ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 198/2023

1 Agosto 2023

Giovanni Carnazza, Paolo Liberati, Agnese Sacchi,

C’è ancora spazio politico per la politica fiscale in Europa?

Giovanni Carnazza, Paolo Liberati e Agnese Sacchi si chiedono se la regola europea di pareggio del bilancio strutturale non implichi che la maggior parte dei fattori politici in grado di influenzare il bilancio pubblico nazionale sia già contenuta nelle regole fiscali sovranazionali. Analizzando l’impatto delle variabili politiche e delle regole fiscali sul saldo strutturale, gli autori rilevano una sostanziale neutralità delle prime e un significativo effetto delle seconde e perciò dubitano che in Europa rimanga ancora spazio politico per la politica fiscale.

La politica fiscale decisa in Europa. La sospensione del Patto di Stabilità e Crescita (PSC) decisa dalla Commissione europea scadrà alla fine dell’anno. Per tenere conto dell’evoluzione recente (dalla crisi globale del 2008 alla pandemia da Covid-19 nel 2020), occorre definire e approvare una riforma in tempi brevi. A novembre 2022 la Commissione ha fatto circolare una proposta che ha suscitato tra gli Stati membri apprezzamenti, perplessità e qualche contrarietà. Tra le posizioni critiche vi è quella espressa dalla Germania, per la quale si andrebbe verso un sistema troppo discrezionale. Dal canto suo, l’Italia ambisce a una semplificazione del vecchio PSC, che permetta i necessari aggiustamenti degli squilibri dei bilanci nazionali in relazione alle specificità dei singoli Stati membri. A fine aprile 2023, la Commissione ha presentato una revisione della sua proposta originaria che sembra recepire questo tipo di critiche. Difficile prevedere come si svilupperà il dibattito pubblico in merito; tra i possibili punti di approfondimento, tuttavia, riteniamo che ce ne sia uno di particolare importanza e sostanzialmente trascurato, di cui si tratterà in questa nota, non prima di aver brevemente ricordato le caratteristiche della politica fiscale in Europa.

Le regole di finanza pubblica a più riprese introdotte fin dai tempi del Trattato di Maastricht del 1992 per garantire la sostenibilità e la disciplina fiscale all’interno degli Stati membri si fondano su un quadro teorico ben definito. Senza entrare nel merito della corrispondenza di questo quadro con precise visioni ideologiche, si può osservare che alla sua base c’è la tesi, molto diffusa, che, in un’area valutaria comune, l’assenza di disciplina fiscale in un singolo paese potrebbe determinare esternalità negative ed effetti contagio con cadute rilevanti su altri paesi, anche per la scarsa credibilità in una unione monetaria della clausola di non salvataggio dello Stato che incorresse in una crisi fiscale. Ci sono, tuttavia, anche altre ragioni meno note alla base di questo impianto e di cui si discorre meno diffusamente: da un lato, l’ampio consenso sul ruolo della componente automatica del bilancio pubblico come strumento anticiclico; dall’altro, una sostanziale diffidenza sul ruolo delle politiche discrezionali.

Si tratta di una diffidenza che trova una declinazione istituzionale nella regola del pareggio di bilancio strutturale, la quale richiede che, qualora si utilizzino politiche fiscali discrezionali, l’esito debba essere condizionato dal limite imposto dalle regole fiscali. Da ciò, derivano tre importanti conseguenze: in primo luogo, la mancata garanzia che le variazioni di bilancio possano compensare efficacemente le fasi espansive e recessive del ciclo economico; in secondo luogo, l’imposizione di limiti impliciti alla dimensione dei bilanci pubblici nazionali, soprattutto dal lato della spesa; in terzo luogo, e come naturale esito, la scarsa influenza della sfera politica nazionale nel determinare il segno e l’intensità delle manovre discrezionali del bilancio pubblico, anche in ragione della convenienza politica a evitare il rischio di procedure automatiche per deficit eccessivo.

Regole fiscali sovranazionali: rimedio ai fallimenti politici o freno a mano per la politica nazionale? Questa debolezza della politica discrezionale si può spiegare con il fatto che la maggior parte dei fattori politici, che in linea di principio potrebbero influenzare la dimensione e la composizione del bilancio pubblico in una dimensione nazionale, sono già espressi – e spesso compressi – nelle regole fiscali sovranazionali. Tali regole, se da un lato costituiscono il punto di caduta delle esigenze politiche dei singoli Stati membri, dall’altro tendono a rispecchiare i relativi rapporti di forza all’interno dell’area euro.

Ciò che la politica può fare, anche in ragione del diverso peso contrattuale dei partecipanti, è dunque già espresso nell’esito delle regole fiscali, ma non oltre. Questo rende sostanzialmente irrilevante qualsiasi ulteriore tentativo di guidare politicamente le azioni fiscali; e, forzando leggermente il ragionamento, annulla di fatto le specificità politiche dei governi, inducendo una certa omogeneizzazione delle politiche economiche. Ovviamente, se c’è del buono, le regole fiscali possono porre rimedio all’eventuale impatto negativo dei fallimenti politici, e questo obiettivo può essere ampiamente condiviso; tuttavia, e c’è del discutibile, le regole tendono a neutralizzare l’impatto di politiche fiscali effettivamente volte a fronteggiare il ciclo economico.

Quanto conta la politica nel modellare il bilancio pubblico. Alla luce di questo quadro, in un recente lavoro abbiamo analizzato in che misura le variabili politiche, oltre a quelle già implicite nelle regole europee, siano effettivamente in grado di plasmare le politiche fiscali discrezionali. In particolare, abbiamo rappresentato la dimensione politica di un paese, considerando vari fattori: l’assetto istituzionale; la tipologia di sistema elettorale vigente, incluso il grado di affluenza alle urne; la struttura del sistema dei partiti; le caratteristiche dei governi in carica e delle loro opposizioni, compresi il colore politico, il potere di veto e la frequenza dei cambi di governo. I risultati ottenuti per 19 paesi dell’UME osservati dal 1995 al 2019 mostrano come le variabili politiche abbiano, in effetti, un ruolo molto limitato nel determinare la direzione della politica fiscale e, soprattutto, un effetto irrilevante nel modificare la marcata prociclicità di quest’ultima.

Prociclicità che risulta sempre significativa – a prescindere dalla specificazione econometrica utilizzata e dalla progressiva introduzione di diverse variabili macroeconomiche di controllo – e pari in media a circa -0,25. Tale valore implica che di fronte a una riduzione dell’output gap dell’1%, il saldo strutturale reagisca con un aumento di circa 0,25 punti percentuali calcolati rispetto al Pil potenziale. In altre parole, la politica fiscale discrezionale si traduce in una manovra restrittiva di miglioramento del saldo nel momento in cui il paese sperimenta una fase recessiva del ciclo economico.

Come anticipato, tale caratterizzazione non risulta in alcun modo influenzata dalla maggior parte delle variabili politiche considerate, come ad esempio lo schieramento politico dei governi in carica, mentre è possibile trovare conferma alla teoria del ciclo elettorale: ogni cambiamento politico preceduto da nuove elezioni tende ad essere accompagnato da un peggioramento dei conti pubblici.

La discrezionalità fiscale sembra allora giocare in senso restrittivo durante le recessioni e in senso espansivo nelle fasi di crescita. Ciò induce a riflettere sul fatto che le regole introdotte per garantire la sostenibilità fiscale nell’area euro siano state in grado di sterilizzare l’influenza dell’azione politica sia sull’entità sia sul segno delle politiche fiscali discrezionali. Questo esito suggerirebbe, dunque, che la politica non conti per modellare il bilancio pubblico, almeno non tanto quanto le regole fiscali.

L’intensità di tali regole è stata presa in considerazione attraverso la costruzione di un indicatore basato sul Fiscal Rules Dataset del Fondo Monetario Internazionale. L’interazione tra questo indice e il rapporto debito/Pil ha messo in luce un aspetto importante in merito al risultato generale di prociclicità fiscale: più alto è il livello del debito e più stringenti sono le regole fiscali, maggiore è lo sforzo fiscale di risanamento dei conti pubblici osservato, in media, nel campione dei paesi analizzati.

Per un recupero dello spazio politico. In definitiva, si potrebbe affermare che, mentre le regole di bilancio sono importanti per la formazione del bilancio pubblico, la politica (e la democrazia?) non giochi alcun ruolo una volta che le regole di bilancio siano state approvate e condivise a livello sovranazionale. Questa visione critica delle conseguenze delle regole fiscali – insieme all’effetto collaterale della prociclicità – sembra essere latitante nel dibattito attuale relativo alla riforma del Patto di Stabilità e Crescita, che prevede – almeno nei progetti – vincoli relativi alla dimensione della spesa pubblica netta. Una ridefinizione dei contorni della nuova governance fiscale europea non dovrebbe però prescindere da questi elementi di criticità, soprattutto qualora si voglia dar seguito alla volontà espressa dalla Commissione europea di puntare maggiormente sulla “titolarità nazionale” delle regole fiscali.

Se da un lato l’estensione di questa titolarità richiederà un impegno politico credibile di medio periodo da parte dei singoli Governi, dall’altro bisognerà bilanciare il rigore formalistico dei vincoli europei con la necessaria flessibilità richiesta dalle specifiche esigenze di Paesi che – con condizioni economiche anche significativamente diverse – dovessero trovarsi nella condizione di affrontare shock simmetrici e asimmetrici.

Infine, anche considerando che le recenti emergenze economiche e sanitarie hanno costituito l’occasione per sperimentare una copertura europea su vasta scala, sarebbe opportuno approntare strumenti che consentano una regolare e ordinata gestione dei bilanci pubblici anche in tempi ordinari, senza che tale obiettivo si riduca a una sterile ricognizione contabile di singole poste di bilancio.

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