ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 209/2024

13 Febbraio 2024

Pietro Modiano, Marco Onado,

Illusioni perdute

Pietro Modiano e Marco Onado, presentando il loro recente volume (Illusioni perdute. Banche, imprese, classe dirigente in Italia dopo le privatizzazioni, Il Mulino, 2023), argomentano che la politica di privatizzazioni avviata negli anni Novanta è stata l’ennesima occasione mancata della storia economica italiana rispetto alle imprese industriali ma non per il settore bancario, dove è stata superata la frammentazione con la formazione di almeno due gruppi di statura europea.

Il nostro libro (Illusioni perdute. Banche, imprese, classe dirigente in Italia dopo le privatizzazioni, Il Mulino, 2023)parte da due esperienze professionali parallele: gli autori hanno creduto che le privatizzazioni avviate dal Governo Ciampi nel 1993 potessero essere la grande occasione per risolvere i problemi ormai endemici che il Paese si trascinava da decenni, culminati nella gravissima crisi del 1992 e si sono impegnati perché queste riuscissero. Era infatti un triplice shock: il tramonto della classe politica; un trasferimento di ricchezza che si rivelerà superiore a quello di ogni altro paese avanzato; l’integrazione europea con la moneta unica dietro l’angolo.

I risultati sono stati diversi e sono riassunti in tre grafici: uno iniziale che dimostra la lenta ma inesorabile diminuzione del tasso di crescita dell’economia italiana a partire dagli anni Sessanta; un altro nella seconda parte che indica la riduzione del peso dell’economia italiana rispetto alle maggiori economie; un terzo che indica come la produttività totale dei fattori (termometro dell’efficienza di un sistema economico) è cresciuta in Italia al passo con Stati Uniti e Germania solo fino all’inizio degli anni Ottanta, per poi declinare costantemente mentre gli altri due continuavano a crescere.

Non era comunque la prima occasione perduta. È stato quindi naturale cercare di risalire a tutte quelle precedenti, per capire se unendo i puntini, come nei giochi elementari, si intravvedesse un disegno complessivo. Al termine del boom degli anni Sessanta, un grande banchiere, Raffaele Mattioli, puntava l’indice verso l’intera classe dirigente, osservando che si trattava di un problema storico, con queste parole: «Tutto il periodo dall’Unità a questo secondo dopoguerra può in realtà configurarsi come una serie di occasioni e di tentativi diretti a dare finalmente vita a una classe dirigente adeguata» (enfasi nell’originale). Classe dirigente che, nell’analisi del libro, include le responsabilità apicali della politica, degli apparati dello stato e dell’impresa, le loro alleanze, i loro sistemi di potere.

In effetti, questa chiave interpretativa regge alla luce dei fatti avvenuti a partire dal boom degli anni Sessanta. Prima la crisi del 1962-63, aggravata da una drammatica fuga di capitali, e dalla caduta degli investimenti privati. In gran parte determinata dalla reazione di una parte del mondo economico e politico e dei ceti medi alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, alla programmazione economica e all’ingresso dei socialisti al governo. 

L’altra grande occasione perduta è quella degli anni Settanta. Dopo lo shock petrolifero, l’Italia anziché imboccare la strada del rinnovamento produttivo, preferisce la via finanziaria allo sviluppo, aumentando i debiti di imprese (in questo modo mantenendo in vita imprese decotte) e del settore pubblico. Chi predica e pratica il rigore è visto da molti come un ostacolo. Non a caso il decennio si chiude con l’infame attacco alla Banca d’Italia e le dimissioni del governatore Baffi, la voce più limpida che predicava il rigore. Sono gli anni di piombo dell’economia italiana.

Fu in quell’occasione che Ugo La Malfa, ministro del Tesoro, dichiarò sbigottito di aver ricevuto le pressioni di “mezza Italia” per autorizzare l’aumento di capitale Finambro a pochi mesi dal crackUna delle idee portanti del libro è proprio qui: che quella “mezza Italia” allora sconfitta (a prezzo della vita di Ambrosoli e delle dimissioni delle massime cariche della Banca d’Italia) è un’idra dalle cento teste, capace di ripresentarsi ogni volta in forme nuove e di inquinare i passaggi fondamentali della vita economica del paese. E infatti dominerà la scena poco più tardi con il crack del Banco Ambrosiano di Calvi, in un torbido intrico di alleanze con la finanza vaticana (ancora lo Ior) e la loggia segreta massonica P2.

Anche gli anni Ottanta furono un’occasione perduta. Il libro non condivide la nostalgia che molti oggi provano per quel periodo: si tratta di un decennio in cui tutto poteva essere, e non è stato. Ne sono una prova gli insuccessi nell’internazionalizzazione delle grandi imprese e di una grande banca, ma soprattutto la miopia della politica e della classe dirigente in generale nel non aver capito che la “via finanziaria allo sviluppo” era incompatibile con tassi di interesse che stavano diventando elevati e positivi in termini reali. E soprattutto mentre con una mano si firmavano impegni europei che richiedevano rigore finanziario e vietavano tassativamente gli aiuti di Stato, con l’altra si continuava allegramente con la politica di espansione del debito pubblico e delle imprese, soprattutto pubbliche. 

I governi di pentapartito degli anni Ottanta hanno la responsabilità di un’azione insufficiente sul piano del contenimento del disavanzo pubblico, ma hanno soprattutto due altre colpe: la mala gestio dell’impresa pubblica, e – soprattutto – “la miopia nella gestione dei rapporti con l’Europa”. Non hanno capito come i vincoli europei, e in particolare il divieto di aiuti di stato, avrebbero reso necessario non solo il risanamento delle imprese pubbliche ma anche l’avvio tempestivo di un programma di privatizzazioni. 

Inoltre, gli anni Ottanta vedono l’ascesa del potere di Silvio Berlusconi, imprenditore certo innovatore e lungimirante, ma che deve il suo successo all’inerzia della politica, che fa passare 14 anni da quando si aprono le trasmissioni televisive ai privati (ma su base locale) alla disciplina, che a quel punto non poteva che ratificare lo status quo.

Neppure negli anni Ottanta si realizzò un vasto processo di riforme per il mercato finanziario (trasparenza, tutela degli azionisti di minoranza) invocato fin dai tempi della Costituente. L’unica eccezione riguardò il sistema bancario, perché la Banca d’Italia favorì a partire dall’inizio del decennio un graduale, ma fondamentale processo di trasformazione dell’ordinamento che risaliva al 1936.

La crisi del 1992 fu quindi il redde rationem delle occasioni perdute fino ad allora, ma venne superata dalle misure incisive prese prima dal governo Amato e da quello Ciampi, che appunto avviò le privatizzazioni. Ma subito dopo, nel 1994, Silvio Berlusconi vinceva le elezioni e doveva dominare la scena politica nei decenni successivi.

La seconda parte del libro è dedicata alle privatizzazioni e alle loro conseguenze. Si osserva preliminarmente che il processo fu dettato dalla drammaticità della situazione finanziaria del paese: mancò un ampio dibattito precedente sia sui modelli proprietari da adottare, sia su quale modello di capitalismo fosse il più adatto a rimpiazzare quello di economia mista che nei primi decenni del dopoguerra aveva dato ottimi risultati.

L’analisi delle vicende a partire dal 1994 (prima privatizzazione: Credito Italiano) porta a conclusioni nettamente divergenti per imprese e banche. Per le prime il giudizio è negativo. Emblematico è il caso di Telecom. In quell’occasione il grande capitale privato italiano partecipò per puro onore di firma. Anziché contribuire alla formazione di un nocciolo duro che garantisse stabilità al management, mise insieme un “nocciolino duro” (con Fiat che si limitò ad un micragnoso 0,6 per cento del capitale) che non solo non fu in grado di sostenere la crescita strategica di quello che era allora un gioiello nazionale, ma pose le premesse per un declino inesorabile. Lo scalatore Colaninno e i suoi soci usano i vecchi metodi: pochi capitali, molto debito e una lunga catena di società che esercitano il controllo. Sono quelli che D’Alema, presidente del consiglio, benedice inizialmente come “capitani coraggiosi” che però spolparono la società, prima chiedendo lauti dividendi per pagare gli interessi sui debiti, poi scaricandoli direttamente sulla società, con le conseguenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Una società pubblica, messa sul mercato con una posizione finanziaria solidissima, finì soffocata da una montagna di debiti.

Analoghi comportamenti opportunistici, se non predatori, emergono in occasione di altre privatizzazioni come Seat-pagine gialle o Autostrade. 

Non è un paradosso e neppure un caso che le privatizzazioni di successo siano quelle in cui lo Stato ha mantenuto qualche forma di potere: Enel, Eni e così via.

Diverso è il quadro delle privatizzazioni in campo bancario, per le quali il giudizio è sostanzialmente positivo: si è superata la frammentazione di inizio anni Novanta, si è arrivati alla formazione di due colossi di stazza internazionale, si è superata la crisi finanziaria con un costo per i contribuenti largamente inferiore a quello di altri grandi paesi europei, a cominciare da Francia e Germania. Rimane il rimpianto per due risultati che non sono stati raggiunti: la mancata formazione di un grande attore internazionale nel campo dell’investment banking e in quello del risparmio gestito. Per il primo aspetto, pesa anche il lento declino di Comit dopo la privatizzazione che l’aveva di fatto portata sotto il controllo di Mediobanca; per il secondo, la crisi finanziaria che ha alla fine portato alla vendita ad un operatore straniero dell’unica vera iniziativa di internazionalizzazione in questo campo.

A questo punto, gli autori tirano le somme. L’Italia continua ad essere un grande paese industriale, privo però di un vertice di grandi imprese private di respiro internazionale. Rimane il fiore all’occhiello della media impresa di successo, ma complessivamente troppo piccola per trascinare il resto del paese. Per contro, l’Italia si caratterizza oggi per un peso della microimpresa, sotto i 10 addetti, enorme (oltre il 40 per cento) e quasi doppio rispetto a Francia e Germania. Microimprese che sopravvivono grazie a salari bassi (la cura di aumentare la flessibilità del lavoro ha dato risultati opposti a quelli sperati) o all’evasione fiscale e che comunque pesano negativamente ai fini della determinazione della produttività totale dei fattori.

Ciò conferma un’intuizione di un grande economista, William Baumol, secondo cui gli imprenditori non sono tutti uguali e possono essere classificati in tre categorie: produttivi, non produttivi, distruttivi, superando lo schema schumpeteriano dell’imprenditore sempre innovatore e quindi fonte di progresso. La collocazione degli imprenditori fra le tre categorie dipende dagli incentivi che il sistema nel suo complesso riconosce. Quando prevalgono incentivi positivi, gli imprenditori fanno scelte produttive, come nel caso della Rivoluzione industriale inglese. Quando prevalgono incentivi opposti il risultato sono scelte non produttive o addirittura distruttive. È uno schema che sembra adattarsi perfettamente al caso italiano, che ha oggettivamente creato un sistema di incentivi capace di premiare comportamenti non produttivi o addirittura distruttivi.

Tutto ciò giustifica il titolo del libro: Illusioni perdute, come il romanzo di Honoré de Balzac ambientato nella Francia di Luigi Filippo. Il pessimismo della ragione che domina questa scelta non esclude l’ottimismo della volontà che deve guardare al futuro e puntare al cambiamento. Il che richiede però un’approfondita analisi dei problemi attuali della società italiana e uno scatto morale collettivo. Come disse lo stesso Honoré de Balzac, citato dagli autori al termine del libro, «Il pensiero è per coloro che devono trovare la forza interiore dopo il tempo del disincanto”. La parola passa alle nuove generazioni, che formeranno le future classi dirigenti e che dovranno essere migliori di quelle precedenti. 

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