ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 209/2024

13 Febbraio 2024

Due popoli, due Stati: una discussione lunga 100 anni.

Massimiliano Massimiliani affronta la tragica questione della sistemazione territoriale tra Israele e Palestina ricostruendo la storia delle diverse proposte avanzate al riguardo. Riferendosi all’arco temporale compreso tra il Mandato britannico, successivamente alla prima guerra mondiale, e l' inizio dei negoziati di pace degli anni '90, Massimiliani dà conto dell’origine e del destino delle proposte avanzate per la costituzione di due Stati separati oppure di uno stato bi-nazionale.

Dopo gli attentati terroristici del 7 ottobre 2023 e l’invasione di Gaza da parte dell’esercito di Israele, si è tornato a parlare della soluzione due popoli/due stati per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Molti attori internazionali (USA, UE, Vaticano in primis) hanno rilanciato questa proposta dopo alcuni anni in cui il tema di un accordo tra le parti di questo conflitto sembrava non più attuale. Oggi l’opzione dei due Stati (ovvero due Stati separati territorialmente, sui confini riconosciuti ad Israele nel 1948 e Cisgiordania e Gaza) sembra difficile se non impossibile da realizzare, a causa dell’espansione delle colonie nei territori occupati, la degradazione dei rapporti tra le comunità e la guerra in corso. Il progetto due Stati è sicuramente difficile da realizzare, ma ancora oggi è, probabilmente, e nonostante tutto, più semplice di una soluzione ad uno Stato bi-nazionale (ovvero uno Stato unico su tutti i territori in oggetto in cui convivano arabi ed israeliani), che pure nella storia di questo conflitto è stata sostenuta in occasioni diverse. 

Per comprendere le straordinarie difficoltà a dare oggi soluzione a questo problema è utile ricostruire brevemente la complessa storia delle idee e delle posizioni al riguardo. 

Il ‘focolare nazionale ebraico’ in Palestina. La Palestina passò sotto il controllo britannico a seguito della dissoluzione dell’Impero ottomano, di cui aveva fatto parte, in seguito alla sconfitta subita nella Prima guerra mondiale. Dopo la guerra la Società delle Nazioni istituì – in linea con gli accordi Sykes-Picot del 1916, attraverso i quali Francia e Gran Bretagna avevano definito le rispettive zone di influenza nel Vicino Oriente –il sistema dei Mandati nei territori colonialiLa SdN affidò la Palestina (che comprendeva i territori dell’attuale Stato di Israele, di Gaza e della Cisgiordania e Transgiordania) alla tutela del Mandato britannico, mentre alla Francia fu assegnato il territorio settentrionale della Siria. Le due potenze mandatarie avrebbero dovuto gestire i territori e i futuri Stati preparando la transizione verso l’indipendenza nazionale. 

Nel testo veniva fatto esplicito riferimento agli orientamenti già espressi dal governo inglese nella cosiddetta Dichiarazione di Balfour (Ministro degli esteri britannico) del 1917 che, specularmente alle promesse fatte alle popolazioni arabe durante la guerra (soprattutto nella corrispondenza Hussein-McMahon), caldeggiava la nascita di un focolare nazionale (“national home”) ebraico in terra di Palestina. Uno dei passaggi fondamentali per spiegare la complessa situazione mediorientale è quindi la Grande guerra. Durante la guerra gli inglesi disegnarono il futuro assetto del Medio Oriente post-ottomano, costruendo una vasta rete di alleanze sia promettendo una entità territoriale ebraica al movimento sionista, sia legittimando le aspirazioni e gli appetiti delle dinastie arabe (Hashemiti in Giordania ed Iraq, Sauditi in Arabia etc.) nella spartizione del vecchio impero.

L’origine della soluzione ad uno Stato può essere trovata nel periodo tra il 1922 e il 1928 quando la Gran Bretagna considerava il territorio della Palestina come un’unità amministrativa unica in cui inserire il focolare nazionale ebraico. Le lingue ufficiali riconosciute erano l’ebraico l’arabo ed inglese. La Gran Bretagna prevedeva un Alto Commissario detentore del potere esecutivo ed un organo legislativo che sarebbe stato composto da 23 membri, 12 dei quali eletti proporzionalmente tra la popolazione delle diverse comunità (8 musulmani, 2 cristiani e 2 ebrei) mentre gli altri 11 sarebbero stati scelti direttamente dall’Alto commissario. La comunità ebraica nel Mandato britannico non fu mai entusiasta di questo progetto ed il fine della maggioranza sionista fu sempre quello della fondazione di uno Stato autonomo. Anche gli arabi non appoggiarono mai con convinzione questa linea benché sembri che intorno al 1928 le due più importanti famiglie palestinesi, prima i Nashashibi e probabilmente anche gli Husseini, si stavano orientando ad accettarlo. I numerosi scontri e proteste che percorsero la Palestina dop ola crisi del 1929 e lo scoppio della rivolta dal 1936 fecero abbandonare agli inglesi l’idea della convivenza delle diverse nazionalità in un singolo Stato, per orientarsi sulla scelta di costituire due entità territoriali separate (L. Farsakh, “A Common State in Israel–Palestine: Historical Origins and Lingering Challenges”, Ethnopolitics, 380–382).

In questi stessi anni, cioè tra il 1925 e l’inizio delle rivolte del 1929, l’associazione Brit Shalom, fu il più importante gruppo di studio ebraico che si spese per la convivenza arabo ebraica e per un assetto bi-nazionale. Tra i suoi esponenti di maggiore rilievo si possono citare, Arthur Ruppin, Yitzhak Epstein, Haim Kalvarisky, Ernst Simon e Martin Buber, che però si stabilì in Israele solo alla fine degli anni ’30 (R. Greenstein, Zionism and its Discontents: A Century of Radical Dissent in Israel/Palestine, Pluto Press, 2014, pp. 7–9).

Negli anni ‘30 la Palestina fu percorsa dalla grande rivolta araba che impegnò pesantemente le truppe di occupazione britanniche, appoggiate dalle milizie ebraiche organizzate nell’Haganah (le formazioni di difesa prima della fondazione dello Stato di Israele).

Fino alla Seconda guerra mondiale, la discussione sulla sistemazione della Palestina rimase più o meno nei termini della dichiarazione di Balfour, con gli inglesi impegnati a bilanciare le richieste ebraiche e la resistenza araba. Nel 1939 venne pubblicato il cosiddetto Terzo Libro Bianco (MacDonald) che aveva come obiettivo quello di calmare le proteste palestinesi ed arabe. Il Libro Bianco ritornava alla visione del focolare nazionale ebraico inserito in un futuro Stato palestinese non a maggioranza ebraica; inoltre, cercava di fermare la compravendita della terra e, soprattutto, limitava pesantemente le quote legali di immigrazione ebraica nei territori del Mandato britannico. Infatti, venne fissato un tetto di 75.000 ingressi nei successivi 5 anni, che coincidevano con l’inizio del periodo più drammatico delle persecuzioni degli ebrei europei. Il movimento sionista rispose a questa posizione temporeggiatrice del Regno Unito con la dichiarazione di Biltmore del 1942. La Conferenza Sionista straordinaria, riunitasi nell’Hotel Biltmore a New York City l’11 maggio 1942 alla presenza di 600 delegati, tra i quali il presidente dell’Agenzia Ebraica in Palestina David Ben Gurion, denunciò come immorali le restrizioni all’immigrazione e chiese ufficialmente la creazione di un Commonwealth ebraico, cioè di uno Stato, nei territori palestinesi.

Lo stato binazionale. Alla fine della Seconda guerra mondiale, nel 1946, fu istituita la Commissione di Inchiesta anglo-americana per la Palestina, le cui raccomandazioni vennero inviate alle Nazioni Unite per il piano di partizione del 1947, che aveva lo scopo di trovare una soluzione accettabile per i futuri assetti della regione. Come sappiamo la nuova ONU scelse il piano di divisione della Palestina storica in due Stati separati tramite la risoluzione 181. Questa commissione, tuttavia, esaminò anche con molto interesse la proposta dell’associazione Ihud (Unità) animata da Martin Buber, Judah Magnes e Moses Smilansky, di uno Stato bi-nazionale arabo-israeliano per il futuro della Palestina. Questi intellettuali ebrei avevano visto nella grande rivolta araba degli anni ‘30 un pericolo mortale per la loro causa e prevedevano un futuro difficile per uno Stato ebraico circondato da vicini ostili. Gli autori di questo testo presentavano la Ihud come “l’unione di ebrei e arabi in una Palestina binazionale basata sulla parità dei due popoli; e per l’unione della Palestina binazionale con i paesi vicini. Questa Unione sarà un’Unione Regionale sotto gli auspici dell’ONU.” (M. Buber, J. Magnes, M. Smilansky, Arab Jewish Unity, London, Victor Gollancz Ltd, 1947, 10).

Il programma elaborato da Ihud riconosceva i diversi diritti di ebrei e arabi, limitava l’immigrazione ebraica fino al raggiungimento della metà della popolazione totale del nuovo Stato, chiedeva concessioni ad entrambe le popolazioni, prendendo come modello la repubblica federale Svizzera. Anche se gli autori di questo progetto partivano da una prospettiva abbastanza unilaterale, il loro intento era quello di rovesciare il discorso politico della separazione tra le due popolazioni che la leadership sionista aveva adottato ufficialmente alla conferenza di Biltmore nel 1942. 

Un’altra soluzione bi-nazionale venne avanzata da Fatah nel 1970 nel pamphlet “Verso uno Stato democratico in Palestina per musulmani, cristiani ed ebrei”. Questa posizione, considerata inaccettabile dalla parte ebraica perché implica la scomparsa dello Stato di Israele, deve essere presa però come un decisivo passo avanti della parte palestinese. Per gli autori dell’opuscolo, infatti, il nuovo stato democratico non sarebbe una resa al sionismo, ma un traguardo rivoluzionario che avrebbe inglobato musulmani, ebrei e cristiani in una nuova realtà secolare, nemica dello sciovinismo e del settarismo religioso (Farsakh, “A Common State in Israel–Palestine”, 386–387).

L’idea dei due stati. Gli arabi in Palestina egli Stati arabi confinanti rifiutarono il piano di partizione dell’ONU. Dopo la dichiarazione di indipendenza di Israele e la conseguente guerra del 1948, l’ONU riconobbe ufficialmente lo Stato di Israele, grazie al deciso impegno di URSS ed USA, su un territorio più grande di quello disegnato dalla Risoluzione 181. L’idea dei due Stati venne abbandonata per molti anni, sia per il disinteresse di Israele ad avere un altro Stato arabo organizzato sui propri confini, sia per il rifiuto delle potenze arabe di riconoscere le decisioni dell’ONU e lo Stato ebraico. Dal 1948 fino agli anni ‘80 in Medio Oriente i principali, e forse, unici sostenitori di questa linea furono i marxisti e i partiti comunisti. L’Unione sovietica ed il movimento comunista internazionale, inoltre, ebbero un ruolo importante nel convincere il gruppo dirigente dell’OLP ad adottare questa proposta e a cancellare dalla propria carta l’obiettivo della distruzione di Israele. 

L’avvio dei negoziati di pace sulla linea dei due Stati può essere considerato una vittoria morale post mortem della sinistra di matrice marxista. Bisogna aggiungere, che il motivo più importante per cui gli accordi di pace sono andati nella direzione della creazione anche di uno Stato palestinese accanto a quello israeliano è stata l’ostinazione del popolo palestinese in Cisgiordania, a Gaza e nei campi profughi, che ha continuato a chiedere il riconoscimento della propria esistenza rifiutando una soluzione negoziata solo tra gli Stati della regione (J. Beinin, Was the Red Flag flying there? Marxist politics and the Arab Israeli conflict in Egypt and Israel, 1948–1965, University of California Press, 1990, 255–257). 

I primi atti ufficiali di apertura di negoziati diretti tra israeliani e palestinesi sono stati la Conferenza di Madrid del 1991 ed il negoziato di Mosca del 1992, in cui la presenza palestinese era ancora all’interno della delegazione giordana e non formalmente con l’OLP. Finalmente, nel settembre 1993, dopo le trattative e gli accordi di Oslo si arrivò al reciproco riconoscimento ed alla stretta di mano tra Arafat e Rabin che tutti conosciamo.

L’omicidio di Rabin a novembre del 1995 da parte di un estremista della destra nazionalista israeliana interruppe il processo di pace avviato, che comunque non prevedeva la nascita di uno Stato palestinese, ma una “entità che è meno di uno Stato”, entro i confini post giugno 1967 (Y. Rabin, “Discorso alla Knesset sulla ratifica degli accordi di pace di Oslo”, 5 ottobre 1995, Jewish Virtual Library). Nonostante le grandi speranze suscitate da quei negoziati e dai successivi tentativi, tra i quali i vertici di Camp David nel 2000, di Taba nel 2001 e di Annapolis nel 2007, i sospetti reciproci e gli errori di calcolo di tutte e due le parti hanno portato allo stallo che sembra non avere vie di uscita (R. Cohen-Almagor, “History of Track Two Peace Negotiations: Interview with Hussein Agha,” Israel Studies, 2021). 

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