ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 209/2024

13 Febbraio 2024

Andrea Boitani, Roberto Tamborini,

Nuove regole fiscali europee: ascensore per il declino?

Andrea Boitani e Roberto Tamborini sostengono che contrariamente alla narrazione governativa, il nuovo Patto di stabilità uscito dall'Ecofin non è affatto un compromesso accettabile. E non perché forse sarà necessario qualche punto in più di austerità, ma perché si indebolisce la UE di fronte alle sfide del futuro prossimo. Come nel dilemma del prigioniero, gli interessi nazionali e la sfiducia hanno prodotto una soluzione in cui tutti finiremo per perdere, destinati al declino e all'irrilevanza, risucchiati nelle sfere d’influenza altrui.

Nel giudicare l’accordo sulla riforma delle regole fiscali europee – il nuovo Patto di stabilità e crescita (PSC) – faticosamente raggiunto il 20 dicembre 2023 all’Ecofin, è bene non assecondare la narrazione governativa del compromesso accettabile. Si tratta, in realtà, di un compromesso di bassissimo livello tra sovranisti “perbene” (i soliti paesi del Nord con l’aggiunta della Francia) e sovranisti “maleducati” (tra cui ora l’Italia). Un compromesso – come è stato rilevato da più parti – al servizio di interessi elettorali di breve e medio periodo, certamente non finalizzato alla “ever closer integration”, che pure è scritta nei Trattati, e alla promozione di quella logica cooperativa e solidaristica di cui si era intravista l’alba con il Next Generation EU (NGEU), varato nel bel mezzo della pandemia da Covid 19 a luglio 2020 (C. Bastasin, “Conceptually flawed and politically risky after the transitory period. The new proposed European economic governance reform”, LUISS, IEAPP, Policy Brief 19/2023, 31 dicembre 2023). Il recente accordo raggiunto nel cosiddetto “trilogo” tra Consiglio Europeo, Commissione e Parlamento Europeo ha corretto solo in alcuni dettagli l’impianto varato dall’Ecofin, che rimane quindi il riferimento decisivo per ogni valutazione.

D’altro canto, è opportuno distinguere nettamente tra le critiche di destra, che sono alimentate da visioni euroscettiche e nazionaliste, e quelle di sinistra, nutrite da visioni progressiste ed europeiste. Occorre anche evitare un metro di valutazione basato solo sugli impatti del nuovo PSC sull’Italia. I commentatori e i politici (soprattutto di maggioranza, ma anche quelli di opposizione sono caduti in tentazione) si sono chiesti in prevalenza se le regole emerse dal 20 dicembre siano più o meno onerose per l’Italia; se ci obblighino a più o meno austerity rispetto alle regole precedenti; se, quindi, vincolino di più o di meno la nostra politica di bilancio nel breve e nel lungo periodo. Si è verificata, dunque, una strana convergenza nelle opinioni tra turbo-euro ed euro-scettici sul metro di misura (sbagliato) dell’interesse italiano: ex ante, nel criticare la proposta originaria della Commissione (poi quella del Parlamento europeo) e nel sostenere che forse conveniva il vecchio PSC, ex post nel considerare che quello nuovo non è poi così oneroso (e forse è meglio) del vecchio. A nostro avviso, il nuovo PSC andrebbe valutato sulla base della sua capacità di garantire all’Italia non soltanto una sana politica di bilancio ma anche la sua prosperità coniugata con la prosperità dell’Europa (o almeno dell’Eurozona) nel suo insieme, favorendo, in particolare, il raggiungimento degli obiettivi epocali che l’Europa si era data col NGEU, e cioè la transizione verde e la transizione digitale, insieme a una maggiore resilienza sanitaria.

L’accordo dell’Ecofin di fatto indebolisce, quando non cassa del tutto, i principali punti innovativi della prima proposta della Commissione (novembre 2022), la quale, è bene ricordare, riprendeva alcuni princìpi largamente condivisi emersi nella consultazione pubblica lanciata nell’autunno del 2021 (si veda la sintesi sul Menabò n. 172, 2022). In estrema sintesi, la Commissione proponeva di passare da un (complicato) insieme di regole uguali per tutti a un ventaglio di percorsi individuali concordati dalla Commissione con i singoli paesi per mantenere il debito pubblico su un sentiero di sostenibilità o ricondurvelo ove fosse alto il rischio di abbandonarlo. L’obiettivo, si riconosceva allora, è la sostenibilità del debito e non necessariamente la sua riduzione. Questo approccio è stato sempre malvisto dal governo tedesco e, in particolare, dal suo ministro delle Finanze, Christian Lindner, presidente del FDP – socio minore (ma determinante) della “maggioranza semaforo” che governa la Germania. 

Già nell’aprile 2023 la Commissione aveva emanato una nuova proposta in cui il governo tedesco, spalleggiato da altri sedicenti frugali, era riuscito a far inserire una clausola di salvaguardia che imponeva ai paesi molto indebitati la riduzione di almeno un punto percentuale all’anno del rapporto debito/Pil. Non sembrava granché, ma era il segnale che si stava preparando il ritorno delle regole fisse, anzi differenziate solo in base alla condizione debitoria di partenza. Era l’avvisaglia del ritorno alla divisione tra Nord-Est e Sud-Ovest. 

Non è chiaro cosa abbia fatto il nuovo governo italiano tra novembre 2022 e aprile 2023 per evitare che si aprisse la breccia nel nuovo framework proposto dalla Commissione. Non sembra che abbia ricercato con convinzione l’accordo con Francia, Spagna e Portogallo per difendere la proposta della Commissione. Non sembra neanche che il governo si sia mosso con particolare efficacia tra aprile e dicembre 2023. E così nel cosiddetto “compromesso accettabile” è finita un’ulteriore clausola di salvaguardia, che, come sostengono Carnazza e Carnevali [M1] in questo numero del Menabò,riporta in auge addirittura il saldo primario “strutturale” e tutte le variabili non osservabili (e la cui stima ha il difetto di fluttuare assai) che nel 2022 si voleva lasciare da parte. Questo risultato, dunque, deriva anche da responsabilità del nostro paese: una sostanziale mancanza di strategia da parte del governo (mostrare i muscoli in nome del sovranismo da esibire al popolo, ma senza esagerare; alleanze inesistenti o sbagliate; assenza di vere e sostanziali alternative e asset di scambio politico). 

Insomma, il “compromesso accettabile” ripropone in realtà l’ossessione per le regole fisse che caratterizza, fin dalle origini, l’impostazione del PSC. Poco importa che tali regole siano adesso, forse, un po’ meno stringenti (non è chiaro se anche un po’ meno complicate) di quelle previste dalla versione del 2011-12 con il famigerato fiscal compact (la riduzione del rapporto debito/Pil di almeno un ventesimo della differenza tra il livello effettivo di tale rapporto e l’obiettivo del 60%). Come detto, nel “trilogo” Commissione e Parlamento non sono riusciti a far valere le proprie ragioni, se non ottenendo correzioni al margine. La cosa più rilevante sembra essere che è divenuto più semplice (rispetto all’accordo Ecofin) ottenere un allungamento dei piani di rientro fiscale dei paesi fortemente indebitati da 4 a 7 anni, con ciò riducendo l’entità dell’aggiustamento annuo richiesto. Austerità un po’ più diluita, insomma.

A dirla tutta, il nuovo PSC contiene una serie di incongruenze tecniche e non risolve nessuna di quella emerse nella versione precedente. Lasciamo stare la confusione (certo non necessaria) generata dall’adozione di una regola della spesa, in realtà formulata in modo che sia, nei fatti, una regola sull’avanzo primario in qualche modo aggiustato per il ciclo, dal momento che la spesa viene definita come “la spesa al netto degli interessi, delle misure discrezionali sulle entrate, della spesa per la disoccupazione ciclica” Il che, come detto, ci riporta ai problemi di misurazione del ciclo e di stima di alcune variabili osservabili, come il Pil potenziale e l’output gap misurato come scostamento tra Pil effettivo e Pil potenziale. 

In realtà, del Pil potenziale si potrebbe fare tranquillamente a meno limitandosi a utilizzare il Pil di trend e quello effettivo per individuare la posizione ciclica. La Commissione, però, prescrive diversamente nei suoi documenti tecnici sull’analisi di sostenibilità del debito. Una cosa è certa: se si vogliono evitare effetti pro-ciclici, il sentiero di discesa del rapporto debito/Pil deve essere interrotto o, quantomeno, reso meno ripido, con buona pace delle clausole di salvaguardia. E tutto ciò senza considerare che tra le variabili che entrano nell’equazione della dinamica del debito vi sono relazioni funzionali ben note.

Per esempio: esiste una relazione tra deficit di bilancio e tasso di crescita del Pil (si chiama “moltiplicatore” ed è anche variabile a seconda della posizione ciclica), così come esiste una relazione inversa tra lo stesso tasso di crescita del Pil e il tasso di interesse reale. Non tener conto del moltiplicatore assumendo che nel medio-lungo periodo l’economia cresce al tasso potenziale è un tipico difetto del vecchio PSC, presente anche nel nuovo. Come nel vecchio PSC, vengono ancora ignorati gli effetti di spillover delle politiche fiscali tra diversi paesi dell’Eurozona, per cui un insieme di paesi che contemporaneamente perseguono politiche restrittive di aggiustamento fiscale creano un atteggiamento fiscale complessivo molto restrittivo, che impatta negativamente sul tasso di crescita del Pil e, quindi, fa aumentare il rapporto debito/Pil dei paesi “in trattamento” e forse anche dell’intera Eurozona, compresi i paesi teoricamente “forti”. Si potrebbe continuare con le incongruenze tecniche, ma conviene fermarsi qui.

Perché, purtroppo, il nuovo PSC fa anche di peggio. Esso indebolisce la UE a fronte delle grandi sfide del futuro prossimo, minando la possibilità che si realizzino gli investimenti pubblici necessari alle transizioni di cui s’è detto. Quelle sfide richiederebbero di andare molto oltre quanto stanziato nei vari PNRR e anche oltre un coordinamento (peraltro assente) delle diverse politiche di bilancio nazionali. Nello stesso tempo (e conseguentemente) il nuovo PSC finisce per indebolire ciascun paese, sia quelli ritenuti “forti” (come la Germania e gli altri nordici, che però non lo sono poi tanto) che, a maggior ragione, quelli “deboli” (tra cui il nostro). Come nel tipico dilemma del prigioniero, la sfiducia ha prodotto una soluzione in cui tutti finiranno per perdere. Non perché dovremo fare qualche punto in più di austerità (l’ossessione su cui si è concentrata l’attenzione dei politici e dei media italiani), ma perché cadremo tutti insieme nel declino, nell’irrilevanza, risucchiati nelle sfere d’influenza altrui (come l’Italia post rinascimentale). 

Alcuni pensano che le regole fisse siano la soluzione obbligata del problema della sfiducia reciproca tra i paesi europei. Ma come la storia di questi ultimi venticinque anni si è incaricata di dimostrare, si tratta di una soluzione sbagliata, perché quando si arriva veramente al dunque, risulta politicamente molto difficile imporre il rispetto delle regole a chi davvero non vuole rispettarle (specie se è un paese grande e pesante, come l’Italia) e perché, in molti casi, il rispetto delle regole produrrebbe risultati peggiori del loro mancato rispetto. Questo è chiaramente il caso quando un’economia si trova in recessione e le regole sono pro-cicliche, cosicchè rispettarle aggraverebbe la recessione o alimenterebbe profezie che si autoavverano. Che le nuove regole, con le loro clausole di salvaguardia, possano produrre tali effetti è facilmente dimostrabile come abbiamo visto prima. La soluzione era e rimane accrescere la “condivisione di sovranità” (che corrisponde alla già menzionata “ever closer integration” prevista dai Trattati), verso cui si indirizzava la proposta originaria della Commissione, ma che non piace né ai sovranisti perbene né a quelli maleducati.

Quanto poi all’eventualità che qualcosa del pargoletto concepito dalla Commissione nel 2022 sopravviva nell’acqua sporca, essa è legata ad una serie di condizioni improbabili di “benevolenza politica” (composizione e orientamento politico della nuova Commissione, atteggiamento dei sovranisti perbene rispetto all’interpretazione e attuazione delle regole). C’è da dire, però, che il fatto che non sia stato accettato il testo della Commissione e si sia arrivati al punto in cui si è arrivati porta a escludere che vi sia quella benevolenza. L’occasione non è andata perduta per caso. Tutto, dunque, fa pensare che il tempo degli aggiustamenti politici delle regole ferree sia finito.

Occorrerà attrezzarsi per convivere a lungo con questo pasticcio confezionato dall’Ecofin. Difficile, infatti, immaginare che si possano rimettere in discussione regole tanto faticosamente messe insieme. Come, dunque, attrezzarsi? La via maestra sarebbe quella di rendere il PSC sempre meno rilevante che significa rendere sempre meno rilevanti le finanze pubbliche nazionali per il perseguimento degli obiettivi strategici del futuro. Riprendere la battaglia per l’ampliamento del bilancio europeo, per la centralizzazione e condivisione delle voci di spesa strategiche (“beni pubblici europei”) e di quelle anticicliche più importanti, per la creazione di sistemi di sicurezza dei bilanci nazionali in caso di crisi (firmare il nuovo MES, completare la Banking Union), per la creazione di una safe asset comune. È probabile, però, che nel Parlamento Europeo che uscirà dalle elezioni di giugno avranno maggiore forza i sovranisti e gli euroscettici e che, quindi, la battaglia si riveli ancor più difficile di quanto è stata finora. Non per questo i socialisti e democratici, i liberali di Renew Europe e i cristiano-democratici (almeno quelli sinceramente europeisti) dovrebbero pensare che non valga la pena di combatterla già oggi.

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