in grado di mobilitare le giuste alleanze. 

Per gli agricoltori, che dalla recente mobilitazione qualcosa hanno ottenuto sul fronte della Pac, sarebbe quindi tempo di “scendere dai trattori” – e di far scendere i tanti intrusi che ci sono saliti per l’occasione, ingolositi dalla caccia al consenso – per impegnarsi in una riflessione di ampio respiro sui temi ambientali; soprattutto, affrontandoli in posizione non difensiva e con qualche buona idea condivisa, per gestire la grande sfida della transizione ecologica da protagonisti, vivendola come opportunità più che minaccia, senza sensi di colpa e senza subirla come condanna.


 [pp1]https://agriculture.ec.europa.eu/common-agricultural-policy/cap-overview/cap-glance_it

 [pp2] https://www.jstor.org/stable/1349500

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