Risale al 1987 la famosa affermazione di Margaret Thatcher secondo cui «there is no such thing as society», la società non esiste. Fu formulata in un’intervista a «Woman’s Own», che contiene in essenza la visione caratteristica dell’ideologia neoliberista. L’errore fondamentale della «mentalità socialista», quello che la «Lady di ferro» si propose di sradicare mutando attraverso l’economia «il cuore e l’anima» delle persone, è credere che esista una responsabilità collettiva per i torti sociali, che esistano poteri diversi da quelli della coercizione statale che producono gerarchie, diseguaglianze inaccettabili, forme di violazione della dignità e della libertà delle persone. Poteri che non è nella possibilità degli individui contrastare, ma verso cui può agire la politica con l’intervento sociale, il welfare pubblico universale, regolazioni dell’attività economica e della vita pubblica orientati da criteri di giustizia distributiva.
Negare l’idea di società, riconoscere che esistono solo gli individui e le famiglie, ha significato sostituire all’idea di responsabilità collettiva quella di responsabilità personale. L’intento non è tanto o solo quello di enfatizzare l’autonomia dei singoli. Piuttosto, si tratta di trasferire sugli individui il compito di provvedere per sé al benessere proprio e dei propri cari, e nel far questo adempiere a un dovere verso la collettività. L’obbligo – paradossale – è quello di fare uso della propria libertà, con i rischi che ne discendono: per massimizzare il vantaggio personale ma anche per garantire al mercato di dispiegare la sua piena potenzialità regolativa.
Così la parola «libertà», separata dalle altre parole del motto della Rivoluzione francese, «uguaglianza» e «solidarietà», diviene un fattore di rottura della coesione sociale, perdita dello spirito pubblico, discredito verso la politica, sfiducia nelle istituzioni democratiche, e crollo del senso di appartenenza a una collettività, presente e futura.
Poche visioni del mondo come quella annunciata dalla negazione della società hanno avuto il potere di costruirlo, il mondo; di dare forma a interi sistemi di vita. La concezione neoliberista di individui indipendenti ed isolati, chiamati a competere tra loro e a provvedere ognuno per sé, ha decretato la crisi dell’idea di cittadinanza fondata sui diritti fondamentali, la delegittimazione del welfare come prestazione solidaristica e universalistica, la demolizione del pubblico e del comune. Questo ha comportato non solo l’allentamento dei vincoli di reciprocità e solidarietà, ma anche fenomeni di secessione delle élite dal corpo della società, diseguaglianze di classe e gerarchie di genere e “razza”, crisi della rappresentanza, frammentazione delle identità politiche, ascesa del tribalismo.
Il potere di questa rivoluzione culturale è stata tale che trovare le tracce dell’idea di società, dopo la cancellazione operata in quattro decenni, somiglia all’andare in cerca di vestigia sotto le macerie.
Su questo sfondo, la pandemia di Covid-19 si può trattare come l’esperienza del ritorno di un rimosso. Come la piaga della «cecità» del romanzo di José Saramago, l’emergenza sanitaria ha svolto il ruolo della catastrofe che insegna a vedere. Tra le illusioni che ha incrinato, di fronte agli effetti devastanti causati dalla generale impreparazione e inadeguatezza dei sistemi di risposta pubblica ai bisogni sanitari e sociali, c’è la fiducia nell’ordine economico e politico fondato sul mantra dell’efficienza della spesa e sul mercato come misura del buon funzionamento dei servizi e delle istituzioni. Nel generale sovvertimento delle priorità, nel prorompere dei bisogni universali di cura dei corpi, l’ordine assiologico che colloca l’individuale sopra il collettivo, il privato sopra il pubblico, il lavoro immateriale sopra quello materiale, la dimensione produttiva sopra quella riproduttiva, si è rivelato come l’effetto di una potente distorsione ideologica.
Con la fiducia nella promessa neoliberista di crescita e benessere, è entrata in crisi anche la visione antropologica che ne ha costituito la base, imperniata primariamente sull’individuo e la sua propensione acquisitiva e competitiva, e sulle famiglie come erogatrici di welfare sostitutivo. Non solo la condizione pandemica ha stimolato la consapevolezza dell’interdipendenza tra tutti gli esseri umani, e tra umani e non umani, ma la risposta collettiva alla minaccia del virus ha mostrato la forza che gli obblighi di reciprocità possono esercitare, mentre le molteplici forme spontanee di mutuo-aiuto e cura di prossimità hanno manifestato la vitalità del principio di solidarietà anche al di fuori del circolo ristretto degli affetti.
Già nei mesi precedenti all’arrivo del coronavirus era stato possibile osservare un processo di auto-interrogazione in corso tra gli attori del capitalismo globale. È però soprattutto quando la crisi sanitaria è andata a intrecciarsi alle altre molteplici crisi del Ventunesimo secolo, in particolare la crisi climatica e quella energetica, che è stato possibile misurare il cambiamento. Parole come «cooperazione», «condivisione» e «futuro comune» sono entrate nel lessico delle élite mondiali che si riuniscono a Davos per il World Economic Forum. Dal lato delle politiche, le misure contro i rischi pandemici, i piani per la transizione ecologica, gli interventi di sostegno ai settori produttivi e le nuove forme di protezionismo sono divenute altrettante indicazioni di un mutamento di segno nel ruolo che gli attori politici di diverso colore attribuiscono allo Stato.
Succede allora che l’idea stessa di «capitalismo» torni ad essere oggetto di dibattito, dopo decenni in cui la parola era scomparsa dal discorso pubblico. Ciò che si era reso invisibile avvolgendo l’operare quotidiano di individui, società e Stati, come l’aria che si respira, ha perso il suo carattere «naturale» per ricominciare a sollevare interrogativi intorno alla sua legittimità e alle sue basi etiche.
A emergere è il senso di una fine. La fine, annunciata dalla crisi economico-finanziaria scoppiata nel 2007 e accelerata dalla «policrisi» dei primi anni Venti, di un ordine discorsivo, prima ancora che economico e politico, che ha fatto della cancellazione della società e dell’individualismo competitivo i principi di giustificazione capaci di assicurarne egemonia.
Se per lungo tempo è stato possibile trattare l’intervento pubblico nell’economia e nella vita sociale come «il problema», elevando il mercato libero a soluzione, oggi le nuove sfide economiche, sociali, climatiche chiamano gli Stati a ritrovare il loro ruolo, nell’arena interna e sovranazionale, ma anche rifondare la legittimità degli ordinamenti democratici sulla capacità di rispondere ai bisogni fondamentali degli individui e delle comunità, e dell’ambiente che rende possibile la vita umana e non umana.
Paolo Gerbaudo ha parlato per questo dell’avvento dell’era ideologica del «neostatalismo» (Controllare e proteggere, nottetempo 2022). Più che un nuovo consenso, tuttavia, ciò che si va disegnando, in questo quadro, è un conflitto.
Avanza e si rafforza la consapevolezza del fallimento di un’idea, di una visione del mondo. Il valore stesso della «libertà», declinata nei termini dell’individualismo competitivo e come autoimprenditorialità, ha perso gran parte del suo valore seduttivo nell’opinione pubblica.
Ciò significa che la politica appare come un campo di discorsi conflittuali, che ridanno forma a quella frontiera ideologica tra destra e sinistra di cui le analisi del neoliberismo denunciano la scomparsa.
La particolare combinazione di liberismo economico, nativismo e autoritarismo che caratterizza il progetto politico della destra radicale populista in molti paesi occidentali articola l’invocazione di uno Stato forte, a protezione dei confini territoriali e a garanzia dell’ordine sociale, con una politica orientata a favorire il mercato, e un welfare dai tratti paternalistici e disciplinari. A sinistra la ricerca di un’agenda politica post-neoliberista passa invece dal controllo democratico sui processi economici, dalla saldatura tra la difesa delle libertà individuali e quella delle libertà collettive, dalla protezione del lavoro e dei diritti sociali insieme a quella dell’ambiente, e dalla lotta contro le diseguaglianze di classe, di genere e etnico-razziali.
Così, ritrovano corso nel dibattito pubblico parole a lungo dimenticate come «classe», «solidarietà», «giustizia sociale», in combinazione con temi come la giustizia razziale, di genere, climatica. Ciò impone una riflessione su come debba configurarsi un progetto alternativo nel Ventunesimo secolo, quando crisi molteplici e interconnesse obbligano a disegnare un nuovo ordine sociale che non si limiti a soli cambiamenti di rotta nel campo dell’economia.
Il riassestamento in corso riguarda non solo le forze politiche organizzate, ma anche i movimenti sociali. All’interno dei quali si avverte il limite dell’identity politics, di lotte primariamente incentrate sul riconoscimento delle identità, separate da più ampi orizzonti di trasformazione sociale.
Alcune esperienze di mobilitazione, vicine e lontane, segnalano come siano possibili, anzi siano già realtà, alleanze tra «noi» plurali, capaci di unire istanze quali la giustizia sociale e quella ambientale, la lotta per il reddito e per i diritti civili, contro le discriminazioni di genere e contro la violenza razziale. Esempi eloquenti sono l’esperienza del Collettivo di fabbrica ex Gkn di Firenze; i nuovi movimenti ambientalisti, animati dalle generazioni più giovani; il movimento femminista Ni Una Menos.
Queste nuove forme di attivismo nascono dalla consapevolezza del nesso esiziale tra le crisi molteplici del presente, segnalando il desiderio di una politica radicale che parli di solidarietà, responsabilità collettiva, uguaglianza. Una politica che chiamo «terrestre», perché assume in pieno i limiti della condizione umana su un pianeta fragile, e muove dall’interdipendenza che lega gli esseri umani tra loro e alla natura non umana.
Con buona pace di Thatcher e gli alfieri contemporanei del neoliberismo, c’è ancora e sempre ci sarà qualcosa di più grande degli individui, capace di tenerli insieme. E il problema, che oggi la «policrisi» rende così visibile, non è mai stato il credo nell’esistenza della «società», ma l’abbandono di ogni prospettiva orientata a sanarne le ingiustizie.
* La società esiste è anche il titolo di un mio volume, pubblicato nel 2023 da Laterza, che sviluppa le tesi contenute in questo articolo.