ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 209/2024

13 Febbraio 2024

Chi ha paura della patrimoniale?

Enrico D’Elia si occupa di imposte patrimoniali e riflette sulla possibilità che esse, modificando la base imponibile, colpiscano oltre agli evasori anche i pensionati ed il ceto medio, sui quali la pressione fiscale è già elevata. D’Elia sostiene che l’esclusione dell’abitazione di proprietà dalla base imponibile può limitare questo aggravio impositivo, ma solo l’introduzione di una franchigia abbastanza alta potrebbe garantire l’ampio consenso politico necessario per introdurre imposte patrimoniali.

Uno spostamento del carico fiscale dal reddito al patrimonio è stato sollecitato perfino da un gruppo di multimiliardari come i Patriotic Millionaires. Non si tratta di un eccesso di filantropia ma, secondo questa associazione, del riconoscimento che “le patrimoniali potrebbero aumentare la stabilità economica e contribuire a sostenere una forza lavoro sana e istruita e una classe media di consumatori: in questo senso, gli imprenditori ricchi potrebbero beneficiare da tasse più alte”. 

Milton Friedman, in una nota lettera, ha presentato vari argomenti contro le imposte patrimoniali, mentre i pregi di una imposta di questo tipo sono stati evidenziati anche recentemente da organismi ed economisti di diverso orientamento, come OxfamFabrizio Patriarca e Fabio Marchetti. Ultimamente è tornata sull’argomento anche l’OECD, che nel suo ultimo Rapporto sull’Italia, per ridurre le disuguaglianze e migliorare l’efficienza del sistema fiscale raccomanda un aumento delle imposte su eredità e proprietà, che attualmente sono molto inferiori alla media dei paesi più sviluppati. Nonostante ciò, molte forze politiche che si dichiarano vicine agli interessi dei ceti popolari manifestano una forte avversione alle imposte patrimoniali e perfino al semplice riordino del catasto. 

Gli effetti dello spostamento dell’imposizione dal reddito al patrimonio sul carico fiscale di ciascun contribuente dipendono dalle rispettive aliquote, ma è chiaro che i contribuenti con un rapporto tra ricchezza e reddito più elevato della media rischiano di pagare più tasse con qualsiasi sistema di aliquote che lasci invariato il gettito fiscale complessivo. Tale rapporto è dunque cruciale nel determinare la convenienza di una simile riforma fiscale per ciascun individuo. 

Un diverso mix tra le due basi imponibili può avere effetti distributivi significativi perché la ricchezza accumulata (reale e finanziaria) non è generalmente proporzionale al reddito familiare, e tantomeno a quello dichiarato al fisco. In particolare, contribuiscono a far divergere i due indicatori le eredità ricevute, gli anni di attività e la possibilità di evadere parte del reddito, che è maggiore di quella di occultare i cespiti patrimoniali. Proprio per questo, gli indici utilizzati per distribuire sussidi e benefici in base alla “prova dei mezzi”, come l’ISEE, tengono conto sia del reddito che della ricchezza dei candidati, come evidenziato da FraGRa e Giovanni Gallo, nonostante i redditi abbiano la natura di un flusso periodico ed il patrimonio quella di un ammontare accumulato nel tempo.

Per comprendere meglio le ragioni della opposizione alle imposte sul patrimonio è utile analizzare i dati sulla distribuzione delle due basi imponibili (ricchezza e reddito) elaborati periodicamente per l’Italia dalla Banca d’Italia(ultimamente in collaborazione con l’Istat). Questa indagine è una delle poche fonti integrate di dati individuali su reddito e patrimonio delle famiglie italiane disponibili pubblicamente, anche se è notoriamente soggetta a vari errori di misura, dovuti alle mancate risposte (soprattutto tra le famiglie più abbuenti e tra i residenti delle grandi città e del Nord) e alla sotto-dichiarazione di varie grandezze (almeno il 20% in meno del valore l’abitazione principale; una diffusa sottovalutazione delle poste finanziarie; una forte sottostima dei redditi da lavoro autonomo e da capitale). I dati derivano dalle dichiarazioni degli intervistati (circa 16.000 individui appartenenti a 7000 famiglie ogni anno) e non sono del tutto coerenti con quelli dei conti patrimoniali aggregati per settori istituzionali elaborati dall’Istat, che sfruttano anche informazioni amministrative e stime statistiche che non sono diffuse a livello individuale. L’indagine della Banca d’Italia prevede solo correzioni marginali della sottodicharazione, ed in questo lavoro anche il reddito ante tasse è stato stimato a partire da quello netto rilevato nell’indagine tramite tecniche di regressione senza introdurre nessuna correzione per evasione ed elusione. Pertanto i dati disponibili consentono al massimo di valutare l’effetto di una variazione del mix tra imposizione sul reddito e sul patrimonio rispetto alla situazione attuale, senza ipotizzare alcuna riduzione del tax gap connessa ad un diverso sistema di prelievo. Sebbene i dati disponibili più recenti si riferiscano al 2020, è opportuno esaminare quelli rilevati nel 2016, ossia prima che la pandemia di Covid 19 sconvolgesse i bilanci delle famiglie.

Considerando le diverse fasce di reddito, la tabella 1 mostra che il rapporto tra ricchezza e reddito raggiunge il valore massimo (prossimo a 5) per le famiglie appartenenti al ceto medio (più precisamente quelle che rientrano nel terzo quinto dei percettori di reddito) e diminuisce lievemente per le fasce superiori. Ciò è contrario a quanto ci si potrebbe aspettare ipotizzando che la propensione al risparmio dei più ricchi sia più alta e quindi la loro capacità di accumulazione sia proporzionalmente maggiore. Questo andamento del rapporto si riscontra anche tra i percettori di redditi meno esposti all’elusione ed evasione fiscale, ovvero le famiglie che non possiedono altri immobili oltre a quello in cui abitano e in cui il maggiore percettore è un lavoratore dipendente o pensionato. Il rapporto tra ricchezza e reddito è molto simile per le famiglie appartenenti al quinto di reddito più elevato, a prescindere all’origine dei loro proventi. Una imposta patrimoniale indifferenziata può risultare poco progressiva, se non regressiva (sempre in base alle dichiarazioni fiscali), tra le famiglie dei tre quintili superiori, soprattutto se titolari di redditi diversi da salari e pensioni.

Disaggregando i dati per età del capofamiglia, si rileva che il rapporto tra ricchezza e reddito aumenta con l’età, conformemente alle attese (perché gli anziani hanno avuto più tempo per accumulare riserve), con una progressione più rapida della media per i percettori di introiti più facili da accertare (dal 50 al 480 per cento, contro una variazione complessiva dal 180 al 540 per cento). Questa differenza potrebbe essere spiegata, oltre che da fenomeni di sotto-dichiarazione più diffusi tra autonomi, imprenditori e percettori di redditi da capitale, anche da una dotazione iniziale di capitali proporzionalmente maggiore per queste categorie, associata probabilmente al valore del circolante e delle immobilizzazioni tecniche (molte delle quali ereditate) indispensabili per condurre un’impresa o una attività autonoma. Infatti si evidenziano differenze molto significative nel rapporto tra ricchezza e reddito a seconda della principale fonte di sostentamento della famiglia. In particolare, il rapporto è più elevato tra i lavoratori autonomi, i professionisti ed i pensionati e scende di circa tre volte passando da queste categorie agli operai. 

In base a queste evidenze, l’opposizione ad uno spostamento del carico fiscale sul patrimonio sarebbe socialmente trasversale e diffusa tra i diversi gruppi di contribuenti. Infatti, come si è visto, una imposta di questo tipo inciderebbe significativamente sul reddito dichiarato da tre quinti dei percettori di redditi più elevati. Inoltre colpirebbe, oltre ad autonomi, imprenditori e professionisti, ma anche alcune categorie che generalmente sono considerate più fedeli al fisco, come il ceto medio (che comprende gran parte degli impiegati, quadri e dirigenti) e gli anziani di ogni categoria. Risulterebbero invece favoriti i giovani (indipendentemente dalla loro condizione professionale), gli operai e gli appartenenti al primo quinto di reddito, particolarmente se non dichiarano altri introiti oltre a quello principale. Sarebbe dunque modesto il consenso politico indispensabile per attuare una riforma fiscale di questo tipo. In ogni caso, il carattere puramente dichiarativo dei dati dell’indagine della Banca d’Italia rende ardua qualsiasi valutazione sull’equità e l’efficienza di simili misure.

In effetti, tutte le proposte di introduzione di una imposta patrimoniale prevedono varie soglie di esenzione e la promessa di contestuali sgravi delle imposte sul reddito (garantendo la parità del gettito complessivo), tali da aggregare maggiori consensi. Ad esempio, la tabella 2 suggerisce che alcune resistenze contro una patrimoniale generalizzata possono essere attenuate escludendo dalla base imponibile l’abitazione di proprietà, che invece in Italia è proprio uno dei principali cespiti soggetti a tributi di tipo patrimoniale ed a tariffe proporzionali al valore degli immobili (come TASI, TARI e imposte sulle transazioni). Prevedendo una simile franchigia, una imposta patrimoniale avrebbe una incidenza abbastanza progressiva sul reddito dichiarato per entrambe le categorie di contribuenti considerate, con un sensibile inasprimento per le fasce dei contribuenti più abbienti. In linea di principio, ciò consentirebbe di preservare il carattere progressivo dell’imposizione personale anche adottando una aliquota unica sia sul reddito che sul patrimonio. Si attenuerebbe anche il rischio di penalizzare anziani e pensionati, mentre continuerebbero a subire un possibile aumento del carico fiscale imprenditori, professionisti e lavoratori autonomi, ovvero le categorie presumibilmente più esposte al rischio di evasione ed elusione. Tra le categorie che riportano un più elevato rapporto tra ricchezza (al netto della franchigia) e reddito figurano anche i capofamiglia vicini alla pensione, ma presumibilmente ancora in attività (tra 55 e 64 anni), soprattutto se non svolgono un lavoro dipendente.

Senza alcuna franchigia, una imposta patrimoniale sulla ricchezza lorda coinvolgerebbe virtualmente tutte le famiglie di ogni categoria. La percentuale delle famiglie che possiedono altri asset oltre alla casa di abitazione è infatti abbastanza elevata ed è omogenea tra le diverse categorie, pertanto il fronte dei contribuenti ostili ad una imposta patrimoniale resterebbe ampio e trasversale anche escludendo l’abitazione principale dalla base imponibile. La tabella 3 mostra che, anche precedendo questa esenzione, la quota di famiglie tenuta a versare qualche imposta sul patrimonio non scenderebbe in media al di sotto del 72%, e quindi potrebbe ancora suscitare la diffidenza di un’ampia maggioranza dei contribuenti nonostante la garanzia di sconti sulla tassazione del reddito. La percentuale di famiglie coinvolte supera il 40% anche tra quelle che rientrano nel quinto più povero (in base ai redditi dichiarati) e sale fino a sfiorare il 95% tra i più abbienti. Le resistenze sarebbero più deboli solo tra i giovani e gli operai, che risulterebbero comunque soggetti all’imposta in oltre la metà dei casi. 

Si potrebbe registrare un consenso maggiore limitando la patrimoniale a chi possiede attività reali e finanziarie (inclusa l’abitazione di proprietà e al lordo delle passività) per oltre 480 mila euro, che corrisponde alla soglia superata solo dal 10% delle famiglie più ricche nel 2016. L’ultima colonna della tabella 3, infatti, mostra che in questo caso verrebbero coinvolte solo quote marginali degli appartenenti ai primi tre quinti di reddito; tra l’11 e il 13% delle famiglie con persona di riferimento over 45; tra il 24 e il 35% dei lavoratori autonomi, imprenditori e professionisti. Verrebbe dunque accentuato il carattere progressivo dell’imposta e si escluderebbe la maggior parte delle famiglie, che potrebbero dunque aspettarsi soprattutto una riduzione dell’incidenza complessiva delle imposte pagate attualmente sul reddito dichiarato. Per altro salirebbe significativamente la pressione fiscale sul patrimonio imponibile residuo necessaria a garantire l’invarianza del gettito. Non è certo se ciò renderebbe più equo ed efficiente il sistema fiscale, visto che molti evasori si annidano proprio tra i contribuenti appartenenti ai primi quinti del reddito dichiarato, tuttavia una soglia di esenzione così elevata renderebbe meno indigesta anche per questi ultimi una riforma che potrebbe contribuire alla riduzione di evasione ed elusione.

Il consenso (informato) sulle riforme fiscali è strettamente collegato a quello sull’ammontare e la composizione della spesa pubblica, quindi non basta ridurre le imposte per costruirlo ed ha poco senso proporre riforme che non riguardino allo stesso tempo sia le entrate che le uscite della PA. Esistono anche evidenze che una pressione fiscale più elevata può aumentare il benessere complessivo e la capacità di risparmio delle famiglie attraverso la fornitura di servizi pubblici (come sanità, istruzione e trasporti collettivi) a costi potenzialmente inferiori a quelli di mercato. I risultati precedenti, tuttavia, suggeriscono che uno spostamento del carico fiscale dal reddito al patrimonio lordo, di per sé, non può contare su un consenso politico abbastanza largo se la base imponibile comprende l’intero ammontare della ricchezza detenuta dalle famiglie e perfino se si esclude solo il valore dell’abitazione di proprietà. Una soglia di esenzione molto alta avrebbe maggiori probabilità di convincere la maggior parte dei contribuenti a pagare almeno una parte delle imposte in base alla propria ricchezza piuttosto che al reddito (dichiarato). Tuttavia è inevitabile che una operazione di questo tipo comporterebbe vantaggi solo per alcune famiglie (probabilmente la maggioranza) compensati da aggravi, anche ingenti, su altre. L’intera operazione richiede dunque una lunga fase di negoziazione e probabilmente un mutamento degli equilibri politici.

Tabella 1 – Ricchezza complessiva in percentuale del reddito lordo dichiarato

(*) Esclusi i percettori di redditi immobiliari o altri proventi.

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