ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 212/2024

27 Marzo 2024

Dobbiamo ridurre la dipendenza dalla Cina? (seconda parte) 

Sergio Paba, nella seconda parte del suo articolo, analizza il raffreddamento delle relazioni commerciali con la Cina, motivato con i rischi per la sicurezza nazionale e il deficit di democrazia, nonché le possibili reazioni della Cina, inclusa una nuova guerra fredda. Paba si chiede, poi, se non sia meglio sfidare la Cina sulla concorrenza evitando rischi sistemici come una battuta d’arresto nella lotta al cambiamento climatico e l’incapacità di governare sfide come quella posta dall’intelligenza artificiale.

Continuando il discorso avviato nella prima parte di questo articolo pubblicata sullo scorso numero del Menabòconsideriamo un altro aspetto del de-risking.

3. Il de-risking “cattivo”, se così possiamo definirlo, è molto enfatizzato sia negli Usa che in Europa: garantire la sicurezza e la cyber-sicurezza dei nostri paesi, dei nostri sistemi democratici, la sicurezza militare. Ci sono componenti critici, tecnologie sensibili che possono essere usati male, per scopi non-democratici, per impieghi militari. E’ un tema molto rilevante, e siamo comprensibilmente molto preoccupati per le recenti vicende in Ucraina, così vicina a noi, e per il ruolo e ambizioni della Russia, così amica della Cina, che hanno rotto l’incantesimo di decenni di convivenza pacifica. 

Prendiamo uno di questi componenti critici, i chip avanzati, ad esempio, quelli inferiori a 10 nanometri che vengono prodotti da pochissime imprese in Giappone, in Corea del Sud, negli USA, e soprattutto a Taiwan, dove la TSMC produce i più avanzati, quelli a 3 nanometri, o le macchine per la litografia ultravioletta estrema (EUV) necessarie per la produzione dei microprocessori più avanzati, prodotte da un’unica impresa al mondo, l’olandese ASML. Bene, non vogliamo che questi componenti li usi la Cina, perché della Cina non ci fidiamo più, nonostante negli ultimi trent’anni gli abbiamo fatto fare di tutto. Ora però è diventata troppo forte e troppo potente. Non è più un nostro partner, ma è un concorrente. Non è solo un concorrente, ma anche un rivale “sistemico”, come si dice in Europa, perché “promuove modelli alternativi di governance”. In parole più semplici, non è una democrazia. Ora, non c’è dubbio che la Cina sia molto diversa da noi, che abbia altri valori, che faccia cose che non condividiamo, e certamente nessuno in Europa vorrebbe importare il modello cinese di governance. Ma la Cina di oggi è la stessa di ieri, quando l’abbiamo fatta entrare nel WTO nel 2001. La Cina è un sistema politico a partito unico che si definisce “socialista con caratteristiche cinesi.” In altre parole, e semplificando molto, l’impresa statale è ancora fondamentale, ma c’è molto spazio per l’impresa privata e gli animal spirit imprenditoriali. 

Chiaramente non ci fidiamo della Cina attuale, della Cina di Xi Jinping, perché ha delle ambizioni che ci inquietano e non ci piacciono. Perché è diventata più assertiva a livello internazionale. Entra in Asia e in Europa con la Nuova Via della Seta. Investe in Africa in paesi di cui ci eravamo un po’ dimenticati e che abbiamo trascurato, che spesso abbiamo lasciato al loro destino. Investe persino in America Latina, alle porte degli Stati Uniti. Tutto questo è certamente preoccupante e ci mette a disagio. Ma siamo proprio sicuri che la Cina voglia esportare il proprio “modello di governance”? Pensiamo davvero che, sfruttando la leva economica, voglia sovvertire le forme di democrazia, dove esistono, o rovesciare governi e introdurre forme di socialismo reale come faceva l’Unione Sovietica? Non c’è in realtà alcuna evidenza di questo, né nelle dichiarazioni, né nei fatti. Taiwan ovviamente è un caso a parte, che meriterebbe una riflessione specifica. Tutto ciò non toglie che la Cina, da grande potenza quale è, voglia comprensibilmente estendere la sua influenza, ma questo in fondo è ciò che hanno fatto gli Stati Uniti in tutto il mondo dal dopoguerra in avanti, e spesso con metodi un po’ rudi.

Qualunque sia la ragione della nostra diffidenza, l’embargo tecnologico sui chip avanzati ha delle conseguenze assai più generali di quello che possiamo a prima vista pensare. Se non vogliamo infatti mettere in seria difficoltà l’economia della Cina, l’approccio alla sicurezza deve essere più fine, tipo “Small yard, high fence”: concentrarsi cioè su un’alta protezione di determinati asset o dati critici (il “piccolo cortile”) anziché cercare di difendere l’intera rete o sistema. Il punto è che molti di questi chip non sono componenti specializzati per fabbricare un missile, un drone militare, o un sistema di difesa. Possono naturalmente servire anche a questo, ma rappresentano soprattutto una tecnologia di impiego generale e vanno ovunque: negli smartphone, nei computer, nei robot e nei macchinari industriali, nelle automobili, nei pneumatici, nelle videocamere, nell’elettronica di consumo. Per avere un’idea, la Cina importa in valore più microprocessori che petrolio. Non dare alla Cina questi componenti fondamentali significa tagliare le gambe al sistema produttivo cinese, con la scusa della sicurezza. Non solo perché le neghiamo l’accesso a questa tecnologia, ma anche perché a quel punto abbiamo una buona giustificazione per non comprare smartphone cinesi (vedi Huawei), pneumatici cinesi (vedi Pirelli), automobili cinesi, videocamere cinesi e così via, qualunque sia il microprocessore che vi è incorporato. Ma tutto ciò che non compriamo dai cinesi dobbiamo farcelo da soli o farlo fare da altri, a costi presumibilmente superiori e prezzi più elevati, un esito che in quanto consumatori certo non gradiremmo. Inoltre, se noi smettiamo di comprare i loro prodotti, c’è il rischio che loro smettano di comprare le auto tedesche o americane prodotte in Cina, i dispositivi della Apple, i macchinari e le borse di pelle italiani, magari i profumi e i vestiti francesi, cosa che non piacerebbe di certo ai nostri imprenditori. In sostanza, stiamo rinunciando alla domanda della classe media cinese che dovrebbe rappresentare circa un quarto della classe media globale entro il 2030. 

Ma c’è un’altra importante argomentazione di cui dobbiamo tener conto. Come sta reagendo la Cina all’embargo tecnologico? La risposta è semplice: sta cercando di prodursi da sola ciò che noi le vogliamo negare. Sulle tecnologie e i componenti strategici vuole raggiungere l’autosufficienza, come prevede la strategia della “doppia circolazione” che ha recentemente elaborato Xi Jinping. Vuole avere intere filiere produttive al suo interno per i prodotti e le tecnologie più importanti. Può farcela? Può la Cina arrivare a sviluppare componenti critici di livello tecnologico paragonabili a quelli prodotti negli Usa, Taiwan, o Giappone? I giudizi su questo possono variare, ma la Cina ha buone possibilità di farcela, prima o poi. Ha le risorse, il capitale umano, è cresciuta molto nella quantità e qualità della ricerca scientifica, ha un governo che non aspetta altro che sostenere questo sforzo. Con l’embargo, stiamo semplicemente accelerando il ritmo della convergenza tecnologica cinese, la stiamo spingendo a raggiungerci più rapidamente proprio in quei fattori, la capacità tecnologica e innovativa, che rappresentano il tradizionale vantaggio comparato degli Usa e di altri paesi avanzati. Di recente, come riporta il Financial Times, Huawei è riuscita a sorprendere gli Stati Uniti producendo una nuova serie di smartphone con incorporato un chip che consente una performance comparabile a quella dei semiconduttori prodotti uno o due anni fa dal leader mondiale del settore. Una notizia che dovrebbe farci riflettere.

Ci conviene tutto questo? Non sarebbe tutto sommato meglio continuare a condividere la conoscenza tecnologica e scientifica, collaborare nella ricerca, che è anche un modo di controllare cosa fa l’altro, facendo in modo che anche la Cina dipenda da noi e non solo noi da loro, e preservando un sistema che facilita un uso più efficiente delle risorse umane e materiali a disposizione per la ricerca nei vari paesi, aumentando così la capacità tecnologica e innovativa a livello globale?

4. Prima conclusione. Se davvero pensiamo che la Cina sia un nostro nemico, un nemico della democrazia, se siamo convinti che voglia esportare il suo modello politico e ideologico altrove nel mondo, se temiamo che la Cina possa essere una nazione potenzialmente aggressiva e militarmente ostile, pronta ad espandersi qui e là in Asia o magari arrivare vicino a noi, se pensiamo in sostanza che la Cina sia una replica moderna dell’Unione Sovietica, allora si, vale decisamente la pena pagare i prezzi economici e di benessere associati al de-risking, al de-coupling, al friend-shoring, in ultima analisi alla frammentazione geo-economica. Sacrificare il vantaggio comparato per la sicurezza. Certo, potremmo entrare in una triste stagione che pensavamo di esserci lasciata alle spalle con il crollo dell’Unione Sovietica nel dicembre del 1991: una nuova guerra fredda e una nuova divisione in blocchi, contenti di stare nella metà del mondo dove si vive certamente meglio e dove i diritti individuali sono meglio tutelati. Ma pensiamo davvero questo?

Se però non siamo convinti e abbiamo dei dubbi, se pensiamo che la Cina sia più un concorrente dell’Europa che un “rivale sistemico”, così come peraltro lo sono gli Stati Uniti e il Giappone, allora la cosa migliore è lasciare aperta la strada della cooperazione e dell’integrazione economica, pretendendo ovviamente reciprocità negli scambi e nelle opportunità economiche. Se così fosse, potremmo continuare ad accogliere gli investimenti cinesi in alcuni settori importanti, come quello automotive o delle tecnologie rinnovabili, se portano in Europa occupazione e tecnologia, se servono ad esempio a farci procedere più rapidamente nella transizione ecologica, così come abbiamo fatto in passato con quelli americani e giapponesi.

La cosa migliore, in sostanza, è sfidare la Cina con le armi della concorrenza, non della protezione, confidando sulla capacità innovativa e manifatturiera del sistema industriale europeo. La cosa migliore è investire nel nostro principale vantaggio comparato: ricerca, capacità tecnologica e innovativa, capitale umano, ottime istituzioni. Questo peraltro farebbe un gran bene all’Europa anche nella competizione con gli Stati Uniti, dato che siamo rimasti decisamente indietro nei settori tecnologici più avanzati, contesi soprattutto dalle grandi imprese americane e cinesi. 

La Cina è certamente diversa da noi, e non da ora. La vecchia Via della Seta ha fatto commerciare per secoli cristiani, mussulmani, ebrei, induisti, buddisti, facilitando lo scambio di beni, idee e culture tra oriente e occidente. I problemi sono nati non a causa delle differenze, ma quando qualcuno di questi ha cercato di convincere gli altri ad essere come loro.

5. Seconda conclusione. Siamo tutti ben consapevoli che molte delle sfide del futuro sono globali per loro natura e richiedono una cooperazione internazionale per essere affrontate e risolte. Due di queste meritano particolare attenzione.

La prima riguarda gli effetti del cambiamento climatico e la necessità di costruire un mondo più sostenibile e carbon-free. Da questo punto di vista, le politiche di protezione e chiusura su tecnologie verdi, auto elettriche e batterie rischiano di rallentare la transizione ecologica. Gli ostacoli al commercio e la frammentazione nel mercato dei minerali critici, cruciali per molte delle tecnologie sostenibili, potrebbero ad esempio spingere in alto i prezzi, rendendo assai più costosa la transizione verso un mondo più pulito e riducendo gli incentivi agli investimenti nelle fonti rinnovabili e nella mobilità elettrica. 

La seconda è relativa alle sfide tecnologiche rappresentate dalla digitalizzazione e dall’intelligenza artificiale. Si tratta di tecnologie che per loro natura travalicano i confini nazionali e presentano enormi possibilità per l’umanità, ma anche parecchi rischi. Il loro uso e sviluppo, pertanto, richiede integrazione tra i sistemi, collaborazione, monitoraggio continuo, e una regolamentazione condivisa. Lo scenario più pericoloso è certamente la separazione di reti e applicazioni digitali, standard tecnologici e di regolamentazione distinti tra blocchi ostili di paesi. Non solo questo rallenterebbe la diffusione dei benefici associati alla nuova tecnologia, ma creerebbe rivalità e tensioni geo-politiche che metterebbero a rischio la stabilità e la sicurezza a livello internazionale. 

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