ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 198/2023

1 Agosto 2023

Viaggio nel sottosviluppo umano: l’Angola, drammaticamente, oggi

Cristina Duranti descrive la situazione di povertà e deprivazione che domina in gran parte dell’Angola. Lo fa ricordandoci che pur essendo uno dei paesi più ricchi di risorse naturali dell’Africa e nonostante gli sforzi di ricostruzione post-bellica, l’Angola ha ancora oggi uno dei peggiori di indici di sviluppo umano. Ma lo fa anche a margine di una sua recente visita presso le missioni delle Suore del Buon Pastore in alcune delle zone più povere del paese, nelle aree rurali del Nord e negli slum di Luanda.

A poco più di venti anni dalla fine della guerra civile che ha distrutto le infrastrutture e massacrato vasta parte della popolazione, determinando ingenti flussi migratori interni, l’Angola stenta a ricostruire il suo sistema economico e sociale e ad offrire prospettive di sviluppo e di uscita dalla povertà a gran parte della sua popolazione.

Il paese presenta molti dei sintomi che affliggono le economie fortemente dipendenti dal settore estrattivo, e dà segnali flebili di riuscire a governare con efficacia e integrità i rischi ad esso collegati. Nonostante le ingenti risorse naturali infatti, resta al 148° posto su 189 paesi, nella graduatoria basata sull’Indice di Sviluppo Umano e il tasso di povertà, secondo l’Istituto Nazionale di Statistica raggiunge il 41%.

La classica “maledizione delle risorse”, combinata con una governance debole del sistema estrattivo, una gestione inefficace della fiscalità pubblica e accordi commerciali internazionali non sempre favorevoli allo sviluppo locale, intrappolano il paese in una spirale di crisi, con brevi momenti di crescita disordinata, e lunghi periodi di instabilità.

Durante una recente visita per conto della Good Shepherd International Foundation, nella Capitale, Luanda, e in alcune zone rurali nel nord-est del paese, ho potuto verificare quanto poco sia stato fatto in aree chiave per garantire alla popolazione sviluppo e godimento dei diritti fondamentali: infrastrutture, trasporti, educazione, sicurezza alimentare e protezione sociale.

Prima di tutto, trasporti e infrastrutture. In questo paese dall’ampia estensione territoriale (1.246.700 km²), la rete stradale rimane del tutto insufficiente e insicura. Nonostante gli investimenti ingenti degli ultimi anni, soprattutto da parte di partner cinesi, le vie di comunicazione più efficienti restano quelle intorno alla capitale mentre le zone rurali, per la gran parte, rimangono isolate e disconnesse dai centri maggiori, rendendo difficilissimo l’accesso ai servizi per oltre un terzo della popolazione (secondo i dati della World Bank, il 32% degli abitanti vive in zone rurali). I nostri partner locali, le suore del Buon Pastore e i loro collaboratori, hanno ripetutamente sottolineato come nelle zone rurali del Kwanza-Norte, le strade siano attualmente in una condizione peggiore di quella che avevano lasciato i coloni portoghesi al momento dell’indipendenza. Centinaia di villaggi, risorti dopo la distruzione sistematica condotta dalle forze dell’UNITA, negli ultimi 40 anni, sono ripiombati in una condizione di vita di pura sussistenza, principalmente a causa della mancanza di collegamenti e mezzi di trasporto accessibili.

A Luanda, non sono stati fatti gli investimenti in edilizia popolare necessari per consentire ai milioni di rifugiati interni di avere accesso ad abitazioni dignitose; si sono, invece, lasciati espandere vasti insediamenti informali in cui, ancora secondo la World Bank, vive il 63% della popolazione. Gli slum di Kikolo e Ndala Mulemba, che ho avuto modo di visitare, restano privi di fognature, elettricità, acqua corrente, nonché di scuole e servizi sanitari adeguati a una popolazione costantemente in crescita.

Ugualmente, nelle città delle province interne, le condizioni abitative restano molto precarie, con poche costruzioni moderne e attrezzate e una forte prevalenza di quelle tradizionali, senza luce, acqua e servizi.

Per quanto riguarda l’istruzione, quasi un terzo della popolazione rimane analfabeta: secondo USAID (2021) il tasso di alfabetizzazione è del72,28%.. La causa principale è la scarsità di scuole e insegnanti, soprattutto nelle zone rurali e nel sud del paese che si spiega anche con il fatto che la spesa pubblica è il 2,42% del PIL, quasi due punti al di sotto della media regionale (USAID, 2020). L’istruzione è uno strumento importante di promozione sociale ed economica, tenuta in alta considerazione anche nei contesti più remoti e impoveriti. Le famiglie chiedono di poter mandare i figli a scuola e anche gli adulti frequentano volentieri corsi di alfabetizzazione, quando sono disponibili.

Nonostante solo il 10% dell’ampio territorio sia coltivato, l’agricoltura è ancora l’attività principale delle famiglie, impiegando il 66% della forza lavoro femminile e il 52% di quella maschile (World Bank/ILO, 2021), ma rimane largamente ferma a un modello di piccola scala e -spesso- di pura sussistenza (80% sono piccoli agricoltori secondo l’IFAD), che serve a sostenere, precariamente, l’alimentazione delle famiglie e a generare piccoli guadagni con il commercio informale. Gli investimenti pubblici nel settore primario sono inadeguati (meno del 2% del bilancio dello stato nel 2021) insufficienti a coprire le necessità alimentari della popolazione.

La dieta delle famiglie, soprattutto nelle zone interne, è limitata ai prodotti di base, manioca, tuberi, fagioli e la malnutrizione infantile rimane a livelli molto elevati (37,6% nel 2015, secondo la World Bank). Coltivazione e raccolto sono effettuati manualmente dai membri delle famiglie, con carichi di lavoro estenuanti. È ancora la norma incontrare lungo le strade delle province interne, file di donne di tutte le età e bambini anche molto piccoli che trasportano enormi sacchi di tuberi, legna e attrezzi tenendoli sulla testa, in tutte le stagioni.

La sanità e gli altri servizi di protezione sociale non godono di condizioni migliori. Mancano ospedali e cliniche, ma soprattutto personale medico e infermieristico qualificato. I centri di salute, come quello gestito dalle nostre suore a Camabatela, hanno a disposizione pochissimi farmaci e attrezzature. Questo genera difficoltà, ad esempio a curare adeguatamente la malaria, con conseguenze assai preoccupanti come il moltiplicarsi dei casi di epilessia. Tanti bambini e adulti epilettici a causa del mancato trattamento della malaria, si ritrovano abbandonati o cacciati di casa perché ritenuti ingestibili e, in molti contesti tradizionali, si pensa che siano posseduti da spiriti maligni. Questa difficile condizione del sistema sanitario contribuisce ad alimentare il turismo sanitario, verso la vicina Namibia; soprattutto, fa lievitare il tasso di mortalità materno-infantile (69,4 morti su 1000 nascite nel 2021) e tiene bassa l’aspettativa di vita (62 anni).

Suor Marcelina, che durante la guerra ha gestito da sola la clinica di Camabatela, situata proprio sulla linea del fronte, curando da infermiera migliaia di pazienti e feriti, mi ricorda che “quando in questo paese si arriva a 50 anni, si fa una grande festa, non tanto per celebrare la vita, ma perché si è sopravvissuti alla morte”. Suor Rita, la responsabile del nostro ufficio locale, fa il conto che nell’ultimo anno tutto lo staff ha avuto almeno lutto tra i parenti prossimi (padre, madre, figli, fratelli) con un funerale in media a settimana e tutto questo per malattie generalmente curabili in altri paesi.

In questo fragile contesto, il patrimonio principale su cui possono contare le famiglie, è quello delle relazioni familiari e comunitarie. La protezione dei più vulnerabili è affidata a questa rete che però, purtroppo, non riesce a far fronte all’alto tasso di mortalità, soprattutto materna, che lascia un grande numero di bambini orfani o in condizione di alta vulnerabilità. In mancanza di un’adeguata rete di servizi sociali, questa diventa un’emergenza a cui possono far fronte pochi operatori sociali. Il punto di riferimento principale restano i religiosi, locali e missionari.

Durante una recente visita in un villaggio vicino a Camabatela, Suor Rita è stata chiamata di urgenza a visitare la capanna di un’anziana signora la cui figlia era morta da qualche mese di parto. La signora era, anche lei, in pessime condizioni di salute, tanto che giaceva incosciente con la nipote in fasce, di cui nessuno poteva più occuparsi, nello stesso lettino. Nessun servizio sociale avrebbe raggiunto in tempo questo villaggio e la bambina sarebbe morta insieme alla nonna. La casa di accoglienza che le suore hanno creato per offrire assistenza in casi come questo e ai tanti ragazzi epilettici allontanati dalle famiglie, non riceve alcun finanziamento statale, solo sporadici aiuti alimentari.

In questo contesto, gli enti religiosi restano senza dubbio fondamentali per la protezione e lo sviluppo umano e comunitario. Una delle pochissime istituzioni credibili oltre che fortemente radicate anche nei territori più impervi, a servizio dei più vulnerabili.

All’inizio di questa missione, ho avuto modo di visitare il museo della schiavitù, ospitato in una piccola costruzione del ‘600, arroccata su uno sperone di roccia affacciato sull’Atlantico. Attorno a questa casa in cui è vissuto uno dei più importanti trafficanti di schiavi del mondo, sono state radunate generazioni e generazioni di angolani, per essere venduti e trasportati verso le Americhe, dalla fine del ‘500 alla fine dell’800. Questa terra ha pagato un tributo umano stimato in quasi 6.000.000 di persone, per contribuire alla crescita economica di altri paesi. Questo dato mi ha fatto riflettere su quanto sia limitata la nostra capacità di stimare debiti e crediti tra nazioni, e quanto sia miope la quantificazione puramente “patrimoniale” dei “punti di partenza”.

Se l’Angola e altri paesi che hanno subito il traffico di schiavi potessero contabilizzare quello che hanno “perso” e quanto hanno fatto “guadagnare” alle altre nazioni, forse potrebbero arrivare a pareggiare i conti dei loro debiti infiniti con l’estero e salire qualche gradino nella scala dello sviluppo umano. Perché molte delle tragiche situazioni che ho documentato e che hanno turbato il mio viaggio in Angola forse sarebbero meno tragiche se il global north facesse passi concreti, anche in direzione dell’equità, per alleggerire il debito che grava sull’Angola e su tanti altri paesi africani.

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