ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 212/2024

27 Marzo 2024

Politica industriale e governo del cambiamento strutturale

Roberto Romano argomenta che la politica industriale dovrebbe guidare lo sviluppo e la competitività del settore industriale, ed essere coerente con l’evoluzione della domanda di beni e servizi. Essa, quindi, ha il compito di favorire la redistribuzione settoriale dell’occupazione dai settori in declino a quelli in espansione. L’analisi settoriale per codice NACE di Italia, Francia, Germania e Spagna mostra la difficoltà del nostro paese a governare questo processo e il ritardo rispetto ai principali paesi europei.

La politica industriale è un insieme di strategie, politiche e interventi governativi mirati a influenzare lo sviluppo, la crescita e la competitività del settore industriale di un paese o di una regione. Lo scopo principale della politica industriale è promuovere la creazione di un ambiente favorevole all’industria, stimolare l’innovazione, aumentare la produttività, creare posti di lavoro e promuovere la crescita economica sostenibile. Di norma, sono utilizzate politiche fiscali a sostegno della Ricerca e Sviluppo, l’accesso al credito e incentivi fiscali per favorire gli investimenti. Sebbene non sia propriamente la definizione di politica industriale, le principali variabili della politica industriale già menzionate sono le leve governative utilizzate per guidare l’evoluzione del sistema economico.

Infatti, il percorso dello sviluppo implica la continua riorganizzazione della struttura produttiva per corrispondere alle mutevoli scelte e preferenze di consumatori e imprese, così come la nascita di nuove attività imprenditoriali. In altri termini, quando cambia la struttura economica per via delle innovazioni cambia anche il contesto socioeconomico; la tecnologia non si limita a influenzare la crescita quantitativa del PIL, essa investe ambiente e società, trasformando l’economia stessa: c’è sviluppo, non solo crescita. Questo fenomeno è direttamente legato alla legge di Engel: la crescita del reddito muta la percezione del benessere e quindi dei bisogni, alimentando endogenamente nuove e spesso più sofisticate attività industriali. Quando cresce il reddito, infatti, non si consuma necessariamente di più, piuttosto si consumano beni diversi. In ragione di questa semplice legge dei consumi, il sistema produttivo (tecnicamente) non può restare uguale nel tempo. In modo più semplice: lo squilibrio spinge il sistema economico e industriale ad evolvere e cambiare nel tempo, assieme alla società e alla sua organizzazione. In effetti, gli investimenti non sono mai uguali a sé stessi e, inoltre, sono condizionati dalla specializzazione produttiva di un Paese.

Attraverso la politica industriale è possibile ri-combinare i fattori di produzione al fine di sostenere gli investimenti che servono a soddisfare la domanda di beni e servizi legata alla crescita del reddito, e qualificare la domanda e l’offerta di lavoro per agevolare la trasformazione del tessuto economico.

Implicazioni di politica economica e industriale. Quali sono le implicazioni politiche relativamente alla politica industriale? Come già osservato, il sistema economico è in continuo movimento e questo condiziona tutti gli attori economici: capitalisti, lavoratori, Stato. La politica economica ha un compito fondamentale, cioè quello di portare avanti con successo una redistribuzione settoriale dell’occupazione da settori in declino verso settori in espansione, mentre le conseguenze del progresso tecnico sul reddito complessivo e sull’impiego del fattore lavoro saranno virtuose. Alla politica non dovrebbe interessare solo il livello dei profitti e dei salari: non esiste un profitto e un salario naturale, piuttosto ci sono salari e profitti che variano da settore a settore (A.M. Variato, P. Maranzano, R. Romano, “Rotta Next Generation: tra narrazioni ed evidenza empirica, le sfide del possibile orizzonte della politica economica italiana”, Moneta e Credito, 2020). 

Infatti, alcuni settori emergono come fondamentali per soddisfare i nuovi bisogni della popolazione a scapito di settori che arretrano nelle preferenze della stessa popolazione. I profitti e i salari dei primi non devono (possono) essere uguali ai profitti e ai salari dei secondi. 

Tra i principali documenti di politica economica e industriale possiamo considerare NGEU (European Commission, Guidance to Member States Recovery and Resilience Plans, 2020) e Industrial Pact (European Commission, A new industrial strategy for Europe,2020) che sottendono un importante programma di trasformazione economica; nelle intenzioni delle istituzioni europee, dovrebbero combinare ambiente-produttività-stabilità-equità. I cardini della politica economica e industriale europea, al netto della difficile transizione legata alla guerra ucraina, sono: 1) la transizione verde; 2) la transizione digitale; 3) la crescita intelligente e sostenibile; 4) la coesione sociale e territoriale; 5) la salute e la resilienza economica, sociale e istituzionale; 6) le politiche per le nuove generazioni. All’interno di questi cardini ci sono anche altre importanti questioni, come quella di salvaguardare: 1) le catene di valore chiave e le infrastrutture critiche; 2) l’accesso alle materie prime critiche; 3) l’autonomia strategica, diversificazione e resilienza degli ecosistemi economici chiave; 4) il miglioramento della connettività. 

Questi progetti comunitari delineano, almeno nei principi base, la necessità di cambiare il motore della macchina senza fermarla, che presuppongono politiche di piano e un orizzonte condiviso, unitamente a uno sforzo di conoscenza della propria base produttiva.

Conoscere per intervenire. Per comprendere lo stato dell’arte di un sistema industriale e quindi programmare la necessaria trasformazione, se, ad esempio, un paese produce automobili e motori elettrici sarà agevolato nella produzione di auto elettriche rispetto a uno privo di tali potenzialità” (P.G. Ardeni, M. Gallegati, Alla ricerca dello sviluppo, un viaggio nell’economia dell’unità dell’Italia Unita, Il Mulino, 2022, p. 71) è possibile utilizzare alcune variabili che più o meno possono aiutare la stessa programmazione. Per esempio, consideriamo i prezzi al consumo e i prezzi dei beni industriali al netto dell’energia dei primi mesi del 2022. La figura 1 mostra i prezzi al consumo di Germania e Italia, rispettivamente linea blu e rossa, e i prezzi dei beni industriali al netto dell’energia di Italia e Germania, rispettivamente linea gialla e grigia. Sebbene la crescita dei prezzi dell’energia sia indiscutibile e condizionante per i rispettivi sistemi economici, la Figura 1 informa che i prezzi dei beni industriali nazionali sono sistematicamente più alti di quelli tedeschi. La distanza che separa la linea gialla (Italia) dalla linea grigia (Germania) indica come e quanto la produzione di beni industriali nazionali sia disallineata da quella tedesca. È un fenomeno noto ma non per questo giustificabile. Questa tendenza è storica e, in fondo, riflette l’incapacità dell’Italia di fare i conti con i propri vincoli di struttura, in primis con un sistema produttivo diseconomico che, con le sue miriadi di piccole e piccolissime imprese, produce a prezzi sistematicamente più alti di quelli della Germania. Sebbene le PMI siano una parte importante dell’ossatura economica nazionale, la loro persistenza nei settori strategici e ad alta tecnologia conduce a una minore crescita del valore aggiunto e degli investimenti.  

Figura 1

Fonte: nostra elaborazione su dati OECD.Stat

Possiamo analizzare la struttura economica del Paese con quella di Germania, Francia e Spagna, utilizzando il codice Nace (in Italia più noto come Ateco). La figura 2 confronta in due sottoperiodi (2002-2007 e 2013-2018) i settori economici italiani rispetto all’insieme di Francia, Germania e Spagna. Gli indicatori utilizzati sono per occupato e indagano (1) l’intensità tecnologica, (2) la propensione all’investimento fisso lordo (IFL), (3) il valore aggiunto, (4) la produzione, (5) il salario. Le celle di colore verde informano dove l’Italia ha una performance non inferiore a quella media dei Paesi considerati. Non solo tra il primo e il secondo periodo le celle colorate diminuiscono, ma la distanza dalla media dei settori nazionali che erano in ritardo nel primo periodo aumenta. Inoltre, i settori in cui si osserva un vantaggio dell’Italia sono tipicamente a basso contenuto tecnologico. La figura 2 può essere ulteriormente analizzata e ognuno può studiare il settore che più interessa, ma l’insieme del tessuto economico nazionale nel tempo è diventato più debole e distante dai paesi europei, come i “saldi” dell’ultima riga confermano in modo evidente. Nel tempo è migliorata la produzione, ma al prezzo di un consolidamento del ritardo salariale, tecnologico, di investimenti e di valore aggiunto.

Figura 2

Fonte: A.M. Variato et al., cit.

In conclusione. La politica industriale non dovrebbe essere avulsa dal contesto economico e sociale europeo. Se l’insieme delle attività economiche nazionale fosse omogeneo con quello europeo, la politica industriale potrebbe ridursi a misure di accompagnamento della transizione via incentivi; se si registrassero delle divergenze in termini di struttura e di performance sarebbe il caso di considerare delle politiche pubbliche di orientamento, così come degli interventi diretti quando si registrano dei divari abbastanza rilevanti. Al fine di governare la transizione industriale è necessaria una buona conoscenza del tessuto economico nazionale al fine di indirizzare e concentrare l’azione pubblica dove è più necessaria. In altri termini, per l’intervento pubblico si prospetta un duplice impegno: 1) definire un intervento macroeconomico capace di condizionare l’allocazione delle risorse private, ma 2) combinato con un intervento microeconomico che assegni alla P.A. la capacità di realizzare beni e servizi in grado di qualificare gli investimenti privati.

Schede e storico autori