Ero lontano quando mio padre “entrò nel buio e ci lasciò il suo addio”. Sono passati quarant’anni. Era il 21 luglio del 1983. Quel pomeriggio mi trovavo a Roma quando ricevetti una telefonata da Monterado, nelle Marche, dove mio padre stava trascorrendo i suoi ultimi giorni. Era mio fratello che mi diceva appunto che il cuore generoso di Franco Rodano, da tempo sfiancato da tante battaglie e, negli ultimi anni, da una lunga e debilitante malattia, aveva cessato di battere. Da allora il suo corpo riposa nella terra del piccolo cimitero di Monterado, sotto una lapide su cui è incisa una frase in latino che ben sintetizza il suo intenso impegno: “bonum certamen certavi, et caro mea requiescit in spe” (ho combattuto una buona battaglia e la mia carne riposa nella speranza).
Qualche volta mi capita di pensare alle cose che sono successe in questi ultimi quarant’anni, alle esperienze che mio padre si è risparmiato e a quelle che invece ha perduto. Si è risparmiato, per esempio, l’ascesa e il declino di Silvio Berlusconi, con le sue conseguenze nefaste sulla politica italiana e sul conseguente deterioramento del tessuto sociale del nostro paese; qualcosa che lui, che si era formato negli anni lontani della guerra e della Resistenza, avrebbe vissuto – ne sono certo – con grande sofferenza. Penso anche, per restare sui grandi avvenimenti, alla fine dell’Unione Sovietica, a quella dei partiti comunisti (anche in questo caso avrebbe sofferto).
Penso – ma a quel punto, se fosse stato ancora vivo, sarebbe stato comunque vecchissimo, “sazio di giorni” – al bipolarismo conflittuale tra Usa e Cina, all’avvento sulla scena mondiale di paesi come l’India, l’Indonesia e il Brasile, alla guerra che insanguina l’Ucraina. Ma penso anche a esperienze più “piccole” come il campionato di calcio (mio padre era tifoso della Roma), o come il Giro d’Italia e il Tour de France. Mio padre amava il ciclismo, il grande sport popolare della sua giovinezza e della sua maturità. D’estate (solo d’estate, in vacanza) leggeva il quotidiano sportivo; e gli piaceva seguire anche quel che trovava scritto sui ritiri delle squadre in vista della ripresa del campionato di calcio (e prima delle rare soddisfazioni e delle inevitabili delusioni che gli avrebbe dato la squadra del cuore).
Gli aspetti privati di mio padre riguardano me e la mia famiglia. Ma Franco Rodano è stato anche un personaggio pubblico. Su di lui sono stati scritti libri e voci d’enciclopedia (non solo Wikipedia, ma anche, per esempio, il Dizionario biografico degli italiani della Treccani). Un libro sul suo pensiero e sulla sua figura (scritto dal filosofo Augusto Del Noce) è stato pubblicato addirittura quando lui era ancora in vita (Rusconi 1981): si intitolava Il cattolico comunista, un’etichetta che, assieme a quella più compatta (e con un vago e probabilmente voluto sapore spregiativo) di “cattocomunista”, gli è rimasta appiccicata addosso. Ma su questo punto tornerò più avanti.
Quella di “cattocomunista” non è la sola etichetta. Mio padre è stato spesso definito come l’“eminenza grigia” dei segretari del Partito comunista italiano, il consigliere segreto e riservato prima di Palmiro Togliatti e in seguito di Enrico Berlinguer. Anche questa etichetta è rimasta attaccata alla sua figura. Ancora nei giorni scorsi (17 luglio) il suo ruolo di consigliere è stato richiamato in un articolo sul Corriere della Sera dedicato alla morte di Luigi Bettazzi, per molti anni vescovo di Ivrea e noto come il prelato che per primo e con maggior decisione si era speso per aprire il dialogo con i comunisti. Nell’estate del 1976 Bettazzi aveva sorpreso tutti (anche la Chiesa, che non la prese bene) scrivendo una lettera aperta al segretario del Pci Enrico Berlinguer in cui appunto proponeva di aprire un dialogo. La risposta di Berlinguer, che accettava l’invito di Bettazzi, arrivò oltre un anno dopo (il tema era scottante e il segretario del Pci aveva deciso di muoversi con i piedi di piombo) e, stando a quel che dice l’articolo del Corriere, venne appunto “scritta se non a quattro mani, certo con il consiglio di Franco Rodano”. Vera o non vera, la congettura del giornalista mostra che la fama di Franco Rodano come eminenza grigia e consigliere del principe non si è ancora spenta a quarant’anni dalla sua scomparsa.
Sembra che l’espressione “cattocomunista” risalga alla fine degli anni settanta del secolo scorso e sia dovuta alla penna di Enzo Bettiza, un giornalista ferocemente anticomunista, all’epoca firma del Corriere e in seguito passato al Giornale di Montanelli. L’origine dell’espressione “eminenza grigia” è più letteraria. È il titolo di una biografia scritta da Aldous Huxley dedicata alla figura del frate cappuccino Padre Giuseppe (al secolo François Leclerc du Tremblay), il principale collaboratore e consigliere del Cardinale Richelieu. Qui di seguito proverò a discutere i limiti del loro utilizzo per cercare di chiarire alcuni punti importanti del pensiero e del ruolo politico di mio padre.
Premetto innanzitutto quel che c’è di vero. È fuori discussione che Franco Rodano è stato cattolico e, per gran parte della sua vita e fino alla morte, comunista. Il libro di Del Noce citato prima propone un’interpretazione del pensiero di mio padre che per molti aspetti non trovo affatto convincente, ma questo, appunto, non riguarda il titolo. Così pure è vero che i consigli di Franco Rodano venivano ascoltati, anche se non sempre condivisi, da Togliatti e successivamente da Berlinguer. Semmai si possono aggiungere alcune qualificazioni. Con Togliatti il rapporto poteva essere definito di amicizia (negli anni Cinquanta mi è capitato, da bambino, di frequentare la sua casa; e ricordo anche la consuetudine, sempre in quegli anni, di passare a trovarlo in Val d’Aosta, a Champoluc o a Cogne, quando d’estate la nostra famiglia andava a trascorrere qualche giorno di vacanza sulle Alpi Svizzere). Con Berlinguer, anche per il suo carattere più riservato, i rapporti erano meno diretti, e venivano intermediati molto spesso dal suo segretario, Tonino Tatò, a sua volta grande amico di mio padre.
Trovo invece del tutto insoddisfacente l’interpretazione sbrigativa, ma largamente diffusa, della figura di Franco Rodano suggerita da quelle due etichette: la prima che lo descrive come il cattocomunista per antonomasia, ossia come un pensatore politico che persegue, secondo un approccio che può essere definito integralista, la costruzione di un assetto sociale sotto tutela, fondato sui precetti di due chiese – appunto quella cattolica e quella comunista – rappresentate entrambe, al fondo, come totalitarie e antidemocratiche; la seconda che lo descrive come un politico che agisce nell’ombra, che preferisce influenzare con i suoi consigli le scelte dei policy makers senza mai esporsi in prima persona alla luce del sole (appunto un’eminenza grigia, come il frate cappuccino che distillava dietro le quinte i suoi suggerimenti al cardinale Richelieu).
Provo ora ad argomentare i motivi del mio profondo dissenso nei confronti di questa interpretazione. Inizio dalla questione dell’eminenza grigia. Al riguardo, conviene partire da un dato di fatto. In tutti gli anni Quaranta del secolo scorso Franco Rodano ha fatto attivamente politica esponendosi in prima persona. Come è ben noto, la prima parte di quel decennio è stata un periodo difficile e per certi versi drammatico. Ebbene, in quegli anni egli è stato un dirigente politico; è stato membro della resistenza romana contro il fascismo e l’occupazione tedesca; ha diretto un giornale di lotta antifascista, Voce operaia. Per questi motivi ha conosciuto anche l’esperienza del carcere, venendo liberato dopo il voto del Gran Consiglio del 25 luglio del 1943 e la destituzione di Mussolini, e passando in clandestinità dopo l’8 settembre di quell’anno (la data dell’armistizio e della successiva, immediata occupazione tedesca).
Anche dopo la fine della guerra e la liberazione dell’Italia, l’attività politica di mio padre è continuata in modo aperto ed esplicito. Nel 1945 si era iscritto al Pci e scriveva regolarmente sui giornali di quel partito, in particolare Rinascita, settimanale di cui fu per alcuni anni redattore. Alla fine del 1947 un suo articolo su Rinascita provocò l’irritazione delle gerarchie ecclesiastiche (il Papa di allora era Pio XII, profondamente conservatore in dottrina e radicalmente anticomunista in politica), sicché mio padre “ricevette l’ingiunzione a ritrattare […] per aver violato un articolo del diritto canonico. Di fronte al suo rifiuto fu escluso dai sacramenti e dalla sepoltura ecclesiastica” (M. Papini, “Franco Rodano”, Dizionario Biografico degli italiani, Treccani 2017).
Come ho detto in precedenza, mio padre era convintamente cattolico, e perciò rispettò la sanzione che gli era stata inferta, per tutto il tempo in cui essa rimase in vigore (l’interdetto gli sarebbe stato tolto solo nel 1968 quando, dopo l’avvento di Papa Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano Secondo, il clima nella Chiesa era radicalmente mutato). Dalla fine degli anni Quaranta, perciò, per molti anni, la firma di Franco Rodano non comparve più sui giornali (non solo quelli del Pci). E mio padre non ricoprì alcuna carica politica esplicita. Il che non significa che la sua attività politica si sia arrestata. Tutt’altro. Per tutti gli anni cinquanta Franco Rodano restò un punto di riferimento importante, per il Pci e per il suo gruppo dirigente, e per i cattolici che in varie forme si avvicinavano a quel partito. Solo un nome tra i tanti: Mario Melloni, che sarebbe divenuto famoso con lo pseudonimo di Fortebraccio per i suoi corsivi su L’Unità. Negli anni Cinquanta Melloni, in precedenza parlamentare democristiano espulso dalla DC (per aver votato contro l’istituzione della Nato), dirigeva (con Mario Bartesaghi che aveva condiviso la stessa esperienza) Il Dibattito politico, un influente settimanale di cui Rodano era l’anima e il motore; anche se, appunto, il suo nome non è mai comparso tra le firme di quel settimanale. Fu così che mio padre si trasformò in un politico autorevole e consultato, ma “sottotraccia”. Ricordo che in quegli anni (e anche nel decennio successivo) quasi ogni sera a casa nostra qualche dirigente politico del Pci, ma anche di altri partiti (socialisti, repubblicani, democristiani) veniva a trovare Franco e a discutere con lui, su argomenti che spaziavano dalla tattica politica ai “massimi sistemi”. Il mito dell’eminenza grigia è nato allora. Ma non era una libera scelta, bensì il modo per continuare a scrivere e a fare politica pur rispettando la sanzione che gli era stata impartita dalle gerarchie ecclesiastiche.
Vengo ora agli argomenti che suggeriscono come anche l’interpretazione di Franco Rodano come promotore della fusione ideologica e integralistica dell’approccio cattolico e di quello comunista (quella suggerita dal termine “cattocomunista” che ho più volte citato) sia sostanzialmente infondata. Per farlo vorrei partire dalla mia esperienza personale (ma più avanti aggiungerò qualcos’altro). Si potrebbe sostenere che il mio atteggiamento nei confronti di chi mi ha fatto l’inestimabile “dono dell’esistenza” sia inevitabilmente un po’ partigiano. Ma lascio il giudizio al lettore.
Dunque, è un fatto che io ho passato l’infanzia e l’adolescenza in una casa in cui si respirava politica tutto il giorno: a pranzo come a cena (i politici ospiti erano frequentissimi), in viaggio come in vacanza. Agli inizi degli anni Cinquanta ero un bambino piccolo (sono nato nel 1946) e perciò non ero capace di una valutazione critica di tutto quel che venivo sentendo e assimilando, per così dire, assieme al latte materno. Sapevo confusamente, appunto, di appartenere a due chiese, quella cattolica e quella comunista. Ma questo, nella mia mente di bambino, non implicava alcuna contraddizione (ero un piccolo cattocomunista ante litteram).
Man mano che crescevo, però, iniziando a frequentare i compagni di scuola e le loro famiglie, cominciai ad accorgermi che qualcosa non tornava. Le due chiese di cui placidamente mi sentivo parte si rivelavano sempre più chiaramente ostili tra loro. Non dimentichiamo che erano gli anni di Pio XII e della guerra fredda, quando il mondo era diviso in due blocchi contrapposti, ed era quasi inevitabile schierarsi da una parte o dall’altra. Ma c’era di più. Le due chiese non solo erano ostili ma apparivano incompatibili: ciascuna arrivava al punto di presentarsi come la depositaria della verità; ciascuna rivendicava il proprio diritto sul “tesoro del mondo”; ciascuna pretendeva di esercitare la propria egemonia sulle anime e sui corpi dei cittadini italiani. Per l’altra chiesa non c’era spazio. Non c’era possibilità di incontro e neppure di dialogo. Era una guerra senza quartiere che avrebbe dovuto lasciare, alla fine, un solo vincitore.
I fautori del dialogo esistevano anche allora (mio padre, ovviamente era tra questi) nell’uno come nell’altro campo. Penso, per esempio, a Don Giuseppe De Luca, influente prelato vaticano dell’epoca (che frequentava in quegli anni casa nostra); penso allo stesso Togliatti e alla sua apertura del Pci ai cattolici, già alla fine degli anni Quaranta. C’entrava mio padre in questa iniziativa? Probabilmente sì (fa parte del mito dell’eminenza grigia). Ma di tutte queste cose io, a quei tempi, non sapevo nulla: ero troppo piccolo.
Tuttavia, nel corso di quegli anni complicati, ma che nella mia attuale “memoria stancata” appaiono magnifici (e come potrebbe essere altrimenti?), venivo maturando una convinzione, dapprima in modo inevitabilmente confuso e col trascorrere del tempo in modo sempre più limpido. Era questa. Se le due chiese, di cui pure a quei tempi mi sentivo convintamente parte, erano così ostili e incompatibili, allora questo significava che nessuna delle due poteva possedere il monopolio della verità. Ciascuna aveva molto da dire di importante e di utile per la società e per il nostro paese, ma appunto non tutto.
Perciò l’adesione al Pci e alla chiesa cattolica non impediva, anzi giustificava e richiedeva, l’esercizio del diritto di esprimere critiche a entrambe, critiche anche severe, su punti specifici e su questioni più generali. Era una conclusione che rappresenta, a ben vedere, il contrario dell’atteggiamento integralistico, una conclusione profondamente laica. Ma era proprio l’atteggiamento che quotidianamente ispirava le scelte e le affermazioni di mio padre, e che io venivo assorbendo nel corso degli anni. Franco diceva spesso che nessuno possiede la verità, che questa si svela attraverso una ricerca faticosa e continua e attraverso l’incontro e il confronto tra le diverse posizioni, lungo un cammino impervio che, almeno per l’umanità (e anche per i credenti), non può avere mai fine. È un insegnamento che gli devo, e di cui gli sarò sempre grato.
Qualcuno, leggendo queste pagine, potrebbe sostenere che sto mitizzando la figura di mio padre, che sto costruendo l’immagine di un Franco Rodano “alto e biondo” (come lui diceva ironicamente di coloro che mitizzavano la figura di Marx). Il rischio c’è. Bene o male resto suo figlio, ancorché secondogenito (con tutto quello che ciò può significare). Voglio perciò provare a portare alcune prove esterne (non ricavate dal mio vissuto personale) che possono suffragare la mia tesi. Vediamo allora, brevemente, quello che hanno da dire al riguardo gli studiosi di storia che si sono occupati di Franco Rodano.
Posso partire suggerendo la lettura dei lavori di Marcello Mustè, uno dei più attenti studiosi del pensiero di mio padre. Merita di essere letta, per esempio la sua monografia pubblicata da Il Mulino (1993) il cui titolo recita appunto Franco Rodano: critica delle ideologie e ricerca della laicità. Già il titolo suggerisce che il mio Rodano non è molto diverso da quello che emerge dalle ricerche storiche più serie e rigorose; e le pagine scritte da Mustè arricchiscono e suffragano questa tesi con solidi argomenti.
Anche altri studiosi condividono questa interpretazione e confermano che l’atteggiamento laico di mio padre veniva da lontano. Per esempio, in un saggio scritto per la Treccani, “Partiti e movimenti di sinistra” in Cristiani d’Italia (2011), Carlo Felice Casula prende in esame l’esperienza dei movimenti dei primi anni Quaranta del secolo scorso, di cui appunto Franco Rodano fu fondatore, esponente e leader, assieme a Felice Balbo, Adriano Ossicini e altri giovani antifascisti di sinistra. Tra il 1940 e il 1945 quel gruppo diede vita a quattro successive organizzazioni politiche (un chiaro segno delle difficoltà di quegli anni e della velocità con cui le loro idee evolvevano e maturavano): nell’ordine, il movimento dei cooperativisti sinarchici, il partito comunista cristiano, il movimento dei cattolici comunisti e infine il partito della sinistra cristiana; il congresso di scioglimento di quest’ultimo (fortemente voluto da Rodano) si svolse nel dicembre del 1945; dopo di che Rodano, Balbo e altri esponenti di quel partito (come, per esempio, Luciano Barca) si iscrissero al Pci.
Raccontare, anche sommariamente, la storia di queste esperienze va al di là dei limiti e delle finalità di questo scritto (e comunque sull’argomento gli storici citati, e anche altri, hanno prodotto parecchi lavori). Qui mi limito a soffermarmi su un singolo punto che è rilevante per la questione della laicità del pensiero di Franco Rodano: dapprima in modo ancora confuso e via via in modo sempre più chiaro, quei giovani, cattolici e comunisti, affermarono il principio della separazione tra religione e politica. Per quest’ultima il riferimento in quegli anni era il pensiero di Marx. Rodano e i suoi compagni facevano leva sulla distinzione tra materialismo dialettico, “visto come visione complessiva del mondo atea e deterministica” e materialismo storico, “inteso nel senso di metodologia politica, di strumento di interpretazione storica e di analisi della realtà sociale” (Casula 2011). Respingevano il primo e assumevano il secondo come cassetta degli attrezzi per fare politica.
Era una posizione ingenua, che Rodano avrebbe abbandonato negli anni successivi per sostituirla con quella che anche il pensiero di Marx andava storicizzato e perciò considerato non una teoria scientifica (neanche, appunto, il materialismo storico) ma una lezione importante e feconda. Per questo, abbandonando le lenti dogmatiche, andrebbe letto ancora oggi, perché da lui c’è ancora molto da imparare, come c’è da imparare da tutti i grandi pensatori dell’umanità. Ma non c’è dubbio che quella di quei giovani cattolici che negli anni della grande guerra antifascista stavano cercando l’incontro col movimento comunista era una posizione laica e, per l’epoca, molto in anticipo sui tempi.
Fin qui gli studiosi di storia. Ma c’è un altro tipo di testimonianza che posso invocare, quella delle amicizie. Il campo degli affetti è, come è ovvio, assai ampio; ma qui mi riferisco alle sole amicizie legate in qualche modo alla politica. Non sorprende certo che gli amici che militavano nel Pci fossero numerosi, in posizioni di vertice ma anche in posizioni di base. E non sorprende neppure che molti provenissero dal mondo cattolico, laici ed ecclesiastici, politici (anche esponenti della Democrazia cristiana) e persone impegnate in altre attività (mi piace qui ricordare almeno un nome, quello di Piero Pratesi, grande giornalista e grande persona). Ma c’erano amici che non appartenevano a nessuno di quei due mondi e provenivano invece da ambienti laici, in teoria molto lontani dagli ambienti dei comunisti e da quelli dei cattolici.
Mi limito a due soli nomi, entrambi molto significativi. Il primo è quello di Ugo La Malfa, esponente di primo piano della politica italiana della seconda metà del secolo scorso. La Malfa frequentava casa Rodano e apprezzava il confronto e la discussione politica con mio padre. Ricordo che la nostra collaboratrice domestica di quegli anni lontani (si chiamava Norma) era capace di farne una gustosa imitazione che divertiva molto noi ragazzi.
L’altro nome è quello del grande banchiere Raffaele Mattioli, il più prestigioso esponente della finanza laica italiana del dopoguerra. Con Franco si erano conosciuti nel 1945, perché Mattioli aveva letto alcuni articoli di mio padre sull’industria pubblica e aveva voluto conoscerlo. Iniziò allora un rapporto molto stretto (ogni volta che Mattioli veniva a Roma si vedevano presso il ristorante “Il Buco” in via del Collegio Romano; ma non sono mancate le occasioni in cui Mattioli veniva a cena a casa nostra, magari per incontrare qualche esponente del Pci); un rapporto che è continuato fino alla morte di Mattioli (luglio 1973). Oltre che come grande banchiere, Mattioli è noto per essere stato un generoso mecenate. E mio padre usufruì in più di un’occasione del suo aiuto. Questo fin dall’inizio, quando Mattioli gli trovò un lavoro all’Ufficio Studi della Banca Commerciale (mi hanno raccontato – non so se sia vero – che quando io nacqui mio padre era a Milano, e che tornò in fretta a Roma grazie all’intervento di Mattioli che gli aveva trovato un passaggio su un aereo militare). Anche in seguito, l’aiuto di Mattioli fu importante per la vita di mio padre. Lo fece collaborare allo Spettatore Italiano, un’importante rivista di cultura politica dei primi anni Cinquanta (che lui finanziava) e soprattutto, negli anni Sessanta, sostenne generosamente La Rivista Trimestrale, l’influente periodico di ricerca in politica ed economia diretto da Franco Rodano e Claudio Napoleoni. I lavori di mio padre comparsi su quella rivista sono densi e di impegnativa lettura, ma rappresentano la fonte più corretta e istruttiva del suo pensiero, soprattutto nella fase più matura della sua vita.
Ho iniziato questo ricordo col verso (storpiato) di un poeta. Mi piace concluderlo con un altro verso dello stesso poeta (Montale). Questi propone per l’esistenza dell’uomo una bella similitudine. La paragona “al segno del torrente che discende / ancora al mare e la sua via si scava”. Il torrente della mia vita si è scavato una sua via, che non è (non poteva e probabilmente non voleva essere) quella di Franco Rodano. Ma rivolgendomi indietro mi accorgo che le sorgenti di quel torrente vengono da lì. Non solo nel senso ovvio che sono suo figlio, ma in un senso più profondo: nel senso che gli strumenti di cui mi sono servito per scavarmi la mia strada vengono da mio padre. Sono stati forgiati quand’ero ragazzo nella casa dei miei; sono stati perfezionati ascoltandolo, parlando e poi discutendo con lui, leggendo i suoi scritti. Di questo, finché vivrò, gli sarò sempre riconoscente.