Uniti nel rigore. Robert Mundell ha vinto il premio Nobel per l’economia nel 1999, l’anno della nascita dell’euro. Alla sua morte, nell’aprile del 2021, il New York Times lo ha salutato come il “padre della moneta unica”. Un bel paradosso, visto che il lavoro di Mundell sulle Aree Valutarie Ottimali (AVO) è stato raramente utilizzato per sostenere l’opportunità di una unione monetaria fra i Paesi Europei (R.A. Mundell, “A theory of optimum currency areas”, The American Economic Review, 1961). Pochi economisti, prima della nascita dell’euro, avevano effettivamente identificato nell’Europa una AVO.
Se proprio si vuole rintracciare un lavoro teorico cui attribuire un certificato di paternità bisognerebbe guardare allo storico rapporto One Market, One Money, pubblicato nel 1990 dall’allora Commissione delle Comunità Europee. I vantaggi cui la moneta unica si sarebbe fatta portatrice erano analizzati in termini sia di efficienza microeconomica che di stabilità macroeconomica. Il venir meno del rischio di cambio e i (conseguenti) tassi di interesse più bassi avrebbero fatto da volano agli investimenti e incrementato il tasso di crescita. Accanto ai vantaggi, in quel testo venivano presentate anche le implicazioni della scelta di adottare la moneta unica, in primo luogo per le finanze pubbliche. La disciplina fiscale era vista come essenziale (vital, nell’originale inglese) perché non si venissero a creare pressioni sulle istituzioni comunitarie per un intervento di sostegno finanziario.
Più di trent’anni dopo la pubblicazione di quel rapporto, la disciplina fiscale è ancora il tema che ispira tanta parte della legislazione europea in materia di politica economica. Proprio sulla disciplina fiscale si sono concentrate le negoziazioni per la revisione delle regole europee conclusesi con l’accordo dello scorso 20 dicembre 2023 al vertice Ecofin (accordo che lo scorso 10 febbraio 2024 ha ricevuto il sostegno anche dei rappresentanti Parlamento europeo – al netto di chiose marginali).
Dall’anno dell’adozione della moneta unica la zona euro è cresciuta ad un ritmo più lento sia degli Stati Uniti che dei paesi europei fuori dall’euro (Figura 1). La crisi del debito sovrano nel 2010-2011 ha esposto drammaticamente le fragilità di una unione monetaria priva di un bilancio comune. D’altro canto, la pandemia da Covid 19 ha offerto l’opportunità di una risposta coordinata, efficace e solidale sul piano continentale. Tutto ciò sembrava suggerire l’opportunità di una rimessa in discussione di quel dogma del rigore di bilancio che ha caratterizzato la zona euro fin dalla sua nascita. Il risultato dell’accordo ha invece deluso chi sperava in un radicale cambiamento di rotta.
Figura 1: La crescita del Pil reale: Eurozona e Stati Uniti a confronto
Nota: 1999=100, prezzi costanti al 2015. L’aggregato Eurozona include gli 11 paesi che per primi adottarono la moneta unica (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo e Spagna) e la Grecia, che rientrò nei parametri richiesti nel 2000 e fu ammessa nel 2001. Fonte: elaborazioni proprie su dati Banca Mondiale
Nuove regole, vecchi parametri. Rimangono innanzitutto invariati i due indicatori-soglia principali su cui è costruita l’intera impalcatura delle regole fiscali europee: il 3% del rapporto deficit-Pil e il 60% del rapporto debito-Pil. Si tratta di numeri che risalgono allo storico Trattato di Maastricht del 1992. A quel tempo, il livello medio del rapporto debito-Pil dei paesi candidati ad entrare nella zona euro era proprio del 60%. Il 3% può essere ricavato dalla formula che indica quale livello del rapporto deficit-Pil permetta di stabilizzare al 60% il debito pubblico se la crescita nominale del Pil risulta pari a poco più del 5%: d=g .b dove g è il tasso di crescita nominale del Pil, b è il rapporto debito-Pil e d è il rapporto deficit-Pil.
Oggi il debito dell’Eurozona è pari a circa il 90% del Pil. La crescita nominale dei 20 paesi appartenenti all’unione monetaria è stata, in media, di poco inferiore al 3% dal 2002. In Italia il debito è al 140% del Pil, mentre la crescita nominale media è stata vicina al 2%. In entrambi i casi, la regola del deficit vista in precedenza, nel caso in cui si volesse stabilizzare il debito al valore attuale, ci restituisce valori di poco inferiori al 3%. Fin qui sembrerebbe che la riproposizione di questi parametri non confligga più di tanto con il nuovo quadro macroeconomico in cui vengono calati. Vediamo perché non è così.
Uno, nessuno e centomila indicatori. Gli stati che superano i valori soglia devono concordare con la Commissione Europea un piano pluriennale di aggiustamento di 4 o 5 anni (estendibile di 3 anni in presenza di riforme strutturali) incentrati su un “nuovo” indicatore: la net expenditure (o spesa netta). Quest’ultima è definita come “la spesa al netto degli interessi, delle misure discrezionali sulle entrate, della spesa per la disoccupazione ciclica”.
La Commissione dovrebbe usare solo l’evoluzione di questo indicatore per verificare l’effettiva attuazione del piano. Ma questo proposito dichiarato porta con sé due problemi fondamentali. Innanzitutto, il calcolo della spesa netta sembra poggiare, sebbene la cosa non sia dichiarata esplicitante, sul problematico concetto di output gap (la stima della componente strutturale e ciclica presuppone sempre la necessità di una misura che riassuma l’ampiezza delle fluttuazioni cicliche). Inoltre, non sembra esistere una sostanziale differenza tra il nuovo indicatore e il vecchio concetto di saldo strutturale. A questo proposito, possiamo partire dal formulare la spesa netta nel seguente modo:
dove Gnet rappresenta la spesa netta, Gprimary la spesa al netto degli interessi, Tstructural le entrate discrezionali e Gcyclical gli elementi ciclici della spesa per le indennità di disoccupazione, il che presuppone l’ipotesi (realistica) che tali elementi esauriscano la componente ciclica della spesa.
Sviluppiamo ora la definizione di saldo strutturale (CAB) su cui si basavano le regole europee prima della loro momentanea sospensione:
dove BB rappresenta il saldo di bilancio complessivo, PB il saldo di bilancio primario, CAPB il saldo primario strutturale e CC la componente ciclica del bilancio (Tcyclical) identifica gli elementi ciclici dal lato delle entrate). Sembra allora possibile arrivare ad una uguaglianza sostanziale tra la spesa netta e il saldo strutturale (al netto della spesa per interessi).
Data la sovrapposizione tra i due concetti e la necessità di ricorrere nuovamente ad una stima dell’output gap, è evidente il rischio che si ripropongano le tendenze a politiche fiscali “pro-cicliche” che caratterizzavano la metodologia incorporata nelle vecchie regole (G. Carnazza, “Patto di stabilità: cambiare tutto affinché nulla cambi”, lavoce.info, 2023). Questa distorsione pro-ciclica era fortemente influenzata da una stima del Pil potenziale che risentiva delle realizzazioni effettive del Pil: l’aumento del tasso di disoccupazione conseguente ad una fase recessiva del ciclo determinava un incremento del NAWRU che, a sua volta, spingeva verso il basso il Pil potenziale. La conseguente riduzione in valore assoluto dell’ampiezza del ciclo economico implicava una riduzione dello spazio per gli stabilizzatori automatici concesso dalla Commissione Europea. Da qui, la necessità di implementare – per rispettare le regole europee – manovre fiscali restrittive in una fase recessiva.
A margine va altresì notato che l’esclusione della spesa per interessi dal calcolo del nuovo indicatore non ha implicazioni di rilievo: poiché gli interessi alimentano per definizione la crescita del rapporto debito-Pil, la net expenditure – il cui obiettivo primario è incidere sull’evoluzione di quest’ultimo – deve necessariamente tenerli in considerazione. La tendenza all’incremento del debito determinata dalla spesa per interessi deve allora essere più che compensata da un’evoluzione virtuosa del nuovo indicatore. In tal senso, escludere o includere formalmente la spesa per interessi dal computo della spesa netta appare irrilevante. Non si tratta certo di una “vittoria politica” per paesi che pagano elevati interessi come l’Italia.
Il caso dell’Italia è da questo punto di vista illuminante. Fino allo scoppio della crisi sanitaria il nostro Paese, contrariamente a quanto generalmente ritenuto, è stato uno dei paesi europei più virtuosi in tema di gestione delle finanze pubbliche. L’Italia, infatti, ha fatto quasi sempre registrare un avanzo primario (Figura 2a – Italia). Il resto dell’Eurozona è stato caratterizzato da saldi primari di finanza pubblica decisamente peggiori; la sostanziale equivalenza tra disavanzo complessivo italiano e quello medio europeo è da attribuirsi fondamentalmente all’elevata spesa per interessi che l’Italia ha dovuto (e deve) sostenere a fronte dell’enorme ammontare in valore assoluto del debito (2.844 miliardi di euro nel terzo trimestre del 2023, secondo i dati di Banca d’Italia). Nel periodo in cui le regole sono state sospese, l’Italia ha registrato disavanzi primari comunque in linea con la media europea.
Figura 2: I conti pubblici e l’andamento del rapporto debito/Pil: Italia ed Eurozona a confronto
(a) Saldo di bilancio
Ma perché l’Italia ha dovuto perseguire politiche di bilancio così restrittive? Per conformarsi al complesso meccanismo delle regole fiscali europee con l’obiettivo – in teoria – di ridurre ogni anno il rapporto debito/Pil. Eppure, queste politiche hanno sempre contribuito all’aumento di questo rapporto, in Italia così come anche nell’Eurozona (Figura 2b). La Figura 2b scompone la variazione del rapporto debito-Pil intercorsa ogni anno (istogramma blu) tra il contributo del numeratore (politiche di bilancio) e il contributo del denominatore (crescita nominale); in tal modo, è possibile, ad esempio, comprendere se l’aumento del rapporto debito-Pil derivi da una modesta crescita economica oppure da disavanzi complessivi di bilancio. Date queste evidenze empiriche, varrebbe la pena domandarsi se, in generale, una politica di riduzione del debito debba affidarsi esclusivamente ad interventi di carattere “ragionieristico” sulle finanze pubbliche o non debba basarsi, al contrario, su politiche (anche fiscali) che sostengano la crescita economica.
Ad un approccio del primo tipo sembrano ispirarsi le clausole del nuovo quadro normativo che si affiancano al cosiddetto indicatore “unico”.
- la procedura per debito eccessivo scatta quando sussistono tre condizioni: a) il rapporto debito Pil supera la soglia 60%; b) il bilancio statale non è in pareggio o in avanzo; c) si verifica una deviazione dalla traiettoria della net expenditure concordata con la Commissione di 0,3% del Pil su base annuale, o dello 0.6% su più anni;
- la traiettoria della net expenditure deve garantire la diminuzione media del rapporto del debito Pil dell’1% all’anno per paesi con debito oltre il 90% (0,5% per paesi con debito fra il 60% e il 90%);
- i paesi con un deficit oltre il 3% devono impegnarsi a ridurre il deficit strutturale (cioè al netto della componente ciclica) dello 0,5% annuo;
- il piano pluriennale deve puntare ad un rapporto deficit Pil in termini strutturali dell’1,5%. Gli aggiustamenti annuali richiesti per avvicinarsi all’obiettivo (una volta fuori dalla procedura per deficit eccessivo) devono prevedere una diminuzione dello 0,4% del deficit strutturale primario per piani di aggiustamento “standard” (su 4 o 5 anni), dello 0,25% nel caso di estensione su 7 anni.
In un intervento pubblicato lo scorso settembre sul settimanale britannico The Economist, Mario Draghi lamentava come le regole fiscali europee producessero politiche “troppo restrittive in tempi di crisi”. Purtroppo, non c’è ragione per pensare che la riforma appena varata rappresenti un qualche passo avanti rispetto a prima. Mentre gli Stati Uniti sono impegnati in un piano per la riconversione ecologica dell’economia fondato su politiche industriali e fiscali estremamente aggressive, l’Europa sembra dedita a dare la caccia a vecchi fantasmi: il divario illustrato nella Figura 1 sembra destinato ad allargarsi negli anni e nei decenni a venire.