ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 198/2023

1 Agosto 2023

Pagare le tasse conviene alle famiglie

Civil Servant partendo dalla semplice considerazione che tasse e contributi sociali servono a finanziare servizi pubblici e welfare sostiene che le famiglie spenderebbero molto di più per ottenere le stesse prestazioni ricorrendo al mercato, perché i fornitori devono realizzare profitti e spesso sfruttano rendite di posizione parassitarie. D’Elia presenta alcuni dati comparativi tra paesi che sembrano confermare che le famiglie riescono ad accumulare di più proprio dove si pagano più tasse, contrariamente alla narrazione prevalente.

È sempre più diffusa la convinzione che il welfare costi troppo e che le tasse e i contributi necessari a finanziarlo rappresentino un prelievo insostenibile, se non iniquo. Il primo corollario di questa narrazione è che sia indispensabile abbassare la pressione fiscale per rilanciare i consumi e l’economia. Il secondo è che sottrarsi agli obblighi fiscali sia sostanzialmente un peccato veniale, se non un diritto. In realtà, ci sono vari motivi per ritenere che la Pubblica Amministrazione riesca a fornire prestazioni a costi inferiori rispetto a quelli del settore privato. Il principale vantaggio competitivo della PA consiste nel fatto che non ha fini di lucro e quindi copresoltanto i costi di produzione, senza ulteriori ricarichi. Inoltre la produzione di servizi pubblici “universali” consente di conseguire rilevanti economie di scala.

Per avere un’idea del maggior costo che comporta rifornirsi sul mercato piuttosto che dal settore pubblico basta consultare i conti nazionali per settori istituzionali dell’Eurozona, dai quali si evince che le imprese non finanziarie realizzano margini operativi (al netto degli ammortamenti) pari a circa il 40% del valore aggiunto. E’ improbabile che le inefficienze e gli abusi imputati, a torto o a ragione, alla PA superino simili ricarichi. Solo se il settore privato adottasse tecnologie molto più efficienti di quelle dalla PA i consumatori potrebbero limitare i danni. Eventuali sussidi e sconti fiscali sulle prestazioni acquistate sul mercato non risolvono questo problema di fondo, ma semplicemente scaricano rendite e profitti privati sull’intera platea dei contribuenti, determinando un aumento della pressione fiscale.

Evidenze aneddotiche sul maggior costo per gli utenti dei servizi affidati ai privati vengono dalle prestazioni sanitarie fornite dai liberi professionisti (e particolarmente dai dentisti, quasi assenti nel SSN), dai pedaggi autostradali riscossi dai concessionari (che pure sono teoricamente soggetti ad un price-cap), dalle rette degli asili nido privati e delle scuole “paritarie”, dai premi e dalle condizioni delle assicurazioni sanitarie e dei fondi pensione integrativi (che raramente superano le performance della previdenza pubblica), ecc. Ci sono, in realtà, anche casi in cui i consumatori hanno tratto dei benefici delle privatizzazioni, come nel caso dei trasporti e comunicazioni, ma ciò è avvenuto solo quando qualche operatore ha praticato politiche di prezzo aggressive per sbaragliare la concorrenza.

Se i redditi legati ai prezzi più elevati praticati sul mercato restassero all’interno del paese, il Pil a prezzi correnti crescerebbe di altrettanto, ma il volume della produzione resterebbe immutato. Tuttavia è probabile che extra-profitti e rendite vadano anche ad operatori stranieri, determinando una riduzione dei redditi (e del lavoro) distribuiti all’interno del paese che, assieme ai prezzi più elevati, comporta una riduzione del potere di acquisto delle famiglie.

Ciò che non rende immediatamente evidenti i vantaggi dei servizi pubblici è che generalmente i relativi costi ricadono non su chi ne beneficia direttamente (cosa che renderebbe tangibile il risparmio rispetto alla prestazione privata), ma sulla totalità dei contribuenti che ne sopportano i costi anche se non usufruiscono di quei servizi. Così può accadere che ogni singolo contribuente trovi più conveniente rivolgersi al mercato, anche a prezzi maggiorati, solo per le specifiche prestazioni di cui ha bisogno piuttosto che finanziare tutto il complesso delle attività della PA, anche quelle che non lo coinvolgono. Se la probabilità di ricorrere ai servizi pubblici fosse uniforme tra gli individui, pochi si lamenterebbero, ma non è così, perché il welfare è intenzionalmente rivolto soprattutto alle fasce più svantaggiate della popolazione. In una società molto dinamica, la possibilità di trovarsi in difficoltà è più o meno la stessa per tutti, ma se l’ascensore sociale è sostanzialmente fermo i contribuenti più abbienti ritengono bassa la probabilità di dover ricorrere a prestazioni pubbliche e comunque dispongono presumibilmente di riserve sufficienti ad affrontare i rischi. In realtà, questa percezione è piuttosto distorta, perché ci sono servizi come la sicurezza, l’istruzione superiore e il decoro urbano, di cui beneficiano in maggior misura proprio i più ricchi, ma sono finanziati anche dai meno abbienti. Infatti, dove questi servizi sono carenti i ricchi sono costretti a far da sé. Basti pensare agli agenti di scorta ed alle residenze blindate che le élite devono pagare di tasca propria in parecchi paesi con uno stato minimo.

Se ogni contribuente guarda solo alle prestazioni pubbliche di cui usufruisce direttamente, il carico fiscale per sostenere tutta la pubblica amministrazione gli sembrerà insostenibile. Il finanziamento del welfare si trova così ad avere almeno due avversari: da un lato coloro che non prevedono di usufruirne pur dovendolo sovvenzionare, e dall’altro coloro che utilizzano solo alcuni servizi specifici, ma sono chiamati ugualmente a contribuire al finanziamento di tutti gli altri, anche quelli destinati ai più ricchi. Si realizza così una strana alleanza tra ricchi, classe media e poveri grazie alla quale può guadagnare consenso politico a buon mercato chiunque prometta genericamente meno tasse spesso sorvolando dul fatto che questo vuol dire anche meno servizi. E’ esattamente quello che si è verificato in tutto il mondo dagli anni ottanta in poi, quando hanno cominciato a perdere voti proprio i partiti favorevoli ad un allargamento del welfare.

Qualche evidenza indiziaria a favore dei vantaggi del finanziamento fiscale del welfare viene da un esame dei conti nazionali raccolti dalla Commissione Europea nel database AMECO. I dati consentono di confrontare la pressione fiscale, misurata dal rapporto tra le entrate della Pubblica Amministrazione (tipicamente tasse, contributi sociali e qualche tariffa) e il Pil, con l’accumulazione di ricchezza netta da parte delle famiglie rapportata al rispettivo reddito “primario” (ossia ottenuto da lavoro e impresa). Quest’ultimo indicatore differisce dalla più familiare propensione al risparmio che è calcolata sul reddito disponibile (ossia sul reddito primario integrato dalle previdenze pubbliche e al netto di imposte e contributi); il nostro indicatore misura la capacità di risparmio per ogni euro incassato direttamente lavorando o conducendo un’impresa. L’idea è che un sistema di welfare efficiente amplia questa quota grazie, da un lato, ai trasferimenti netti alle famiglie (sussidi, pensioni, ecc.), e, dall’altro, alla fornitura gratuita, o quasi, di servizi il cui effetto complessivo è, al netto delle tasse, di accrescere la capacità di spesa delle famiglie che può, almeno in parte, essere destinata a risparmio.

Ci si aspetterebbe che una economia gravata da maggiori oneri fiscali lasci meno margini per accrescere il patrimonio delle famiglie, invece il grafico che segue sembra suggerire esattamente il contrario. Ad esempio, in Irlanda, Lituania, Lettonia e Bulgaria, che vantano una bassa incidenza del settore pubblico sul Pil (dal 32 al 37% tra il 1995 e il 2022) le famiglie si sono indebitate in media tra 0,6 e 4 centesimi per ogni euro guadagnato lavorando o gestendo un’impresa. Tra i paesi a più bassa pressione fiscale, le famiglie hanno accresciuto la propria ricchezza per ogni euro di reddito primario solo in Slovenia e Olanda, dove però ha svolto un ruolo importante, più che la redistribuzione operata dalla PA, l’afflusso di redditi dall’estero che hanno integrato quelli interni. 

Al contrario, in Svezia, Francia, Belgio e Polonia, dove il settore pubblico assorbe tra il 49 e il 53% del Pil, le famiglie hanno potuto accumulare da 0,4 a quasi 10 centesimi per ogni euro incassato direttamente. Solo in Danimarca una pressione fiscale record del 54% è stata accompagnata da un indebitamento delle famiglie. Nel caso dell’Italia, le entrate della pubblica amministrazione sono state mediamente pari al 46% del Pil e le famiglie hanno accumulato ricchezza per quasi 5 centesimi per ogni euro di redditi primari incassati, in linea con la tendenza generale. Grazie al welfare, il patrimonio familiare ha potuto così crescere anche nel bel mezzo di un prolungato periodo di ristagno dell’economia. Se si esclude la Grecia (dove l’austerity ha determinato un netto impoverimento delle famiglie ed un inasprimento fiscale), si può stimare che in Europa ogni punto di pressione fiscale è associato mediamente a circa 0,3 punti di accumulazione per ogni euro guadagnato direttamene. Risultati simili, ma meno netti, si ottengono anche confrontando la pressione fiscale complessiva con il rapporto tra reddito disponibile delle famiglie e i rispettivi proventi diretti da lavoro e impresa.

Questo apparente paradosso potrebbe essere spiegato semplicemente da una diversa propensione nazionale a risparmiare, che darebbe conto della differente intensità dell’accumulazione tra i paesi. Tuttavia sarebbe davvero singolare che le famiglie più parsimoniose si concentrino proprio dove si pagano più tasse. A meno che i contribuenti siano ultra-razionali (e molto pessimisti) e mettano da parte qualcosa per pagare imposte sempre più alte in futuro. Una interpretazione più plausibile è che le previdenze pubbliche finanziate dal fisco integrano i redditi primari e che, nel contempo, i servizi forniti dalla pubblica amministrazione lasciano più risorse alle famiglie sia per i consumi individuali che per il risparmio. Nei paesi in cui si versano meno contributi sociali e meno imposte ed il welfare è meno generoso, invece, le famiglie possono contare quasi esclusivamente sulle proprie risorse, ossia su retribuzioni, redditi da lavoro autonomo e da impresa, per usufruire di prestazioni come trasporti, istruzione, sanità, assistenza e pensioni. E i dati mostrano che spesso finiscono per indebitarsi.

Il grafico pare smentire anche il luogo comune che una eccessiva pressione fiscale finisca per frenare i redditi primari, scoraggiando lavoro e imprenditorialità, e di conseguenza anche l’accumulazione. I dati suggeriscono invece che, in complesso, la redistribuzione delle risorse tramite il fisco e il welfare contribuisce a sostenere la domanda complessiva, creando più valore da ripartire tra lavoro e profitti. Di conseguenza, la riduzione del welfare non sembra solo portare verso una società più diseguale, ma anche verso una economia meno produttiva, perché le rendite di posizione che si creano in alcuni servizi essenziali non coperti dalla spesa pubblica compensano gli eventuali benefici della riduzione del carico fiscale su chi crea valore.

In ultima analisi, un policy maker lungimirante si trova davanti al seguente dilemma: assecondare l’avversione istintiva degli elettori verso le tasse per conquistare consensi ed avere almeno l’opportunità frenare questa tendenza; oppure combatterla apertamente sapendo di perdere voti e di accelerarne quindi l’affermazione. La prima alternativa è stata praticata per anni da quasi tutti i partiti progressisti europei e statunitensi. In Italia la seconda strada è stata intrapresa, tra gli altri, da Tommaso Padoa Schioppa, che decantò addirittura la “bellezza” delle tasse. Tuttavia nessuna delle due strategie sembra aver invertito il sentiment dell’elettorato. 

Forse una alternativa praticabile è quella di dimostrare che, dati alla mano, i tagli a tasse e servizi sono un pessimo affare per la maggior parte delle famiglie. Allo stesso tempo, è indispensabile migliorare l’efficienza della Pubblica Amministrazione, per rendere visibilmente competitive le sue prestazioni. Se, come diceva Deng Xiaoping, “arricchirsi è glorioso”, l’analisi precedente sembra mostrare che proprio per arricchirsi è conveniente (se non altrettanto glorioso) pagare le tasse.

Pressione fiscale complessiva e accumulazione delle famiglie

(media 1995-2022)

Fonte: Elaborazioni su database AMECO

Schede e storico autori